Mai ci saremmo attesi che intorno
alla ormai leggendaria vicenda di Pietro da Morrone, (papa Celestino
V) si sarebbe potuto dire qualcosa di nuovo. Ed invece è accaduto.
Con i suoi bui meandri che conducono passo dopo passo al cuore dello spettatore.
Dove odi il rumore delle palpebre, con i suoi crudi interni. In un
limbo ove senti il piacere. Di comprendere.
Gli occhi... non sono ancora corrosi...
Due fantasmi di puttane emergono dalle infide cloache
di astuti orrori... Oh, quante magie ormai non giungono più televisivamente!
... Ma... a teatro!
Qui l'incanto della parola è nudo. Fra ossa
unicamente impregnate di gesti.
Attesi. Attenti.
Fiero. Il molisano Brunetti, un altro Flavio
che di quella terra sannita calca le scene, ci afferra le pupille con
la sua ferale sedia di insulti ed amarezze su cui c'inchioda.
In potere. Di lui. Uomo.
Eccoci ai nostri suoi tormenti. Il bene, il male.
Rupestri lividi sferrano ghigni. Alti. Derisi dai
travagli. Felicità. Deiezioni.
Stinge, la miseria.
L'autore immerge. L'attore graffia. Ed il regista
Sabelli armato di un poderoso metronomo scandisce il tempo di otto secoli
al ritmo delle croci che soffiano un sibilo di vento; sotto forma di chitarre,
corde, calzini stesi, tavoli e bigliardi irosi. Qui, silenzio. Qui aspro,
il volto, rotto dal suono della memoria.
Non v'è intralcio allo sguardo, nè
impenetrabilità all'emozione. Un Molise fermo. Nu cuorp'
atavico di spremiti, inutilmente sottesi dal ventre mai pieno, unicamente
ricolmo di peli. Bocche insane come i millenni, per il troppo masticar
respiro e fame.
Da questa faccia scalpello. In mutande. Il Molise
delle attenzioni... Delle acque troppo fonde, sole... Dei fiumi. Della
gente in piena, travolta per esser vissuta troppe volte.
Sulla paglia della riva galleggiano le macerie umide
della speranza. Eterna. Storta. Genuflessa e pia. Ma sempre invelenita
dalle assenze e dalle essenze! come uno sposalizio del pane con velenosa
rabbia.
Il padre antico Angelerio, approfittando delle parole
sputate fuori dal suo masticar la lingua, della Maria Leone chiede la porzione
di fregna.
E' come se chiedesse un'ancora ad un vuoto calice
per seppellirvi il proprio desiderio. E non appena, in quello sfregio d'amore,
la carezza del fuoco temuto fa cadere una primula -dolce- sulla pelle...
tu chiedi: "E' questa la vera morte!?"
Ma l'attore si inginocchia e tende la mano. "No.
E' solo un peccato eterno... E' il sapore della carne!"
Dammi la... Rimane fra la polvere il semplice
sesso dell'uomo.
Non v'è timore nell'insulto asprigno. Nè
dolore in quel verseggiar di gesti che come un poeta fallico Brunetti scaglia
sui troppi volti, vòlti al perbenismo.
Lo spettatore è in colpa: dovrebbe conoscere
i dettagli della vita del grande Angelerio.
Dovrebbe averne letto almeno l'autobiografia
apocrifa! per poter divertentemente capire che il testo è così
controcorrente e polemico che sarebbe piaciuto anche al futuro Celestino
papa. Un illuminista antelitteram. Un uomo più innanzi del
suo tempo. Uno spirito che della propria protesta è sicuro più
consapevole di Francesco di Bernardone.
Pietro Celestino costruì decine di conventi,
culturalmente floridissimi, ma si piccava di rimanere eremita ed invece
divenne papa. Francesco di Assisi, nato invece molto ricco, scelse
d'essere così povero che in vita sua non costruì niente,
mentre invece i conventi li costruì frate Elia! Sono due scelte
diverse, quale la più illuminata!?
Pietro, se non fosse stato per quel caratteraccio,
sarebbe potuto essere ricordato come un precursore dell'intellettuale religioso
del Rinascimento. Invece, per quelle sue ostinazioni alla povertà
è passato nella vulgata scolastica -ma non veritiera- come un pazzo
cretino!
Il testo di Brunetti è penetrante. Restituisce
appunto proprio della sua rivoluzionarietà, gli aspetti nuovi.
Ma per ragioni drammaturgiche, ahime' si affida troppo alla conoscenza
personale che del personaggio ha lo spettatore. Certe espressioni, certe
frasi, si gustano solo se si conoscono dettagli biografici precisi. Per
esempio, quando fa riferimento di sfuggita alla ritualità della
perdonanza di Celestino V come anticipazione della vendita delle
indulgenze di papa Bonifacio!
Almeno nella presentazione cartacea dello spettacolo
si sarebbero dovute precisare queste cose.
Ed ancora, si sarebbe dovuto aggiungere che la elezione
a papa di Pietro Angelerio da Morrone, non fu per niente una idea bislacca,
certo fu imprudente, in quanto i cardinali non tennero in dovuto conto
il bizzoso carattere dell'eremita isernino. Ma di per sé,
dal punto di vista intellettuale fu una scelta rivoluzionaria indovinatissima
per la chiesa. Era un modo per porre agli altari il progetto evangelico
di Francesco d'Assisi!
Il nostro isernino identificava una delle
correnti più innovatrici della cristianità di quel tempo.
Era l'uomo che aveva avuto il coraggio di accogliere
nelle sue scuole teologiche anche filosofi eretici costretti a fuggire
da Roma per le loro interpretazioni eversive del testo biblico!
Era inoltre uomo famoso e stimato da tutti i regnanti
d'Occidente. Era amato dai popoli europei, che lo conoscevano perché
spesso si parlava di lui per i suoi interventi generosi nei confronti dei
paesi colpiti dalla peste. Fu a Firenze quando... vi ricordate il Decamerone?
ecco, mentre le donzelle ed i signorotti amici del Boccaccio se ne migravano
in campagna per salvare la pelle, raccontandosi le peccaminose novelle,
il buon Pietro se ne stava con i suoi monaci ad aiutare gli appestati fiorentini!
Il fatto poi che fosse stato eletto al soglio pontificio
ottantenne non era per nulla penalizzante; per la storia della chiesa l'età
del papa non è stata mai un impedimento ad alcun ché, basta
pensare all'opera trasformatrice di Leone XIII, eletto anche lui vecchissimo:
i cardinali ritnevano che sarebbe stato una figura di transizione ed invece
non lo fu affatto, stessa cosa Giovanni XXIII, e poi altri.
La realtà è che i problemi sorsero
non perché Celestino V fosse avanti con gli anni, ma perché
coccia d' m'nton', testadura tipicamente molisana, si era incaponito
a dimettersi senza che gliene importasse un fico secco del danno che avrebbe
fatto, che andandosene avrebbe messo la chiesa in brache di tela, risollevando
l'annosa diatriba fra Re di Spagna, Re di Francia, Imperatori di Germania,
di Papa e Antipapa. Ebbe un comportamento da irresponsabile, costringendo
il cardinale Caetani, nelle vesti di papa Bonifacio VIII ad essere poi
con lui molto più severo di quanto avrebbe voluto e che, per non
correre altri rischi dopo la sua imprevista fuga, fu costetto ad imprigionarlo.
Il buon Pietro, nonostante l'età avanzata,
aveva una salute di ferro, era gagliardissimo, altro che un povero cristo
rincitrullito dalle preghiere e dai digiuni, come ci hanno vigliaccamente
insegnato a scuola!
Anche la leggenda, non dimostrata, della sua uccisione
lo sta ad avvalorare. Dovevano toglierlo di mezzo, assolutamente, perché
non sapevano quanti altri anni sarebbe campato, creando ulteriori problemi
di legittimazione al pontefice!
Tuttavia, il fatto che il suo teschio -a quanto
pare- possieda un buco sembra dar credito all'opotesi, sostenuta anche
da Brunetti, del chiodo assassino. La verità... chissà. In
effetti di pontefici passati a miglior vita con qualche aiuto ce n'è
stato più di uno e ciò viene ricordato anche sulla scena.
Doveva molto probabilmente essere anche un uomo
ironico l'intelligente cavernicolo di Isernia, e sicuro avrebbe
tratto godimento dal monologo di Brunetti se fosse stato presente in sala!
Alla fine di tutto. Rimane la cicatrice viva di
un raggio tagliente. La dissacrazione scenica. L'attor autore. Quell'istrionico
graffiare lo spazio, quasi a lasciarlo dipinto. Una voragine, nell'immaginario,
che ci permane anche mille ore dopo l'esser fuori.
E' appunto questa forza ribelle che il provocatore
Flavio Brunetti ci rende, a fare -di questo lavoro- un prodotto universo,
che in modo brillante evita il cerchio -di quella peste- di cui troppe
volte il Molise si è reso colpevole: l'angustia provinciale!
Dopo un giorno... viene ancora voglia di tornare
a teatro, questo è il successo di Flavio Brunetti.
Enzo Cicchino