La morte di Benito Mussolini e Claretta Petacci: Una verità a portata di mano
di Alberto Bertotto



"Uccidere un uomo è una tragedia e la motivazione che si dà a questo gesto non ne cambia la dimensione" (Landolfi E., Un certo Mussolini Benito "borgomastro a Gargnano", Edizioni dell'Oleandro, 1999)



Il recente e pregievole libro (Le ultime ore di Mussolini, Mondadori, 2005) di Pierluigi Baima Bollone, Professore ordinario di Medicina legale all'Università di Torino, riporta in auge, con buona pace di numerosi "Dongologi", la versione secondo cui Benito Mussolini e Claretta Petacci furono uccisi a Giulino di Mezzegra poco dopo le 16 del 28 Aprile 1945 davanti al cancello di villa Belmonte sulla strada carrozzabile (via XXIV Maggio) che congiunge la frazione di Giulino con quella più a valle di Azzano. Sulla scena dell'esecuzione erano presenti tre partigiani comunisti: Walter Audisio (Valerio), Aldo Lampredi (Guido) e Michele Moretti (Pietro). Le armi usate sarebbero state (il condizionale è d'obbligo) una pistola Beretta calibro 9 mm corto (matricola n° 778133) e un mitra francese MAS calibro 7,65 mm lungo (matricola n° F. 20830).
Baima Bollone (op. cit.) asserisce che sia Mussolini che la Petacci sono stati raggiunti da colpi sparati da entrambe le armi confermando così la tesi di un altro medico legale, Aldo Alessiani, secondo cui la morte del Duce e della sua amante fu provocata da due armi di cui una a colpo singolo ed una a raffica. Ciò si è desunto dalle diverse direzioni ed angolazioni dei colpi inferti (Alessiani A. Il teorema del verbale n. 7241, s. e. , Roma 1990, in L'Archivio "storia-history", reperibile per via telematica). Degno di nota a tal proposito è stato il riscontro di due proiettili calibro 9 mm corto trovati tra i resti mortali di Claretta Petacci in occasione di una esumazione della salma avvenuta nel 1947 ( Baima Bollone P., op. cit.).
Dopo l'esecuzione, la pistola Beretta calibro 9 venne donata da Aldo Lampredi ad Alfredo Mordini (Riccardo), capo del plotone dei partigiani dell'Oltrepò pavese che uccisero a Dongo i gerarchi della Repubblica Sociale Italiana nel tardo pomeriggio del 28 Aprile 1945, perché la custodisse in ricordo suo e dello storico compito a cui era servita. La pistola, dono della vedova Mordini, è attualmente custodita nel Museo storico di Voghera (Bernini F., Così uccidemmo il Duce, C.D.L. Edizioni, 1998). Il mitra francese MAS calibro 7, 65 apparteneva invece a Michele Moretti commissario politico della 52° Brigata Garibaldi che catturò i componenti della colonna Mussolini, Petacci inclusa, il giorno prima (27 Aprile) nei pressi del paese di Musso poco distante da Dongo. L'arma requisita dal colonnello Valerio dopo il fatto di sangue è stata data dallo stesso in omaggio al Museo storico nazionale di Tirana (Albania) che dal 1980 la espone al pubblico ( Vacca G., Sinani S., Vi regalo il mitra che ha sparato al Duce, in "Corriere della Sera", 31 luglio 2004).
Come si può leggere nella postfazione del libro di Luciano Garibaldi dal titolo: La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? (Ares, 2002), il coinvolgimento di Aldo Lampredi nell'uccisione del Duce e della Petacci è autorevolmente sostenuto da Massimo Caprara segretario, ai tempi di Dongo, del leader del Partito Comunista Italiano (PCI) Palmiro Togliatti da cui Caprara apprese la notizia. Da allora l'identità di Lampredi, miliziano della Ceka, fu accuratamente celata come il Komintern era uso fare per coprire gli uomini dei "servizi bagnati" cioè di sangue. Anche Marcello Staglieno nel suo Arnaldo e Benito. Due fratelli (Oscar Storia Mondadori, 2004) ritiene Aldo Lampredi un probabile esecutore. Dello stesso parere è pure Ambrogio Viviani, un generale dei servizi segreti di casa nostra ( Viviani A., La fucilazione del Duce, www. Il Duce. Net, reperibile per via telematica). Insieme ad altri (Saini E., La notte di Dongo, Casa Editrice Libraria Corso, 1950; Monelli P., Mussolini piccolo borghese, Garzanti, 1972; Bianchi G,., Mezzetti F., Mussolini Aprile '45: L'epilogo, Editoriale Nuova, 1979), il giornalista e storico Franco Giannantoni afferma invece che il tirannicida fu Michele Moretti e ciò si evince leggendo il libro intitolato : "Gianna" e "Neri": vita e morte di due partigiani comunisti (Mursia, 1992). Walter Audisio, infine, si è più volte proposto sulla carta stampata come giustiziere di Mussolini. Basta a tal riguardo citare il libro comparso dopo la sua morte dal titolo : In nome del popolo italiano edito da Edizioni Teti nel 1975. La raffica mortale che attinse il Duce e la Petacci sarebbe stata sparata dal mitra MAS calibro 7,65 datogli dal Moretti perché il suo Thompson americano si era inceppato. Un ragionamento induttivo ha permesso a Luciano Garibaldi di giungere alla conclusione che ad uccidere Mussolini siano stati partigiani comunisti dietro l'imput dei servizi segreti inglesi (Garibaldi L., op. cit.), opinione per altro condivisa da un eminente studioso del Fascismo (Panza P., De Felice "I servizi inglesi dietro la morte del Duce", in "Corriere della sera", 18 novembre 1995). Poco credibili sono, infine, quelle versioni sulla morte del Duce che prevedono l'intervento di partigiani non compresi nel terzetto formato da Audisio, Moretti e Lampredi (Borzicchi F., Dongo. L'ultima autoblinda, Ciarrapico Editore, 1984; Vannozzi E., La fucilazione di Mussolini. Una storia riscritta, La Cartotecnica, Grosseto, 1989).
Dall'esame del verbale autoptico di Mussolini e di fotografie, ottimizzate con l'ausilio di programmi elettronici e di metodi automatici, scattate a piazzale Loreto e all'obitorio milanese di via Ponzio, Baima Bollone (op. cit.) è portato ad avallare la versione di un sedicente testimone oculare: il partigiano comunista Guglielmo Cantoni (Sandrino), uno dei due carcerieri del Duce prigioniero a casa De Maria. A sparare a Mussolini sarebbero stati Audisio con la pistola e Moretti con il mitra secondo le modalità operative usate dai commando gappisti che prevedevano prima il ferimento dell'addome e poi quello fatale del tronco, come accaduto il 18 Dicembre 1944 per l'omicidio del Federale di Milano Aldo Resega. Si deve però notare che il Cantoni non è un personaggio affidabile avendo più volte smentito anche per iscritto (sull'Unità) quanto in precedenza rivelato non per amor del vero ma bensì per lucro (Pisanò G., Gli ultimi cinque secondi di Mussolini, Il Saggiatore Net, 2004). Per caratterizzare meglio il personaggio, è sufficiente ricordare che lo stesso ha anche affermato che nella notte tra il 27 ed il 28 Aprile era dovuto intervenire per impedire effusioni amorose preagoniche (sic!) tra il sessantaduenne Duce e l'amante Claretta (Baima Bolone P., op. cit.).
In tale contesto ritengo opportuno riportare quanto asserito dall'ingegner Luigi Carissimi Priori uno dei custodi del fantomatico carteggio Churchill-Mussolini (Andriola F. Mussolini-Churchill. Carteggio segreto, PIEMME 1996). Carissimi Priori, un ex partigiano azionista dai trascorsi avventurosi, degno di fede e di onestà adamantina, è stato dopo la liberazione commissario capo dell'ufficio politico della Questura di Como. Indagando sugli avvenimenti che condussero alla morte di Mussolini giunse a conclusioni riportate in sordina in un libro (Mussolini Churchill. Le carte segrete, Datanews, 1998) scritto dallo storico e giornalista comasco Roberto Festorazzi autore, tra l'altro, del ben più noto saggio I veleni di Dongo (Il Minotauro, 2004) dove è descritto il destino finale dell'epistolario più scottante del XX secolo. Ingiustamente trascurato dalla folta schiera degli addetti ai lavori, il racconto di Carissimi Priori merita la dovuta considerazione perché lo stesso, dopo la liberazione, aveva ricevuto da Parri, Cadorna e Mattei, ossia dai vertici non comunisti del Corpo Volontari della Libertà, l'incarico ufficiale di far piena luce sui fatti accaduti il 28 Aprile a Giulino di Mezzegra.
Dice testualmente Carissimi Priori "A cinquant'anni dalla fucilazione del Duce ho sottoscritto con altri, a nome dell'Istituto comasco per la storia del movimento di liberazione, una dichiarazione che riporta la versione autentica dei fatti ponendo definitamente fine a ipotesi fantasiose circa la morte di Mussolini, alcune delle quali addirittura sciocche, come quella della doppia esecuzione. Su questo episodio hanno scritto in molti. Ma nessuno è venuto a vedere come fossero andate le cose. Io ho ascoltato i protagonisti e molti testimoni e tutte le versioni da me raccolte concordavano. L'unico dubbio che mi è rimasto è da chi sia partito il primo colpo. Le cose sono andate in questi termini. A Giulino di Mezzegra, davanti al cancello di villa Belmonte era presente soltanto un terzetto di partigiani composto da Walter Audisio, Michele Moretti ed Aldo Lampredi. Tutti e tre hanno usato le armi. Ma, fra questi, probabilmente chi ha sparato di meno è stato Audisio, che era il tirapiedi di Longo, e non aveva mai preso in mano un' arma in vita sua. Debbo dire che, quando interpellai i tre protagonisti, ricavai l'impressione che nemmeno loro sapessero bene chi avesse ucciso il Duce. Era evidente che avevano agito in concorso tra di loro. Forse ci fu un diverbio, nell'attimo in cui avvenne il passaggio delle armi da Moretti ad Audisio, qualcosa di simile ad una collutazione. Quel momento concitato venne "rimosso" nella versione ufficiale che, pur essendo in linea di massima attendibile, risulta come dire "ripulita". E' stato anche detto che nello scenario della fucilazione di Mussolini ci fossero stati gli inglesi. Ma figuriamoci se potevano esserci gli inglesi intorno. Io lavoravo a stretto contatto con loro e certamente lo avrei saputo". Carissimi Priori aggiunge anche "L'ipotesi più probabile è che il primo colpo sia partito accidentalmente dal mitra di Moretti, esploso da quest'ultimo mentre l'arma gli veniva strappata di mano con violenza da Audisio". Festorazzi chiosa a conclusione "In definitiva, alla luce della testimonianza di Carissimi, senza riaprire di nuovo un caso che si può a ben vedere ritenere concluso, Moretti, Audisio e Lampredi furono tutti e tre ugualmente coinvolti nell'episodio della fucilazione e, in mancanza di elementi certi che ci possano consentire di dirimere la questione dell'effettiva paritarietà del loro intervento a Mezzegra, possiamo affermare che i colpi da loro esplosi furono tutti determinanti".
Se Mussolini morì "male", come afferma alla fine del libro Baima Bollone (op. cit.), ciò non fu certo per demerito suo. Indubbiamente qualche fatto da tenere nascosto accadde in quel pomeriggio del 28 Aprile davanti al cancello di villa Belmonte. Per tacere che era purtroppo avvenuto qualcosa di inatteso perché non voluto e che non conveniva raccontare, si fece di tutto al fine di rendere verosimile una fucilazione che rispettasse i canoni convenzionali di una esecuzione capitale, incluso un colpo di grazia alla nuca che è risultato post-mortale all'esame necroscopico (Alessiani A., op. cit.; Baima Bollone P., op. cit.). Il racconto di Carissimi Priori, compatibile con i riscontri autoptici diretti ed indiretti sulla salma del Duce (Baima Bolone P., op. cit.), può, pertanto, aiutare a capire i motivi che hanno contribuito al persistere di silenzi e reticenze per ben sessant'anni. Il tutto in un'ottica disinformatrice minuziosamente concordata tra i vertici del PCI e quelli sovietici. Da qui il falso deliberato e la nascita di una vulgata che vede il solo Walter Audisio nel ruolo di giustiziere di Mussolini in nome del popolo italiano. A questa si oppone un'altra vulgata altrettanto refrattaria alla verità storica e probabilmente altrettanto perniciosa (Chessa P., De Felice R., Rosso e Nero, Boldini & Castoldi, 1995) che prevede la fucilazione di due cadaveri "morti da un pezzo" e la passeggiata di due sosia tra le case di Giulino nella scena finale di una commedia che ha per trama la vita di un uomo che ha proiettato la sua ombra inquietante su tutto il XX secolo (Bandini F., Vita e morte segreta di Mussolini, Le Scie Mondadori, 1978; Andriola F., Appuntamento sul lago, Sugarco 1990; Lazzaro U., Dongo. Mezzo secolo di menzogne, Oscar Storia Mondadori, 1993; Zanella A., L'ora di Dongo, Rusconi 1993; Bernini F., op. cit.; Garibaldi L., op. cit.; Pisanò G. op. cit. ; Tompkins P., Dalle carte segrete del Duce, Il Saggiatore Net, 2004).
Nel 1978 Franco Bandini (op. cit.) ha affermato che "la fine di Mussolini e di Claretta nasconde sempre, è ovvio, un mistero. Ma questo è sepolto in una coscienza che non è la nostra. Noi non possiamo né penetrarvi, né risponderne". Se è questione di coscienza credo che quella di Carissimi Priori sia stata più che pulita quando ha voluto dare la sua versione sui fatti di sangue avvenuti in quel lontano pomeriggio del 28 Aprile 1945 lungo la sponda sinistra del lago di Como. La stessa coscienza gli ha impedito di barattare le carte top secret del Duce con emissari dei servizi segreti inglesi in cambio di una favolosa somma di sonanti sterline. Non trovando lavoro in Italia, fu, infatti, costretto ad emigrare in Spagna, dove fece fortuna, con sole poche lire in tasca ( Festorazzi R,. I veleni di Dongo, op. cit.).
Sebbene "la storia non può incidere ancora con certezza assoluta sulle pagine marmoree né il nome di chi ha sparato a Mussolini né il luogo della morte" (Zatterin U., Prefazione a Fastorazzi R., I veleni di Dongo, op. cit.), la voce di Carissimi Priori esce decisamente fuori dal coro "in un epoca in cui gli uccisori di Mussolini affollano giornali, rotocalchi ed editori e offrono "a tre palle un soldo" testimonianze e rivelazioni a prima vista assurde" (De Felice R., op. cit.). E' sufficiente menzionare a tal proposito la rocambolesca versione dei fatti data dall'ex partigiano Bruno Giovanni Lonati (Giacomo) (Quel 28 Aprile. Mussolini e Claretta: la verità, Mursia 1994). Essa è stata recentemente riproposta da canali televisivi nazionali ("Enigma", Rai Tre, 31 gennaio 2003; Forenza M.L., e Tompkins P., Mussolini-L'ultima verità, nella serie "La Grande Storia", Rai Tre, 30 agosto e 6 settembre 2004) e sostenuta dal suo epigone Peter Tompkins (Tompkins P., op. cit.; Fiori S., In Italia troppi silenzi, In "La Repubblica" 29 agosto 2004). Ad uccidere il Duce e la Petacci sarebbe stato un commando italo-inglese agli ordini del temerario ed impavido capitano John dei servizi segreti d'oltre manica. Il racconto segue la falsa riga di un fumetto e non ha nulla a che vedere con la cronistoria di un atto di guerra dall'alto valore simbolico. Solo una mente fantasiosa poteva, ad esempio, escogitare la fatidica parola d'ordine pronunciata da Giacomo "Andiamo a fare una bella gita" e la relativa risposta "So io un bel posto" data da un fantomatico fiancheggiatore dei killers al momento del loro primo incontro. Ed è altrettanto assurdo immaginare che il discorso tra la coppia di reclusi ed il giustiziere senza macchia possa esordire con il tradizionale "Buon giorno" come di norma avviene tra persone bene educate. Un fraseggio che niente ha da invidiare a quello del pari inverosimile riportato dal colonnello Valerio nelle sue poliedriche versioni di quei concitati momenti: "Ti offro un impero" avrebbe risposto un tremolante Duce a chi gli prometteva una illusoria ed imminente liberazione per sottrarlo alle grinfie di un infausto destino (Audisio W., op. cit.).
Anche se uno studioso del Fascismo, noto per il prestigio della sua monumentale biografia del Duce, Renzo De Felice, ha affermato che "la morte non è stata la cosa più importante della vita di Mussolini" (De Felice R., op. cit.), il conoscere "la verità sulla morte del Duce è stata, è e sarà uno dei nodi cruciali della storia del nostro Paese" (Garibaldi L., op. cit.). Ritengo, pertanto, che queste mie brevi considerazioni sull'evento in questione aiutino chi è interessato all'argomento a orientarsi tra punti fermi e una ridda di azzardate e fantasiose ipotesi.

 

 

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