Appunti di
Vitaliano Brancati
relativi ad un incontro
con Mussolini

 

Giugno 1931

Mussolini mi riceverà la sera del 16 giugno, a Palazzo Venezia.
Il quattordici, parto da Catania, con una valigia che mi sembra tutta piena di quella copia speciale di Everest, che devo consegnare a lui.
Non c'è luna. Il viaggio scivola in un'ombra semideserta. Divido la mia cabina con un viaggiatore veramente notturno: uno di quegli uomini che, talvolta, vorremmo sostituire ai compagni ingombranti e vocianti, col gusto di chi spegne la lampada rossa e accende la lampada blu. Se sporgo il viso dal finestrino, ho l'impressione che l'odore delle zagare sbatta come un tessuto bianco e forte.
La Sicilia se ne va lentamente, misteriosamente, e mi ricorda una famiglia di ospiti, alti e con le mani rosse, che venne ad abitare a casa mia, quand'ero fanciullo, e poi, dopo aver parlato oscuramente un'intera notte, ed essersi rimescolata, e sciacquata la bocca, ed aver chiamato qualcuno dalla finestra, se ne andò per via di mare.
L'Etna si gira e rigira nel cielo blu, ma non si smuove. Il mare cresce da tutte le parti. L'odore delle zagare somiglia ora vagamente ad un odore di spicanardo conventuale.
Mi appisolo, con l'impressione di poggiare la guancia sopra una pietra in cui sia scolpito: "È la prima volta che vedo Mussolini da solo a solo". Mi sveglio, poiché la l della parola Mussolini mi punge le tempie.
"Che strano sogno!" mi dico. Il mio compagno di viaggio è diventato ancora piú scialbo, piú ricantucciato, piú immobile: ha gli occhi aperti, ma sono due occhi per modo di dire e potrebbero meglio essere due lucciole.
"Che significa la presenza, sulla terra, di un uomo cosí opaco" mi chiedo in silenzio "e di un altro come Mussolini"?
Da tempo, l'umanità mi si è ingrandita agli occhi come una scala di un verso. È la cosa piú grande che conosciamo veramente. Si parla di creatori e di cose create; ma di creatori, nel mondo, non abbiamo visto che il padre e la madre; di cose create non abbiamo visto che i figli. Se Dio ci parla, è attraverso gli uomini che lo fa. In un mio dramma "Il viaggiatore dello sleeping N. 7 era forse Dio?" qualcuno dice: "Egli [Dio] ci parla, talvolta, dalla bocca di un bambino, ci si presenta in forma di viaggiatore misterioso. L'universo è pieno delle trasfigurazioni di Lui".
Siano vere o no queste parole, bisogna avere sempre verso gli uomini un infinito rispetto e saper distinguere, con orecchio fine, nella loro voce, i toni sovrumani.
Trovo Roma chiusa, compatta nella sua afa. I corpi hanno un peso e un isolamento singolari: donne e monumenti si somigliano.
La notte, credo di dormire con la guancia sopra un cuscino pieno di rondini, tanti sono i pigolii, le strida, i gorgheggi che sento.
Mi sveglio. È l'alba. L'aria s'è addolcita.
So che, di mattina, Mussolini in blusa bianca cavalca pei viali di Roma.
La luce deserta ne isola meglio l'immagine. Penso: "Fra poco lo vedrò".
Infatti, verso sera, mi reco a palazzo Venezia. Un usciere conosce già il mio nome, mi affida a un maggiordomo, che mi guida per lo scalone e, incoraggiato dalla mia aria di ragazzo, si congratula con me, vivamente a bassa voce, poiché "è la prima volta che il Presidente riceva un giovane... cosí giovane".
Entro in una sala d'aspetto, con quadri ottocenteschi e ceramiche romane. Un balconcino dà in una terrazza piccola, appartata, ove non mi stupirei di veder passeggiare in doppia fila e vestite, i maschi di nero, le femmine di bianco, delle colonne straordinarie. Un quadro romantico: "Passeggiata sentimentale delle colombe".
Poi la sera scende.
Sento, con una nettezza massiccia, che Mussolini è a oriente, in quel palazzo silenzioso, ove tutto ciò che è viso, aspetto, esistenza d'altri uomini, che non siano lui, riluce poco, riluce male, non s'avverte.
Poco dopo, una voce: - Vitaliano Brancati! - e un usciere mi guida attraverso delle sale, al cui fondo brilla una chiusa porta bianca.
La porta si ingrandisce, si isola, s'avvicina e nello stesso tempo si sottrae, come se, fra poco, dovesse sfuggire alla mano, rimaner sempre a destra o a manca del gesto con cui si vorrà aprirla.
Invece s'apre e vedo Mussolini.
Tutta la sala intorno a lui brilla - pavimento, mobili scuri, pareti - e si ha per un attimo l'impressione che debba specchiarlo. Ma la figura di lui è grande, sola, unica, nella sala, in mezzo a questi riflessi che non avvengono, in mezzo a questa inutile volontà di, specchiarla, ch'è nelle cose intorno. (Penso a un quadro: "Decadenza degli specchi" e in questo pensiero perdo un po' della mia trepidazione).
Saluto e mi fermo.
Mussolini lascia la finestra e, con una voce a me sconosciuta, tanto è morbida: - Avanti, Brancati! lo vi conosco... Ho letto questo vostro lavoro. Che ne avete fatto adesso?
M'avvicino; parlo.
Sento la sala dietro di me, come un vuoto che piú m'attacca a quella massiccia figura d'uomo, quasi mare a un'isola.
Sento anche l'Italia, che gira intorno, da vicino e da lontano, immensa ruota di cui l'asse è lí nella sala, a pochi passi da me. Roma è il primo cerchio della ruota.

Mussolini s'informa della mia attività. Gli piace il titolo del romanzo, che pubblicherò fra poco: "L'amico del vincitore". Mi dice che lo leggerà e che poi mi dirà il suo pensiero. Quindi, mi parla degli artisti nuovi. Ha letto un grande numero di romanzi, apparsi quest'anno. Di uno, che è fra quelli che io non ho letto, mi narra la trama, con la secchezza di chi stringe e riduce al suo pugno un oggetto troppo inutilmente voluminoso. Su "La vita" di Tombari dà alcuni giudizi, di qualità straordinaria.
Fra l'altro, mi dice che "Roma è quattro città" e s'illude di descriverla chiunque la riduce ad un interno di salotto frivolo, ad una conversazione tra ragazze mondane.
Ma non soltanto dei vivi, egli parla. Adesso ricorda Fausto Maria Martini, il quale, poco tempo prima di morire, gli diceva che avrebbe scritto un'opera larga, distesa, anche lui scosso dal senso del grande.
Poi mi chiede se io abbia la preoccupazione della forma e mi cita un pensiero di Anatole France. Mi chiede quale metodo io segua per ordinare i personaggi e i particolari, prima della composizione; e mi insegna i metodi di Balzac, di Tolstoi e di Zola, simpatizzando evidentemente con l'opera di questi colossi, che anche loro muovevano masse sterminate d'uomini.
Mentre egli parla, ora appoggiato al tavolo, ora diritto, con una semplicità di squisita eleganza civile, io penso a tutti i luoghi comuni che son fioriti anche intorno a lui.
Penso, prima di tutto, a coloro che, ad ogni costo, vogliono vedere in Mussolini l'ombra di Napoleone, il gesto di Napoleone.

La piú dura offesa che si possa fare a un grande uomo moderno, creatore di sé, è quella di paragonarlo a un altro, sia pur colossale, di un'epoca diversa o anche della stessa epoca. Le forti personalità sono in tanto delle personalità, in quanto non imitano le altre, nascono con dei caratteri nuovissimi, mai esistiti, inconfondibili. Mussolini somiglia all'ottocentesco, per metà romantico, per metà fastoso, ornato di sciabola e bruciato dalla tisi, ancora non guarito dei sogni affannosi del borghese che odia e adora il sangue blu, violento deificatore della sua famiglia e confusamente preoccupato dei confusi "diritti dell'uomo", sognatore di un impero e incosciente creatore di nazionalisini, chiaro ed amaro nella sua grandezza, Napoleone Bonaparte, come una quercia somiglia ad un pino o un fiore di agosto somiglia a un fiore di maggio.
Eccolo lí, Mussolini con la sua giacca estiva e la sua voce cordiale e calma.
In questo momento, egli si riposa di quello che è venuto a fare nel mondo. Stanotte egli dormirà, di un sonno certamente duro e giovanile; ma ciò che egli farà domani è sulle ginocchia del Destino. E siccome al turbine, al grande di domani, come italiano e come scrittore, vi parteciperò anch'io, guardo la fronte di lui, e, malgrado la semplicità e la tranquillità, per un momento la vedo come una chiusa cartina del tempo, una severità di avvenire.
Però, sotto quella semplicità d'uomo moderno, un'altra semplicità si nasconde. È la liscia nettezza della personalità eccezionale e potente; l'esterno dell'uomo che non sarà mai dominato, esterno senza appiglio, alto, quasi monotono, su cui è inutile tentare la scalata.
E allora quest'uomo, in giacca estiva e larga, si presenta come il monolite. Tutto un pezzo: ma se un tal pezzo si trova in una sala, la sala pare gli giri inforno; se si trova in mezzo ad una folla, la folla gli rigurgita e bolle intorno; se si trova in mezzo a un popolo, il popolo gli fa cerchio, si dispone a piramide e lo accetta spontaneamente per vertice... Nelle lontananze del mondo, avviene intanto il riflusso, il movimento inverso di chi, urtato in una direzione, per equilibrare va nella direzione opposta; e il rammarico di non vederlo, e il sospetto, e la paura, e la strana possibilità di non rimanerne colpiti, data la distanza, provocano per un attimo, nelle terre lontane, l'ondeggiamento dell'avversità.
Mussolini mi chiede, ora, se, secondo me, Everest è rappresentabile.
Gli dico: - All'aperto.
- Perché?
- È un lavoro basato sul senso dell'alta montagna, sulla vertigine che diventa clima normale. Soltanto all'aperto, tutto ciò si può rendere. Con grandi mezzi, è possibile avere uno spettacolo classico, scolpito in un senso mitico, chiuso da una danza... Io modificherei il finale, sostituendolo con un'ascensione sull'Alpe.
Egli mi dichiara che rileggerà Everest e che poi mi farà sapere...
Lascio la sala; prima di uscire, mi volto e saluto.
Mussolini è nel fondo.
Sento la novità del tempo, con singolare precisione. Penso a tutte le cose che son morte e che non sono state ancora rimosse.
S'è creduto fino ad oggi - io non so come - che orgoglio e dovere di ogni personalità siano quelli di non riconoscere altra personalità, di non simpatizzare, di non accordarsi.
Da tutti è stata adottata una frase di chi viveva al tempo di Napoleone: - lo l'ammiro, ma appunto perciò l'odio.
È possibile che sia stato vero tutto questo? e che una simile frase sia piaciuta tanto?
Abbondanza di personalità è riconoscerne delle altre, creare, in se stessi e nel proprio mondo, lo spazio per altre personalità. Siccome è affidato a noi l'ammettere delle grandezze individuali ed estranee, quanto orgoglio, quanta forza, quanta tenerezza non ci sono, nel dire: - Colui è un uomo forte ed io l'amo.
Del resto, la frase: - lo l'ammiro e appunto perciò l'odio - è di una donna, di una piccola donna stizzosa, della Regina di Napoli.
L'eroe ad ogni costo, l'eroe ribelle ottocentesco, è un organismo assai gracile nella sua violenza. Come chi non conosce una lingua, egli è sempre allarmato, irritabile, e sospetta in ogni parola di altri un'offesa a lui.

Io sono nato in un'epoca d'asfissia.
Ricordo che non c'era nulla da fare; che sedevo, bambino, in un mondo ove tutto pareva finito; e il dubbio di vivere era cosí grande da togliere anche il pensiero della morte.
Egli, l'uomo che ho visto pochi minuti fa, apparve come un nuovo senso della vita.
Io non so bene chi egli sia e non lo giudico storicamente, anche perché la sua opera non è compiuta... Ma egli è certamente un senso della vita; e in lui parla qualcosa che mi fa trasalire.
Dall'essermi accertato alla sua figura fisica, m'è rimasto un grande rombo, nella memoria; come di sorgente.
Forze sconosciute si sono agitate in me. I tempi sono gonfi; e, siccome i tempi non esistono, la mia anima è gonfia.
Perché non si dovrebbe rinnovare la letteratura?



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