Quando morì l'uomo della sacra Sindone?
di
Aldo Alessiani
La DOMANDA sembra oziosa; se l'uomo della Sindone è Cristo, trapassò alle tre pomeridiane di un venerdì. Poiché al tramonto di quel giorno subentrava il sabato, la inumazione non poteva essere fatta dopo tre ore o poco più, tanto è vero che la preparazione del corpo al seppellimento fu interrotta e rimandata al primo giorno della settimana seguente. Era di domenica il primo giorno, per noi festiva, ma per gli ebrei no.
Ora facciamo un conto: nove ore restano fino alla mezzanotte del venerdì, ventiquattro per tutto il sabato, quanto alla domenica poniamo una incognita per difetto non potendo essere precisi sul momento della risuscitazione che dovrebbe appartenere al terzo dì conclamato secondo i canoni teologici. Comunque il terzo dì dobbiamo porlo almeno al sorgere del sole altrimenti non è il terzo. Totale: 9 + 24 + 6 = 39.
Che accadde in trentanove ore di sepoltura? Per qualsiasi defunto i fenomeni cadaverici si configurano spontaneamente e si susseguono in maniera costante con alternanze di minimo e massimo. Sono il raffreddamento dal corpo, la rigidità, il rilasciamento, le macchie ipostatiche. Queste ultime sono così categoriche da fare diagnosi di morte certa; il loro carattere è distinguibilissimo per la colorazione rosso-vinoso-violaceo.
Si dispongono per gravità in quelle parti della salma sulle quali decombe talché se essa è in posizione supina confluiscono dalla nuca ai polpacci ed al collo del piede. Rispettano una precipua geografia: laddove il cadavere poggia sul piano, sono meno configurabili, (spalle, natiche, ecc.) più laddove tale pressione non si verifica (arcuazione posteriore del tronco, faccia posteriore delle cosce fino al terzo superiore delle gambe e delle braccia se queste furono in posizione parallela all'asse del cadavere).
Il fenomeno già si instaura da due o tre ore dopo la morte; in dodicesima ora sono complete ma possono migrare in parte se si rimuove il corpo in altra posizione, poi, verso, la quarantesima ora sono stabili. Da qui l'analisi se il cadavere subì manomissioni di posizione. In breve tutto il sangue venoso, compresi nei visceri interni, segue tale legge; superficialmente, le ipostasi si diffondono sotto la cute per una particolare fluidità del sangue che si raccoglie man mano nelle zone declivi.
Gli antichi definirono tutto questo "livor mortis". Subentrarono i fenomeni trasformativi di decomposizione. Chiaro: ma la Sindone che c'entra? Certo, non poteva fotografare una colorazione del corpo diversa e tutta fine a sé medesima. Macchie ipostatiche concretizzatesi sì ma non rintracciabili in quella parte del lenzuolo sottostante al trapassato e sulla quale è adagiato. Non avrebbero potuto dare credenziali d'esistenza se non ad una condizione: una sola, ma determinante.
Facciamo un conto approssimativo: l'uomo della sindone è alto e già in dodicesima ora, il sangue fluido delle ipostatiche poteva assommarsi in un litro e mezzo, diffusosi dalla nuca alle caviglie e sotto lo strato più superficiale della pelle; se fosse defluito all'esterno per lesioni pre-esistenti al decesso sarebbe colato illimitatamente sulla superficie sulla quale il corpo era disteso e nella fattispecie la parte del lenzuolo sottostante al cadavere. Valido il ragionamento se la cute era lesionata, altrimenti no. Sì, era lesionata ed enormemente dalla flagellazione; sulla Sindone a contatto con la parte posteriore del corpo depostovi si notano, a detta di tutti, i segni della fustigazione tanto da identificarne l'impronta degli strumenti usati per quella. In particolare si identificano i terminali delle corregge: due palline metalliche (piombo?) coassiali. Tante coppie di palline coassiali colpenti/altrettante corregge fustiganti.
Le impronte di questo evento danno un'idea di un fatto incredibile: centotrenta ad occhio e croce battiture micidiali. A parte il fatto che nessun uomo avrebbe potuto reggere ad un trauma così tremendo e choccante. Non una punizione dunque ma già una esecuzione capitale da rendere perfettamente inutile un ulteriore mezzo di morte, qui la croce. Ammenochè sulla croce non si fosse inchiodato un deceduto ai fini d'ammonimento spietato.
Dopo centotrenta traumi di tal genere il Cristo non muore, anzi si carica la croce sulle spalle, sale al Calvario, magari male in arnese, ma sale; non basta, è trapassato da chiodi e malgrado tutto ciò, ci campa ancora tre ore. La cute del suo dorso doveva essere un orrore; lesionata dalla cute ai polpacci non può non sanguinare. Deve avere in sé, quella cute, le ferite degli strumenti flagellanti e ancor più dei suoi doppi terminali metallici. Un colabrodo insomma.
Ma allora perché da tante porte aperte, una miriade di porte aperte, quando le macchie ipostatiche, nel sepolcro, si saranno concretizzate, non seguitano a secernere il sangue? Questo ha ben trentanove ore per gocciolare incessantemente e con i caratteri della non coagulabilità. La parte inferiore della Sindone sarebbe dovuta essere totalmente imbrattata da quel sangue che trovando tanti emissari artificiosi, inarrestabili, sarebbe secreto per tutta la figura dalla nuca ai piedi rendendo così non visibile o non percettibile l'immagine.
Tutto al contrario: l'immagine è riscontrabile chiaramente in tutti i suoi settori e tanto da far contare le fustigazioni, ma di macchie di sangue, che sarebbero dovute confluire in enormi chiazze, nessuna traccia. Anzi avviene l'opposto: la parte superiore della Sindone a contatto con il viso, polsi, costato reca impronte ematiche contravvenendo così alla forza di gravità, più logica per l'altra parte del telo, quella su cui poggia con tutto il suo peso, l'intero corpo. Vogliamo dire per salvare il salvabile che il Cristo aveva perso, prima di morire, tutto il sangue per cui, in lui non ne restava più nemmeno una goccia? Oppure che gli strumenti flagellanti erano delle banali funzioni più innocue della puntura d'una zanzara? Ma allora perché l'impronta di quelle, tanto da tramandarsi alla pietosa venerazione? Facciamo una disamina: Il Cristo della Sindone non era per niente morto; una volta deposto nella tomba chiusa, si alza prontamente e lì si attarda pazientemente. Non si stende sulla Sindone finché le lesioni della flagellazione non rimarginassero miracolosamente. Poi vi si corica, lasciando ai posteri la sua immagine straordinaria non compromessa nella sua visualizzazione.
Oppure: il Cristo, con la Sindone, non ha nulla a che spartire e a chi appartiene quella figura non lo si saprà comunque, un altro cadavere, con le stesse lesioni non avrebbe potuto comportarsi diversamente da come abbiamo precisato. La mancanza di chiazze ematiche nel lenzuolo inferiore (modo di dire perché era tutt'uno e ripiegato all'altezza del capo) non può escludere uno sfacciato artifizio.
Ed allora il problema resta soltanto come soluzione difficile di un grande imbroglio. L'imbroglio ci deve stare per forza: tutto conduce alla creazione di una emotività smaccata, programmata, studiata fino alla esagerazione. Nessuna legge romana prevedeva un numero così inverosimile ed incompatibile con la sopravvivenza di colpi flagellanti.
I flagelli erano a tre strisce di cuoio e il percuotere il malcapitato doveva essere ripetuto per un massimo di 13 volte (Legge Porcia e Legge Sempronia) Già tanti, troppi se poi muniti alle estremità di elementi atti a ferire; dunque un massimo di 39 scudisciate. Cicerone, Orazio, Svetonio, Apuleio, Plauto denunciarono la barbare punizione che se non provocava la morte immediata causava per complicanze molteplici e cedimenti da esaurimento collassante. Troppa scena nel caso della Sindone che diviene così un macchinoso horror con tutti i crismi del raccapriccio.
Il calcolo esatto delle sfere colpenti il dorso del Cristo doveva avere allora un numero, essendo a coppie: 78. Già 78 ferite al dorso più 39 altre lesioni da corregge percuotenti sarebbero state tante e poi tante da giustificare più i sofisticati impianti di rianimazione odierna che il caricarsi la croce con tutto il resto. Sì intervenne il Cireneo, ma di quelli come lui ne sarebbero stati necessari molti altri, anche per il trasportare il Cristo sul Golgota in una barella. Sempreché non fosse già morto.
[Testo pubblicato su "La Regione Giornale di Roma e del Lazio", anno XXVIII, n. 1-3, sett. - nov. 1995, p. 8]