Perché la Pedagogia accademica esprima la sua professione superiore
di Franco Blezza
Si è presa l’iniziativa di promuovere presso la S.I.Ped. un gruppo di lavoro sul tema della professione di Pedagogista. Questo gruppo si è presentato, nel suo organico costituente, al Congresso di Foggia-Vieste (12-13-14 giugno 2002) [1] . In quel contesto, che raggruppa i Pedagogisti accademici, si sono già espressi cinque scritti [2]
A motivare questo impegno vi è stata, innanzitutto, la constatazione che i tempi nei quali la Pedagogia era confinata a scuola, nelle età dello sviluppo ed in alcuni problemi patologici (Pedagogia Speciale) sono largamente in via di superamento. L’esigenza di questo apporto nella società e nella cultura è sempre più forte ed evidente, e sempre meno eludibile.
La mancanza di un professionista del livello più elevato per il sapere pedagogico, tra l’altro, nuoce pesantemente anche alle professioni educative dei livelli intermedi. Una buona soluzione del problema dell’Educatore Professionale, Sociale od altrimenti aggettivato, comunque con formazione universitaria al livello della laurea, passa attraverso il pieno riconoscimento della professione di Pedagogista. Ma lo stesso vale per le professioni educative che hanno un’altra formazione iniziale.
Le professioni sanitarie non mediche, ad esempio hanno tutto da guadagnare dalla forza e dalla riconoscibilità sociale della professione di Medico Chirurgo; la professione di Geometra da quelle di Ingegnere Civile e di Architetto; la professione di Ragioniere da quella di Dottore Commercialista; e via elencando.
Che cosa sarebbe un Ortottista senza il Medico Oculista?
Che cos’era la Levatrice, prima che i Medici Chirurghi si occupassero anche del parto?
Che cosa sarebbe un Informatore Scientifico del Farmaco, se non esistesse la Laurea Specialistica a ciclo unico LS14 in Farmacia e farmacia industriale?
Anche la professione di Educatore Motorio ha faticato non poco ad ottenere la sua formazione iniziale accademica, finché non ha trovato le giuste alleanze.
Le stesse vicissitudini della professione (o delle professioni) di Educatore, sarebbero da sole istruttive al riguardo. L’istituzione di corsi di laurea per professionisti analoghi presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia non lo è di meno. Lo sarebbero di più le intercorse promozioni di Educatori Professionali con brevi corsi regionali e locali, ai quali alcune istituzioni accademiche hanno dato il loro avallo: la vicenda avrebbe avuto tutt’altra storia se dentro gli enti che le hanno promosse vi fossero stati dei Pedagogisti in posizioni apicali, assieme ai Medici Chirurghi, agli Psicologi, agli Assistenti Sociali, ai Burocrati.
Dedicheremo questo studio, inizialmente non destinato alla pubblicazione su riviste ma alla diffusione in rete, ad una rassegna sulle problematiche che ancora ostano a che questa professione sia riconosciuta e legalizzata, riprendendo anche taluni argomenti già stampati od in corso di stampa come sopra ricordato. Ci potremo avvalere, per questo, di un’esperienza composita: di oltre vent’anni di servizio nell’Università, di una dozzina d’anni di ricerca nello specifico, anche in rapporto con l’associazionismo e la convegnistica del settore, di una decina d’anni di esercizio professionale sperimentale e volontaristico (per ragioni di ricerca), e di alcuni anni di partecipazione attiva al dibattito in rete.
I compiti dell’Università: generalità …
In Italia, il riconoscimento culturale, sociale, legale, d’una professione non è compito dell’Università, bensì del legislatore, con una partecipazione anche delle rappresentanze di categoria. Una storia comparata delle professioni esistenti, del loro riconoscimento giuridico, e della determinazione conseguente che sono state date agli ordinamenti accademici, sarebbe illuminante nel merito.
Il che non toglie nulla all’imprescindibilità dell’apporto dell’Università: innanzitutto come formazione iniziale, e come ricerca di base; e poi come unica possibile autorità garante super partes nei confronti della società, dell’utenza, delle altre professioni già riconosciute. Tra i compiti dell’Università si debbono altresì annoverare un contributo organico di ricerca, un concorso essenziale di validazione scientifica della normativa di riconoscimento della professione, una partecipazione integrata alla formazione continua, anche interagendo con quanti già esercitano professionalmente e con le loro eventuali rappresentanze.
Lo scopo ultimo sarà quello di offrire ai Pedagogisti ciò che nell’Università già trovano, pacificamente e doverosamente, i Medici Chirurghi, i Commercialisti, gli Psicologi, i Giuristi, gli Architetti, gli Assistenti Sociali, e quanti altri esercitano professioni intellettuali di pari livello. In altre parole, anziché inseguire un improbabile processo che dall’Università promanerebbe (o partorirebbe…) nella società una professione, si dovrebbe piuttosto riflettere su come effettivamente l’esistenza di professioni ben riconoscibili comporti per l’Università una serie di compiti.
Può essere consolatorio pensare ad una simmetria al riguardo, ma è solo un’illusione: il relazionamento è asimmetrico, in tutta chiarezza.
… la formazione iniziale …
La recente riforma dei titoli accademici [3] , per la parte nota come “3 + 2”, ha avuto per lo meno un incontestabile pregio al riguardo: quello di rimuovere tutta una serie di fraintendimenti, riconducibili alla confusione tra la professione di Pedagogista, comunque aggettivata o perifrasticamente qualificata in modo ulteriore, con altre diverse professionalità, in particolare quelle comunque rifacentesi alla dizione di “Educatore”.
La formazione iniziale per l’Educatore Professionale, Sociale o comunque aggettivato si colloca ad un primo livello, in corrispondenza con una storia di DD.UU. ed, eventualmente, di Scuole Dirette a Fini Special: al pari, cioè di professioni come quella dell’Assistente Sociale, dell’Ingegnere Junior, dell’Informatore Scientifico del Farmaco, dell’Educatore Motorio e delle tante professioni sanitarie non mediche (Assistente Sanitario ed Infermiere Professionale, Fisioterapista, Logopedista, Ortottista, Ostetrica, e via elencando).
La professione di Pedagogista va, invece, allineata anche come formazione iniziale alle professioni cui prima corrispondeva una laurea (anche solo quadriennale), ed ora una laurea specialistica, come l’Ingegnere “Senior”, il Medico Chirurgo, il Dottore Commercialista, l’Assistente Sociale Specialista, e anche qui l’elenco sarebbe lungo.
Ovviamente, andranno previste delle discipline transitorie.
Il contesto formale presenta, dunque, le condizioni necessarie: per le prime esiste la classe n. 18 delle Lauree in scienze dell’educazione e della formazione, per la seconda le classi di Lauree Specialistiche n. 56 (programmazione e gestione dei servizi educativi e formativi), n. 65 (scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua) e n. 87 (scienze pedagogiche).
Le dizioni sono discutibili, ma non è questo il problema: tante professioni hanno come formazione iniziale corsi dalla dizione anche lontana. Per un Avvocato, o per un Notaio, il fatto che la sua formazione iniziale stesse in un corso di laurea che si chiamava Giurisprudenza (o, familiarmente, Legge), non è mai stato un problema. Il problema si sposta, piuttosto, sul piano dei contenuti. Questi debbono consentire di fondare adeguatamente la professione di Pedagogista, nel contesto di 5 anni – 300 CFU di formazione iniziale.
Come si capisce, e come testimoniano tutti i curricula accademici che costituiscono formazione iniziale per le professioni intellettuali avanzate, le prospettive professionali comportano una certa rigidità nel piano di studi, corrispondente alle conoscenze di base che il futuro professionista non può non possedere.
Qualche cosa del genere avviene anche per i corsi di studio che presentano precise prospettive di insegnamento secondario, anche se in misura assai minore: si pensi alle classi d’abilitazione per le quali è richiesto il superamento di determinati esami oltre semplice possesso del titolo di laurea.
Piani di studio molto flessibili possono certo venir incontro ad esigenze culturali più generali dello studente, nonché a sue personali attitudini e preferenzialità; ma si pagano, necessariamente, in termini di analoga indeterminatezza delle prospettive professionali future.
Sotto un altro punto di vista, anch’esso non trascurabile, va tenuto presente che tutto ciò investe in modo particolare delle strutture accademiche (come soprattutto i disciolti Magisteri) che, già deboli, sono state chiamate nel breve volgere d’una decina d’anni ad un complesso di trasformazioni assai radicali ed impegnative, che tutti coloro che sono dell’ambiente conoscono perfettamente e non è quindi necessario ripercorrere. Si è trattato di trasformazioni necessarie e condivisibili, ma per le quali non vi erano. Né sono state accordate, le risorse necessarie.
… e la ricerca accademica
Questo coinvolge altre nostre responsabilità non meno precise. Se i curricula debbono tener conto delle professionalità future, e se nessuno mette in discussione che la didattica accademica debba essere tutt’uno con la ricerca, allora occorre anche discutere di quale ricerca conduciamo noi docenti universitari,. Per una parte essenziale, ciò rimanda ad una ricerca universitaria che sia impostata e progettata, per lo meno, in modo che essa sia suscettibile di dar luogo ad una didattica accademica aperta a questa prospettiva.
Va osservato, al riguardo, come molta della ricerca pedagogica accademica sia rimasta per decenni informata ad una dominante scolastica e su alcune fasce d’età. Se questo si comprende per tempi ormai trascorsi, appare anche un segno di arretratezza rispetto ai tempi correnti e al divenire futuro della realtà socio-culturale e di quella del mondo del lavoro.
Un buon segnale dell’evolutività della ricerca, intesa come attitudine a dar luogo ad una formazione iniziale professionalmente altrimenti qualificata, può consistere nel considerare propri interlocutori prioritari i colleghi di altre Facoltà rispetto agli operatori della scuola. Troppo a lungo, specie per quella gran parte della Pedagogia che si coltivava negli ex Magisteri, si è indulto a cercare interlocutori privilegiati nel mondo della scuola, trascurando il resto del mondo accademico, quasi considerandosi più un apice della scuola, che un componente dell’Università a pieno titolo. Nuovamente, questo si può comprendere per la breve storia che questa particolare Facoltà ha avuto dalla sua fondazione (1935) fino alle profonde trasformazioni degli anni ’90, e che qui non mette conto ricapitolare: semmai, va osservato come quelle trasformazioni fossero state addirittura tardive, in quanto la quinquennalizzazione degli ex Istituti Magistrali, come del resto di tutta l’istruzione secondario-superiore, era già da tempo un dato di fatto.
L’attesa dell’istituzione del corso di laurea in Scienze della formazione primaria, anziché essere letta come un prepararsi ad un adempimento doveroso, forse qualcuno l’ha invece interpretata come una valida motivazione per mantenersi sulle posizioni dellì’ex Magistero, nel senso di meno organiche all’niversità e di molto più organiche alla scuola.
Un secondo segnale di attenzione sta nell’obsolescenza del termine “extra-scuola” e derivati, riconoscendosi nella scuola solo un caso molto particolare, per quanto importantissimo, della problematica pedagogica, sia come ricerca che come esercizio. Chi lo impiega ancora, probabilmente non presta neppure la dovuta attenzione al fatto che le cose non sono più così.
Un terzo, nella capacità di distinguere il Pedagogista dall’Educatore come profilo culturale e professionale, e come formazione iniziale di conseguenza.
E’ condizione necessaria per qualunque professione un patrimonio di fondamenti, di teoria generale, di metodologia, di lessico, e d’un complesso di strumenti concettuali ed operativi organici e adeguatamente saldi. Altre categorie professionali, già riconosciute ed affermate, possono vantare simili requisiti, ed è avvenuto che ciò si sia fatto strada nelle strutture accademiche solo in un secondo tempo: ma nel caso della professione di Pedagogista tutto questo viene richiesto proprio all’Università e alla ricerca che vi ha istituzionalmente luogo.
Questa richiesta ci sembra condivisibile ed, anzi, non eludibile.
Qualifica accademica e qualifica professionale
Inoltre, la strada che conduce alle professioni “di secondo livello” è sempre stata considerata più lunga e mediata che non quella per le professioni “di primo livello”. Quanto meno, le prime richiedono prove abilitative, le quali possono presupporre periodi di formazione post lauream e “sul campo”.
Il settore giuridico offre gli esempi migliori per le prime, laddove si considerino il curriculum di un Avvocato, o la carriera del Magistrato. Il settore socio-sanitario offre, invece, i migliori esempi per le seconde.
L’eccezione della Laurea in Scienze della Formazione Primaria riguarda direttamente molti Pedagogisti accademici, ma non deve indurre a prospettive falsate. La sua particolarità si spiega con la storia, del tutto particolare per prima, che la formazione dei docenti della Scuola Elementare ha avuto nel nostro Paese. Nessun’altra laurea (vecchio regime) o laurea specialistica (nuovo regime) abilitava od abilita, allo stato, ad alcunché.
Una semplificazione dell’iter che collega il titolo iniziale all’esercizio professionale si può avere solo nei casi nei quali il curriculum accademico contempli una considerevole ed organica attività professionalizzante: come è per le lauree specialistiche a ciclo unico in Medicina e Chirurgia, o in Odontoiatria, o in Medicina Veterinaria; o per la laurea in Scienze del Servizio Sociale.
Questo pone un ulteriore problema: quello di ripensare profondamente e strutturalmente. con le attività riconducibili alla comprensiva dizione di “tirocinio”, tutte le attività didattiche che sono presenti nei curricula delle nostre L ed LS. Occorre che questi tirocini, come i laboratori, i seminari e tutte le diversificazioni della didattica accademica, abbiano un organico riferimento al mondo della professione specifica: esattamente come le lauree che si sono testé portate ad esempio, e come tutte le lauree che hanno una professione ben definita come traguardo.
Ma, perché ciò possa darsi pienamente, occorre che l’appartenenza ai ruoli universitari non integri per i Pedagogisti un ostacolo de facto (se pur non de iure) all’esercizio professionale. Sarebbe assai difficile immaginare una docenza universitaria adeguata nei corsi dei settori sanitari, giuridici, tecnici, economici e via elencando, se i docenti non avessero esperienza organica di diretto esercizio professionale nei settori nei quali poi si potranno orientare i laureati.
In questo senso, l’opportunità di poter contare su docenti dell’area pedagogica che abbiano effettiva e diretta esperienza della professione di Pedagogista andrà tenuta presente, per lo meno, nella contestualizzazione alle singole sedi dei curricula di L e LS nazionali; in prospettiva, andrà prevista nel reclutamento e, prima, nella formazione dei futuri docenti.
D’altra parte, sarà analogamente e corrispondentemente necessario che la normativa che riconoscerà questa professione preveda vie particolari di abilitazione-certificazione per chi possieda requisiti accademici di ricerca, di servizio e concorsuali.
La formazione continua
Da Pedagogisti accademici, noi insistiamo in modo corretto e forte sulla saldatura tra la formazione iniziale e quella continua per qualunque sapere e qualunque ambito od esercizio professionale.
Ora, è chiaro che un simile atteggiamento deve trovare una coerente esplicazione proprio nel nostro specifico culturale e professionale.
Dovremmo, quindi, essere organicamente impegnati anche nella formazione continua dei professionisti di cultura pedagogica.
Questo sembra un’ovvietà, e probabilmente lo è. Ma è assai difficile che ciò possa effettivamente darsi, se già nella formazione iniziale da noi promossa ed impartita, in luogo di farci carico del grosso degli oneri didattici, deleghiamo largamente alla supplenza di professionisti di altre culture compiti didattici essenziali, fin dai primi anni e fin dal tirocinio, dai laboratori, dalle attività seminariali.
I termini quantitativi del problema
Il settore delle professioni intellettuali è in forte espansione.
Questo integra un interesse generale, per i problemi occupazionali dei quali siamo affitti specialmente in questi anni di tendenziale stagnazione economica, e per i caratteri di civiltà avanzata che il nostro paese dimostra di aver assunto anche come formazione iniziale per settori così ampi dell’occupazione.
Ma integra, anche, un interesse specifico per tutti noi docenti universitari, od almeno tra quanti si dispongono a cercare dei riscontri alla loro attività di formazione ai più alti livelli proprio nelle ricadute nel mondo del lavoro.
A noi pare che sarebbe un errore grave non tenere nella dovuta considerazione questi riscontri dell’esperienza futura..
Ora, il riconoscimento di una professione può seguire essenzialmente due vie differenti, reciprocamente alternative esclusive:
Ø l’istituzione di un ordine (o collegio, o simile) professionale, il quale esprime nel suo seno uno o più albi professionali; nel 2002 risultavano 1.659.514 iscritti a 29 “ordini e collegi” [4] ; proposte di legge per l’istituzione dell’ordine professionale dei Pedagogisti sono state presentate per lo meno dal 1990 (XI legislatura) in poi, da tutte le parti politiche e senza apprezzabili differenze di fondo; non sembra che si sia mai andati oltre le primissime fasi più perché non lo si considerava un adempimento prioritario, che non per ragioni ideologiche o di schieramento che non risultano essere sussistite seriamente mai;
Ø la certificazione societaria, linea seguita dal Co.L.A.P. alla quale afferiscono “Libere Associazioni Professionali” che organizzavano nello stesso anno 272.080 professionisti. a partire almeno dalla XIII legislatura si sono invece registrate le presentazioni di disegni di legge in tal senso, dallo schema di legge-delega Mirone (febbraio 1998) e dal d.d.l. del ministro Flick n. 5902/98, fino al d.d.l. «Delega per la riforma delle professioni intellettuali» del Consiglio dei Ministri (10/11/2000) secondo la tendenza europea ed italiana a de-regolare (almeno parzialmente) le professioni.
Peraltro, le stesse fonti calcolavano in 3.892.856 i professionisti “senza albo”.
I laureati in Pedagogia –Scienze dell’Educazione vengono stimati in decine di migliaia, fino a sfiorare presso taluni le centomila unità. Di questi, è impossibile conoscere un dato realistico circa quanti siano organizzati in associazioni aderenti al Co.L.A.P.; ma le stime più ottimistiche non vanno oltre qualche punto percentuale, cioè una minoranza esigua.
Il problema è quindi ancora lontano da una convergenza apprezzabile, anche solo per quanto riguarda il suo coordinamento associativo. .
Le vicissitudini dell’associazionismo di settore
L’associazionismo professionale in senso stretto tra i laureati in Pedagogia ha una storia recente, ed assai breve come rappresentanza unitaria.
Nel 1989 nacque l’As.Pe.S. (Associazione dei Pedagogisti Siciliani), per organizzare quei professionisti che avevano trovato una collocazione nel settore sanitario e sociale grazie alla normativa particolare di quella Regione a Statuto Speciale.
Dalla convergenza tra questo sodalizio regionale ed alcuni settori dell’As.Pe.I., la quale già a quel tempo prevedeva anche una rappresentanza per quello che allora si chiamava “extra-scuola” a fianco della preponderante rappresentanza scolastica (dei vari gradi) ed universitaria, nacque nel 1991 l’A.N.Pe., che per qualche anno fu l’unica rappresentante della categoria.
Essa conobbe una impennata di iscrizioni e di attività negli ultimi anni ‘90 fino a toccare nel 1999 i circa 2-3000 soci e il massimo di espressione scientifico-professionale con la rivista “Professione Pedagogista” [5] , con la pubblicazione di due volumi [6] e con il III Congresso Scientifico Nazionale [7] . Questo consentì che ad essa venisse fin dedicata una voce nell’Appendice A-Z (1994-2002) dell’Enciclopedia pedagogica [8] .
Furono numerosi, e di ordine diverso, i fattori che causarono una grave inversione di tendenza, con brusca perdita di rappresentatività sia categoriale che scientifico-professionale di quel sodalizio, nonostante i passi compiuti in quegli anni: fattori che spaziano dall’eccesso di delega in bianco e di personalismi nelle dirigenze nazionali, alla confusione tra competenze scientifiche e cariche elettive con sovrapposizione delle seconde alle prime, alla emarginazione od espulsione di ogni forma di pluralismo interno, a censurabili beghe individuali, ad altri ancora. Fatto sta che le attività scientifiche furono bloccate, dalla celebrazione del III Congresso Scientifico fino al rinnovo delle cariche sociali terminato solo il 24 giugno del 2000, dopo una pluriennale serie di proroghe, cooptazioni ed espulsioni; al che, tutte le espressioni societarie furono immediatamente azzerate. In particolare, quelle pubblicazioni A.N.Pe. di fine anni ’90 che tendevano a fondare una letteratura ancora largamente inesistente, oggi sono pressoché introvabili; gli Atti di quel Congresso, pur previsti, non furono neppure raccolti; la rivista interruppe le pubblicazioni bruscamente. Solo dal 2001 vi è stato qualche segnale di ripresa. Si tratta di una situazione recuperabile: ma la lentezza della ripresa testimonia della mancata rimozione di alcuni fattori gravemente ostativi e pregiudiziali.
Nel frattempo, è stata fondata, e largamente costituita, da ex iscritti all’A.N.Pe. la Federazione Italiana Pedagogisti (F.I.Ped., presidente Piero Crispiani, segretario Agostino Basile, nel 1999); questa tiene regolarmente Congressi Scientifici, ed ha una rivista [9] . Ma già nel 1997 era sorta l’A.N.Pe.C. (Associazione Nazionale dei Pedagogisti Cinici, presieduta da Guido Pesci, anch’egli ex socio A.N.Pe.), molto attiva su tutti i fronti. Altre associazioni ancora di categoria sono state fondate in anni più recenti, ed è difficile operare delle stime di dimensioni e di funzionalità.
Inoltre, sono sorte più di recente associazioni diverse che si ravvicinano a questi fini societari pur non sovrapponendosi, ed altri sodalizi ancora hanno cominciato ad ammettere anche i Pedagogisti al loro interno, in alcuni casi aprendo specifiche sezioni. Alcuni esempi: la Società Italiana di Counseling (S.I.Co.), la sezione italiana dell’International Commitee for the Study of the Autogenic Training (I.C.S.A.T.), la Società Italiana di Counseling Filosofico (S.I.Co.F.), la Società Italiana degli Armonizzatori Familiari (S.I.A.F.), e si potrebbe continuare a lungo.
Talune di queste associazioni esprimono uno o più Albi Professionali interni, non aventi attualmente alcun riconoscimento giuridico, si sono date articolazioni territoriali, e tengono corsi superiori ufficiosi, talvolta denominati Master.
Qualche singolo accademico ha partecipato o partecipa alle attività di alcuni di questi sodalizi.
In alcuni casi, si è trattato di un rapporto organico, anche se in genere di breve durata, Per lo più si è trattato di un rapporto occasionale, ovvero della semplice concessione del nome per qualche comitato scientifico o simile che si riunisce aperiodicamente od una tantum (od anche mai). Nella prima ipotesi, si parlerebbe di occasioni sprecate, e andrebbe indagato il perché le dirigenze societarie abbiano deciso di allontanare le competenze scientifiche ed accademiche dai sodalizi che pure ne hanno evidente necessità; nel secondo caso, si parlerebbe propriamente di una “foglia di fico” apposta da qualche accademico, per malinteso spirito di cooperazione o di solidarietà, ad attività, iniziative, istanze che non danno nessuna garanzia.
Non vi è più stato, invece, alcun atto paragonabile all’iniziativa che venne assunta dalla S.I.Ped. (presidente Piero Bertolini) con l’A.N.Pe. nella XII Legislatura (1994-96) per elaborare una proposta di legge a prima firma del collega sen. Luciano Galliani avente per oggetto un ordinamento della materia che avesse anche un adeguato fondamento scientifico e culturale, attraverso l’autorevole voce dei Pedagogisti Accademici. Laddove la necessità di una simile iniziativa appare maggiore oggi che non allora, ed almeno per due ragioni.
Una rimanda al tempo che si è perso nell’evoluzione del modo del lavoro, il che finisce per consentire che professionisti diversi occupino anche certi ruoli che sarebbero propri dei Pedagogisti: si vedano la questione dello Psicologo Scolastico, o gli organici dei Consultori Familiari, od anche la questione degli Educatori laureati nelle Facoltà di Medicina e Chirurgia; od anche la legge 285/97; od ancora, e non per ultima, la normativa circa i requisiti per l’accesso a tanti ruoli pubblici di carattere essenzialmente educativo e formativo che prevede numerose altre lauree, anche piuttosto lontane. In quello stesso frattempo, si sono articolate meglio ed in modo più incisivo ed efficace professioni diverse ma che possono occupare ruoli analoghi: si veda, ad esempio, la differenziazione degli Albi degli Assistenti Sociali.
L’altra rimanda proprio alla frammentazione della categoria, già debole e poco rappresentativa in origine, e che lascia spazio anche per iniziative che squalificano la categoria stessa e ne compromettono gravemente la credibilità di fronte ai settori più elevati del mondo delle professioni e di fronte all’opinione pubblica: si pensi alle istanze che si definirebbero “scientifiche” (convegni, organismi, comitati, redazioni, …) ma che sono integrate da soggetti che hanno solo una carica societaria cui non si sa neppure quale rappresentatività corrisponda, e alle quali a volte viene apposta la semplice copertura nominalistica di qualche accademico, e a volte neppure quella.
Solo un impegno organico e sistematico dei Pedagogisti Accademici in quanto tali, in particolare attraverso istanze rappresentative come la S.I.Ped., può consentire che la qualità scientifica e professionale riconduca ad unitarietà sostanziale un complesso di istanze plurali della categoria, anche attraverso una individuazione di quanti presentino realmente i necessari requisiti.
Generici richiami ad unità d’azione, od anche iniziative a sfondo accumulativo di elementi di fatto eterogenei, non hanno approdato ad alcunché, e anche questo è un dato di fatto esperienziale dal quale non si dovrebbe prescindere. Occorrono, invece, saldi richiami di ordine scientifico, culturale e sui fondamenti, che consentano un unità di sostanza e, per il resto, una sano (e pedagogicissimo) discernimento.
Un eventuale disegno di legge per l’ordinamento della professione
L’ordinamento di una professione segue delle norme sufficientemente standardizzate. Vediamo di scandirne i tratti essenziali, largamente comuni alle varie proposte di legge cui si è accennato, considerando quali possano essere i nodi più significativi a questi riguardi per quanto attiene alle competenze accademiche:
a) una delega al Governo; si potrebbe prevedere una consultazione con la S.I.Ped., per il suo carattere di elevatissima rappresentanza della categoria accademica, e con la conferenza dei Presidi di Scienze della Formazione, o meglio ancora con i Presidenti dei c.d.LS;
b) il titolo-base, che per tutti è laurea vecchio ordinamento, anche quando essa era quadriennale, ed ora è laurea specialistica;
c) una eventuale previsione di appartenenza allo stesso ordine ma con albi distinti per chi sia in possesso di laurea nuovo ordinamento (si vedano i casi degli Assistenti Sociali, o degli Ingegneri – Junior e Senior); si potrebbe prevedere, magari come disciplina transitoria, un ordine unico con albi distinti con gli Educatori Professionali (cfr. il caso Medici – Odontoiatri, anch’esso transitorio);
d) la previsione di requisiti ulteriori rispetto al titolo di studio, ad esempio un congruo tirocinio per l’accesso all’Esame di Stato; l’Università deve avere voce in capitolo, oltre a poter essere sede di un tale tirocinio, svolto anche per ragioni di ricerca, purché sotto la supervisione di un docente dei raggruppamenti pedagogici, e con il titolo di cultore della materia in almeno uno dei medesimi raggruppamenti certificato da una Facoltà universitaria
e) le modalità dell’Esame di Stato, non essendo evidentemente sufficiente la presidenza di un docente universitario; occorre prevedere una pluralità di prove, per lo meno una prova scritta sulla cultura i fondamenti e la dottrina, e una o più prove pratiche, oltre ad almeno una prova orale adeguatamente strutturata; e i commissari di competenza vanno designati direttamente all’Università, a cominciare dal Presidente;
f) l’articolazione regionale di ordini ed albi; si potrebbe prevedere che gli organismi sia regionali che nazionali debbano annoverare rappresentanze delle Università pertinenti per territorio, congrue e a pieno titolo;
g) la previsione di una normativa transitoria che valga a sanare le situazioni preesistenti; qui proprio l’Università costituisce l’organismo più credibile ed autorevole per discernere quali requisiti pregressi possano consentire un accesso in prima applicazione che non svilisca la categoria, sia come sua spendibilità professionale di fronte alle altre professioni superiori sia di fronte all’opinione pubblica;
h) la previsione di eventuali canali di accesso differenziato per talune categorie; in particolare, per tutti coloro che rivestano il ruolo di Docente e di Ricercatore universitario dei settori M-PED, già M09, non essendo né autorevole né credibile un Ordine dei Pedagogisti che non consentirebbe l’accesso a personaggi del calibro di Bruner, Montessori, Kerschensteiner, Claparède, Dewey, Decroly, e via elencando.
Un eventuale riconoscimento della professione con le certificazioni societarie
Molto diverso è il caso del riconoscimento di una professione demandato per legge-quadro all’associazionismo di categoria: una norma che consente il pluralismo societario e rimanda al vaglio del mercato il riscontro fattuale della proposta professionale.
Qui, il ruolo dell’Università è analogo ma ancor più essenziale, in quanto essa costituisce la garanzia più valida, se non l’unica, sia per l’utenza e l’intera società, sia per gli aspiranti stessi e gli esercenti una professione, contro possibili abusi e millantati crediti.
Le vicende societarie sopra accennato rendono questa esigenza più evidente, ed analogamente meno eludibile.
Vanno, al riguardo, prevenuti i rischi che si ripeta il meccanismo della “foglia di fico”: solo se il ruolo dell’Università in quanto tale diviene organico ed essenziale all’interno dei sodalizi certificatorii, la certificazione può offrire le garanzie suddette, ed ogni garanzia di scientificità e di validità professionale, culturale, sociale.
In particolare, è necessario che la Legge-quadro, e gli statuti delle Associazioni che ambiscono all’accreditamento per il rilascio delle certificazioni abitative, prevedano che:
a) vi siano adeguate rappresentanze, a pieno titolo e quantitativamente significative, di soggetti designati dalla Università e in essa strutturati, negli organismi societari nazionali e locali, avendovi elettorato attivo e passivo;
b) vi siano accessi diretti agli Albi od Elenchi interni e alla certificazione piena, nonché all’iscrizione all’associazione senza alcun requisito ulteriore, per tutti i docenti e i ricercatori dei raggruppamenti pedagogici, anche fuori ruolo, e vi siano norme particolari per i Dottori di Ricerca:
c) sia valido a tutti gli effetti come tirocinio, ove richiesto, quello comunque svolto dentro le strutture universitarie, come sopra;
d) siano previsti i pareri vincolanti di organi rappresentativi dell’Università, ad esempio della Conferenza dei Presidi di Scienze della Formazione o dei Presidenti dei c.d.LS competenti o di loro delegati ad hoc, per tutti gli atti dei sodalizi certificatorii professionalmente rilevanti, dallo statuto e dalle altre carte societarie alla normativa d’ammissione alle procedure d’esame
Valgono insomma nella sostanza, mutatis mutandis, i principi enunciati a proposito della normativa per l’ordinamento.
Rimane pacificamente acquisito che le commissioni d’esame debbano essere presiedute da un docente universitario: egli deve però essere espresso dall’Università, ed agire come (ed in quanto) tale, laddove ora è chiamato dall’associazione stessa, e non sempre né necessariamente tra gli strutturati, Né tra gli strutturati del raggruppamento.
Una responsabilità in più
Starà poi nella serietà professionale e nella deontologia scientifica di ciascuno dei Pedagogisti accademici il non prestarsi a dare con la propria semplice partecipazione, o con la semplice concessione del proprio nome, l’avallo ad organismi che invece funzionino esclusivamente per la decisionalità di soggetti non qualificati, e che ambiscano a presentarsi come scientificamente e professionalmente qualificati davanti al legislatore, alle altre professioni superiori, al mondo del lavoro, all’opinione pubblica.
E questa, in conclusione è una responsabilità ulteriore per i Pedagogisti accademici nei confronti di quelli professionali, che a ben vedere le riepiloga tutte.
Per costruirci una bibliografia
Il materiale bibliografico specifico, lo sappiamo, è già poco, e una parte di questo è stato reso irreperibile per le ragioni di cui sopra.
Qui si pongono solo alcuni titoli, peraltro rappresentativi: si tratta solo di una primissima . La speranza è che i colleghi, come daranno seguito a questo scritto, aiuteranno a costruire questa necessaria bibliografia.
AA.VV.: “Prospettiva EP”, anno XVI, n. 4, luglio-agosto 1995.
Franco Blezza: Educazione 2000. Pellegrini, Cosenza 1993.
Franco Blezza: Pedagogia della vita quotidiana. Pellegrini, Cosenza 2001.
Franco Blezza; Studiamo l’educazione oggi; nuova edizione di Un’introduzione allo studio dell’educazione, Osanna, Venosa-PZ, in corso di stampa.
Franco Cambi, Paolo Orefice, Dario Ragazzini: I saperi dell’educazione (La Nuova Italia, Scandicci-FI 1995).
Andrea Canevaro e Arrigo Chieregatti (a cura di); La relazione d’aiuto (Carocci, Roma 1999).
Piero Crispiani: La pedagogia clinica (Junior, Azzano San Paolo – BG 2001).
Piero Crispiani: Lavorare con l’autismo (Junior, Azzano San Paolo – BG 2002).
Giovanna Gervasio Carbonaro, Gigliola Paoletti Sbordoni: La qualità possibile – Educazione, cultura, servizi sociali nel territorio (La Nuova Italia, Scandicci-FI 1995)
Cesare Scurati (a cura di): Volti dell’educazione (La Scuola, Brescia 1996).
Leonardo Trisciuzzi; La pedagogia clinica (Laterza, Roma-Bari 2003).
[1] Nella sua composizione costituente, era composto da Piero Crispiani (Università di Macerata), Daniela Grieco (libera professionista con studio a Vicenza), Angela Maria Manni (libera professionista con studio a L’Aquila) e dallo scrivente.
[2] “Pedagogia oggi”, n. 9/10 pag. 30-34, n. 11, pag. 15-18, febbraio-aprile 2003, n. 12, pag. 74-77, gennaio-aprile 2004; il quarto, contenente gli Atti del XX congresso (Napoli Suor Orsola Benincasa, 26-27-28 maggio 2004) è in corso di stampa. Di questi, solo il primo impegna gli altri componenti il gruppo nella sua composizione costituente. Un quinto scritto, anch’esso a quattro firme, è nel “Bacheca” del sito della Società.
[3] In particolare il D.M. 509 del 3 novembre 1999, e tutti gli atti normativi connessi.
[4] Fonte di queste cifre: “Il sole – 24 ore”, che al problema delle professioni ha dedicato quattro supplementi, ai numeri dei gg. 5, 12, 19 e 26maggio 2004, e seguita a dedicare numerosi articoli.
[5] Prima serie. Dal 1997 alla fine del 1999 - primi del 2000 sono usciti regolarmente 12 numeri. La rivista era uscita anche in precedenza, con veste tipografica ed estremi editoriali, contenuti e valore scientifico variabili, in modo aperiodico, per una decina di fascicoli. La testata ha poi ripreso le sue pubblicazioni nel 2001 con altra veste; a tutt’oggi, ne risulterebbero usciti sette numeri.
[6] Gli atti dei primi due Congressi Scientifici: L'educazione come relazione di aiuto ed etica professionale (I Congresso Scientifico, Roma, 10-11 ottobre 1997), Professione Pedagogista, I processi di insegnamento-apprendimento nella formazione della persona (II Congresso Scientifico, Napoli, 24-25 ottobre 1998), Professione Pedagogista, Bologna 1999. Peraltro, erano stati pubblicati anche gli atti di due congressi precedenti: Pedagogia e Benessere della Persona" (Mondello-Palermo, 2-4 luglio1992) e Pedagogisti dei servizi territoriali e nuovo corso di laurea in Scienze dell'Educazione (Bari, 26 marzo 1993), e vi sono state anche altre pubblicazioni ufficiose. Si tratta comunque di letteratura che ha avuto una diffusione inadeguata.
[7] Bari, 19-20 novembre 1999, cui presero parte, tra gli altri, Riccardo Massa (ad una delle sue ultime espressioni pubbliche; sarebbe scomparso il 1° gennaio 2000), Luisa Santelli Beccegato, Franca Pinto Minerva, Francesco Bellino, Sira Serenella Macchietti, e parecchi rappresentanti esteri (Germania, Spagna, Albania). Non ne vennero pubblicati gli Atti, e non vi fu il IV Congresso Scientifico, nonostante che entrambe le iniziative fossero state previste esplicitamente e pubblicamente dalla dirigenza del tempo, e fossero state oggetto di impegni ben precisi.
[8] La Scuola, Brescia 2003, colonne 53-54. Si confronti anche la voce “Pedagogista professionale”, colonne 1123-1125.
[9] “Giornale di Pedagogia”: 1 numero uscito nel 2002, 3 nel 2003 e 3 nel 2004.
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