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IL VOLONTARIO
di Stefano Montanari

 

Il treno non era quello di qualche mese prima. Tanto era discreto, ovattato, quasi elegante, quello di allora, quanto sferragliante e in un certo modo volgare quello in cui Federico viaggiava ora.
Sua madre non aveva voluto sentire ragioni: in prima classe!, e suo padre, pure indispettito, aveva dovuto acconsentire.
"Il ragazzo parte volontario!"
Nessuno pareva aver capito.
Dalla Sicilia a Bologna, dove c'era la caserma alla quale l'avevano destinato per quel po' d'istruzione che si doveva pur fare, Federico impiegò una settimana. La prima fermata fu a Napoli dai conti d'Antimo, poi a Roma dallo zio monsignore, poi a Firenze dai marchesi di Rùfina e finalmente a destinazione: una settimana.
"Soldato semplice, come un qualunque coscritto."
Il treno avanzava con lentezza, con rumore ritmico di rotaie, di ferro, freddo, duro, passando in rassegna gli alberi che cominciavano appena a tingersi di rosso o di giallo. I vetri erano appannati di fiato greve.
Faceva già freddo.
Qualcuno dei ragazzi s'era riunito in piccoli gruppi. Parlavano. Qualcuno stava solo. Guardava dal finestrino dopo averci passato sopra le dita per farne scorrere via i goccioloni pesanti della condensa. Qualcuno s'era addormentato.
"La situazione non è tollerabile. Gli austriaci in casa nostra…" Il padre di Federico s'era impegnato con gl'interventisti fin dal '14 ed ora, passati due anni, non poteva più esimersi da un atto che da lui ci si aspettava. I ragazzi dei contadini erano andati, quello del fattore era andato ed era morto dopo meno di una settimana; così centinaia di altri, migliaia. Erano andati perché li avevano chiamati.
Vostro figlio…
Federico era all'università, non aveva obbligo…
Vostro figlio…
"E vostro figlio, il signorino Federico…?" aveva domandato il sindaco con un sorriso sbilenco.
C'era ancora chi avrebbe voluto la neutralità dell'Italia, un suo ritiro dalla guerra, e non perdeva occasione per attaccare anche dal punto di vista personale: "Signor barone, vostro figlio… è sano… e ha un'età…"
E la gente lo incrociava e chinava la testa in segno di sottomissione. Ma dalle teste chine gli occhi lo guardavano. Tutti avevano qualcuno al fronte.
Federico doveva andare.
Sua madre pianse e fece anche una scenata, turbolenta ma tenuta molto privata, nel corso della quale si graffiò e si strappò qualche capello.
Suo nonno scosse la testa e continuò per settimane a borbottare che i piemontesi erano dei mascalzoni. "Io a Garibaldi gli ho sparato."
Suo fratello fu incerto fra l'invidia e il sollievo di avere solo quindici anni.
Federico partì soldato. In prima classe.
Ora il treno, l'altro, attraversava la pianura a fatica, senza fretta. Anzi, tentennava, come si guardasse attorno e aspettasse che lo fermassero, che lo richiamassero indietro, indietro fino a Bologna, indietro fino in Sicilia… A casa… Le lezioni, gli esami… A casa… No… no: bisogna andare: gli austriaci… I tedeschi, come li chiamavano tutti… Trento è nostra! Deve ritornare a noi! Trento… Chissà com'è Trento?… Trento deve ritornare italiana! Trento italiana… Ritornare italiana… Italiana? Trento non è mai stata…
Alla caserma era difficile fare amicizia con qualcuno o anche solo parlare. Contadini, operai, garzoni di bottega… Analfabeti: tanti analfabeti.
"Trento? E dove sta Trento?"
Federico non aveva detto a nessuno chi fosse, ma, chissà come, l'informazione era arrivata fino a Bologna, al sergente, siciliano pure lui… "Signor barone, io non sapevo…" e aveva preso a dargli del voi.
Seduto di fianco al finestrino, Federico guardava la pianura che cominciava a corrugarsi nelle prime colline. Non parlava con nessuno. Nessuno gli parlava. Non era mai stato lontano da casa. Da casa…
Arrivarono.
Scesero macchinosamente dal treno.
Marciarono.
Entrarono nella trincea.
Quella sarebbe stata la sua casa. Per quanto tempo? "Fino a che non vinceremo!" In quelle brande strette, dure, una sopra l'altra… "Fino a che non vinceremo!" Con quel freddo, benché l'autunno fosse appena cominciato… Con quel cibo… Con quegli scoppi lontani… Con le ambulanze che passavano… "Fino a che non vinceremo!"
La notte… La prima notte…
La notte, nessuno dorme. Si sogna, forse, ma nessuno dorme. Anche nel sogno, in quella specie di sogno, nessuno dimentica dov'è. Nessuno dimentica che non sa per quanto.
La pioggerella è così fine da essere percettibile solo perché è massa, solo perché è condizione totale, solo perché s'insinua dappertutto, contro ogni legge fisica, contro la gravità, fin sotto la mantella, fin nelle scarpe impossibili da asciugare, fin nella coperta della branda, gonfia d'acqua fredda, irta di piccole punte come un'ortica.
Intorno è tutta pietra bianca, appena interrotta da ciuffi d'erba giallastra e segnata di lontano, per il poco che c'è di percettibile in quel mondo lattiginoso, dai graffi di qualche albero rachitico. Il cielo non esiste.
"Da dove vieni?"
"Dalla Sicilia."
"Io, dalle Marche."
Le voci appena sussurrate. Il turno di guardia in trincea. La prima volta.
"Qui non è pericoloso."
Federico annuì.
"Anche se siamo in trincea, le linee austriache sono abbastanza lontane," continuò il ragazzo delle Marche.
Federico sorrise al buio e restò in silenzio.
L'altro girava a scatti la testa come fanno i passerotti.
"Sei un volontario." Era una domanda? O, piuttosto, un'affermazione? O un'accusa?
"Sì."
"Perché?"
"Perché cosa?"
"Perché sei venuto?"
"Volontario?"
"Volontario."
Federico si era posto forse mille volte quella domanda, ma la risposta, che non si era mai data esplicitamente, era così ovvia da parergli assurda. Assurda la domanda o assurda la risposta? No, non era vero: Federico non si era mai domandato il perché.
"Perché?"
Federico aveva il vuoto in testa.
"L'Austria-Ungheria… L'Italia… La patria… Sì, lo so che cosa rispondete voi, i volontari… Ma a te che cosa ti cambia? Che cosa ti cambia se a Trento o a Trieste o chissà dove ci stanno gli austriaci o ci stiamo noi?… Noi! Ma chi siamo noi? Io sono io. Tu sei tu. Io non ti conosco come non conosco quelli che stanno nella trincea di fronte. Gli austriaci… E gli austriaci non sono gli austriaci: ogni austriaco è diverso dall'altro, è una persona. E di Trento…"
Federico taceva. Tacquero tutti e due per un po'.
"Senti che puzza di piscia fa la trincea? Piscia e merda. Noi veniamo qui a farci sparare addosso per della terra che non è nemmeno capace di assorbire la piscia e la merda."
Federico taceva.
"Nelle trincee più avanti c'è anche puzza di carne marcia."
Federico teneva gli occhi sbarrati.
"Morti: puzza di morti che imputridiscono. Pezzi di carne marcia… Italiani… Sepolti con gli onori militari nel fango, nella merda e nella piscia… Non credere: di là, dal nemico… dal nemico, pensa un po'!, dal nemico sarà uguale. Austriaci… Persone…"
Arrivarono altri due a rilevare la guardia. Era l'alba.
Lì non era pericoloso. Nessuno sembrava aspettarselo. Uno scoppio lontano, un sibilo improvviso, breve, e un altro scoppio, stavolta vicinissimo. La pietra bianca andò a pezzi moltiplicando l'esplosione. Non si fece nemmeno in tempo ad avere paura. L'artiglieria sparava di lontano cento, mille colpi. Mille colpi per uccidere. Durò forse mezz'ora, chissà. Si sta rannicchiati e non c'è niente che si possa fare. Non tirare su la testa!
Quando i ragazzi, lentamente, con cautela, si risollevarono dalla trincea, il campanile che stava a mezzo chilometro da lì non c'era più. Dopo un po' le ambulanze raccoglievano i feriti. Per i morti non c'era fretta.
I morti… Federico non aveva mai visto un morto.

"Finalmente uno che sa leggere e scrivere! - esclamò il maggiore. - Sai battere a macchina?"
"Un po'," rispose Federico.
"Siediti e scrivi."
Il maggiore lo volle con sé nella casamatta. Non più la branda soffocata tra la distanza di un palmo dal fango sotto e l'altra branda, quella sopra, che ti sfiora la faccia. Non più il tanfo nauseabondo d'indumenti bagnati, di escrementi, di fanghiglia gelida stagnante. L'odore era quello del fuoco. E anche il cibo…
"Bisogna diminuire le razioni d'acqua!"
Diminuire le razioni d'acqua… A Federico vennero in mente i versi di Marziale, quelli dell'oste di Ravenna che imbroglia gli avventori aggiungendo meno acqua del dovuto al vino. Come nella Ravenna romana, anche in quelle colline basse, in quel cielo ipotetico, in quelle trincee, in quelle scarpe, c'era acqua dappertutto. Però non c'era da bere. Gli austriaci avevano fatto chissà che e i rifornimenti d'acqua erano diventati difficili.
I soldati accolsero male la riduzione. Brontolavano. Ci fu anche qualche grido.
"E' una necessità. Qui siamo in guerra, non all'albergo!"
La sera il maggiore faceva il bagno caldo nella tinozza di legno e rideva forte leggendo il Corriere dei Piccoli. Poi cenava.
Federico si era portato un paio di libri per preparare un esame. Leggeva. Leggeva e cercava di ricordare ciò che aveva letto un minuto prima. Nulla.

Lì non ci doveva essere pericolo, però adesso gli austriaci avevano preso ad attaccare. All'inizio fu quasi una sorpresa, ma ora lo facevano tutti i giorni, tutti i giorni, sparando con i cannoni, di lontano. Quando bombardavano, non c'era un attimo d'intervallo tra un colpo e l'altro. La terra tremava insieme con l'aria. La pietra bianca con le sue schegge era peggio delle bombe.
Durava mezz'ora, un'ora; di più, qualche volta. Non c'era nulla che si potesse fare se non tenere la testa sotto il pelo della trincea o, per Federico, il maggiore e qualche ufficiale, restare chiusi nella casamatta.
Gl'italiani non potevano rispondere al fuoco: "Le industrie non sono pronte per fabbricare tutte le munizioni che servono," aveva detto il maggiore al capitano.
Non potevano rispondere con i proiettili, ma qualcosa si poteva fare. "Proiettili non ce ne saranno, ma carne… Quella ne abbiamo in abbondanza! Anche Cadorna l'ha detto."
Il maggiore convocò tutti gli ufficiali e mandò via Federico.
In trincea distribuivano il rancio. I soldati sfilavano davanti al pentolone e tendevano la gavetta. Patate, muffa, piscia, merda…
"Volontario! Ehi, volontario! - Il ragazzo delle Marche chiamò Federico. - Non eri tu che ti eri fatto il viaggio fin dalla Sicilia per liberare Trento? E adesso t'imboschi sotto la gonna del maggiore?"
Imboscato. Ma non era lui ad essersi scelto…
Il ragazzo lo guardava muovendo il capo a scatti.
Imboscato.
Il maggiore uscì dalla casamatta e fece allineare i soldati.
"C'è un'azione da fare. Una posizione da conquistare. Volontari?"
Nessuno si muoveva.
Il maggiore passava con gli occhi i ragazzi. I ragazzi guardavano lontano, verso il cielo che non c'è.
Federico sentì gli orecchi che si chiudevano. Gli occhi non gli mandavano più immagini e il cuore batteva così forte da parere fermo.
"Volontari?" ripeté più forte il maggiore.
"Io!" avrebbe voluto dire Federico.
Il maggiore lanciava occhiate di disprezzo.
"Volontari? C'è qualcuno che si offre volontario?" La voce si era fatta isterica.
"Io!" avrebbe voluto dire Federico.
Ma "io" gli restò nella gola.
Il maggiore cominciò a contare. Uno ogni dieci. Uno ogni dieci fino a raggiungere il numero sufficiente. Uno ogni dieci sarebbe andato a conquistare la posizione. Uno ogni dieci scelto a caso, senza sapere che cosa c'era dentro ogni decimo ragazzo. Quel ragazzo. Quello. Uno ogni dieci e basta.
Il ragazzo delle Marche era il decimo.
Guardò Federico.

Il gruppo scelto fu confinato in una parte della trincea. Al più anziano fu affidata una specie di comando. Il capitano diede le istruzioni necessarie.
Nella casamatta il maggiore studiava la carta topografica.
"…correranno sparpagliati e raggiungeranno la Fattoria San Michele. La prenderanno e noi avanzeremo fin là."
Fin là… Federico taceva. Non riusciva a capire perché. Perché tentare di raggiungere quella fattoria ormai ridotta in macerie? Se anche ce l'avessero fatta, quale sarebbe stato il vantaggio? E poi là non c'erano ripari e la fattoria era ben visibile dalle postazioni austriache, dai nidi di mitragliatrici.
Uscirono che faceva quasi buio. Corsero sparpagliati per un chilometro e mezzo. Nessuno arrivò.
Si aspettò la mattina seguente per andare a raccoglierli. Per i morti non c'è fretta.

Federico non riusciva a dormire. La casamatta era calda, quasi asciutta, eppure i piedi li sentiva di ghiaccio.
Cominciò ad avere qualche brivido, qualche brivido sempre più frequente che si trasformò in un tremore incoercibile. "Imboscato… Imboscato… Imboscato! Imboscato!" La parola non gli usciva dagli orecchi. Rimbalzava ora sussurrata, ora gridata, ora portata da una risata di scherno. Imboscato.
Il ragazzo delle Marche non c'era più, ma la sua voce, il suo accento che Federico non aveva mai sentito prima, non si spegnevano. "Imboscato!"
"Io!" avrebbe voluto dire Federico. Ma la parola, piccola come una spina, come una spina stava piantata in gola.
Le mani divennero enormi, pesantissime. La gola era secca. Acqua. Bisognava bere.
Federico si alzò al buio. Cercò a tastoni la borraccia. Davanti a lui c'era solo il muro. Dovunque mettesse le mani c'era il muro freddo, ruvido. La testa girava. Aveva freddo e la gola era di fuoco, grossa, con qualcosa dentro che non poteva uscire. Acqua.
La mattina arrivò il tenente medico. Gli misurò la temperatura, gli guardò in gola, gli palpò il collo.
"Tonsillite, - sentenziò: - niente di grave."
Ma la febbre restava. Anzi, dopo due giorni Federico cominciò a delirare.
Lo trasferirono a Padova, all'ospedale militare.
"Aspettiamo che si sfiammino…"
Il colonnello medico rise come se il tenente avesse fatto una battuta divertentissima.
Gli misero un tampone imbevuto di cloroformio davanti alla bocca e in un attimo gli strapparono le tonsille.

Il letto era nel corridoio, uno dei tanti letti allineati fino a dove si riusciva a vedere. Oltre l'angolo, lontani, non potevano esserci che altri letti.
La febbre non passava.
Per tutto il giorno e per tutta la notte il mormorio degli altri, lo scalpiccio delle infermiere, lo strascicare dei piedi negli scarponi slacciati, il ticchettio delle stampelle. Qualche volta, anche di notte, arrivavano dei feriti. Non si dormiva mai. Non si era mai svegli.
Gli davano della polvere amara. La febbre si abbassava per qualche ora, poi ritornava come prima.
La gola ferita era chiusa, non lasciava passare nulla: persino un bicchiere d'acqua era un tormento.
Il tempo scorreva con una lentezza esasperante, segnato solo dai riti del termometro, dei pasti e della visita.
"C'è qualcuno per te." La suora toccò la spalla di Federico e s'incamminò subito lungo il corridoio. Salì una breve rampa di scale e aprì una porta. Federico entrò. Sua madre gli si gettò al collo. "Il mio bambino…" gli soffiava nell'orecchio e piangeva. Quando, con delicatezza, riuscì a divincolarsi, Federico si trovò di fronte suo padre. Nessuno dei due faceva un passo. Alla fine, esitando, ripetendo i piccoli movimenti l'uno dell'altro, si porsero reciprocamente la mano.
"Come va?…"
"Bene…"
"La gola?…"
"Così…"
"Hai… hai febbre?…"
"Forse… Un po'… Sì, un po' di febbre…"
Si guardavano. Non si ricordavano così. Erano diversi, diversi da come si erano sempre visti: ognuno vedeva l'altro diverso e diverso pure se stesso.
Le cose che avevano in comune abitavano altrove. Tutte tranne una, una che non poteva, che non doveva essere menzionata.
Che cosa c'era da dire?
"Siete arrivati…?"
"In treno… Un'ora fa."
"E… A che ora… Il ritorno…?"
"No so… Pensavamo…"
Che cosa c'era da dire se non si poteva, non si doveva, non si voleva chiedere perché?
Federico cercava di staccare gli occhi da suo padre, ma non voleva guardare sua madre: qualcosa… cercava qualcosa da guardare… Fuori: qualcosa che non c'era.
La testa era vuota.
"Sei… sei magro…"
Che cosa c'era da dire?
D'improvviso, oltre la porta, il cigolio dei carrelli con il pasto. Federico poté girarsi verso il rumore.
"Io… Portano il… Devo andare…"
"Devi mangiare?"
"Sì… Io…"
Sua madre riprese a piangere.
"Il mio letto… è…" Federico alzò un braccio come ad indicare una meta lontanissima.
Suo padre annuiva.
"Il mio letto è lontano… Devo…"
"Sì… sì, vai."
"E'…"
"Sì, vai…"
Federico abbassò lo sguardo sulla mano di suo padre che si mosse appena, ma di un movimento così piccolo da poter passare inosservato.
"Devo andare…"
"Sì…"
Sua madre si lanciò di nuovo verso di lui. Federico tese le braccia e la trattenne per le spalle.
"Devo andare."
"Aspettiamo…"
"No… Non si può…"
Federico non mangiò. Pianse. Pianse per la prima volta e il pianto non lo liberò affatto. Piangere ufficializzò solamente una mutazione senza ritorno.

"Ti ho visto, sai." Era notte quando qualcuno gli si fermò di fianco al letto. Nessuno, tranne medici e infermiere, gli aveva mai rivolto la parola in tutti quei giorni. Chi aveva parlato era un uomo con un giubbotto sulla camicia da notte, un uomo, non un ragazzo. Senza che Federico se l'aspettasse, quello si lasciò andare pesantemente sul letto. "Scusa, sai, ma su una gamba sola… - e rise, lasciando scivolare a terra una gruccia. - Ti ho visto. Ti ho visto: piangevi. Ma no, ma no, non ti devi mica vergognare! No, no: gli ufficiali ho visto piangere, io. Sissignore, gli ufficiali. I tedeschi sparavano, sparavano giorno e notte e noi eravamo in una trincea, dentro il fango gelato. Quattro giorni è durato, mica scherzi. I tedeschi: bum, bum! E gli ufficiali piangevano… Anche i soldati, sì, sì, anche i soldati… Che cosa vuoi fare? Stai lì e speri che centrino un altro… Oh, quattro giorni sono lunghi, sai. Non mangi, non bevi e stai nell'acqua, al freddo, sotto le bombe. Si diventa matti. Qualcuno è diventato matto…. Poi i tedeschi pensano che può bastare e finisce anche quella. Tiri su un po' di morti… Interi, pochi: gambe, braccia… Roba… Quando si è diventati matti si fa anche quello… 'All'assalto!' All'assalto ci si va. A conquistare che? Boh! Ci si va sennò ti fucilano. Oh, i carabinieri fanno quel mestiere lì. Mica è colpa loro. Vai avanti e ti sparano i tedeschi, ti fermi e ti sparano i carabinieri, sei in branda e ti arrivano le bombe in testa…"
L'uomo abbassò ancora la voce.
"Parlo piano, - continuò - perché non è mica detto che non ti fucilino anche qui. Ti rappezzano e poi ti fucilano. Magari ti mandano solo in galera, però io in galera non ci voglio andare. Quando ti capita una fortuna, non te la devi lasciare scappare. Vedi? Anzi, non vedi. Non vedi perché la gamba non c'è più. Bum! Scoppiata. I tedeschi mi hanno fatto il favore e io ringrazio. Grazie, tedeschi… Senza una gamba si torna a casa. E' il regolamento: per farti ammazzare devi essere intero e star bene di salute… A casa! Io a casa ci voglio tornare, e allora non mi voglio far beccare come disfattista. Tenetevi la gamba e mandatemi a casa… Disfattista… Oh, io all'assalto ci sono sempre andato, quel che mi dicevano di fare, io facevo. Spara! E io sparavo. Sì, sì: anche quando mi dicevano di sparare addosso ai tedeschi che si arrendevano, io sparavo. Bum! Bum! E loro cascavano giù ancora con le mani in alto. Non si fa mica peccato: è la guerra! Bum! Bum! E la gamba è scoppiata. Sparita! Pensa, non me ne sono accorto subito, sai…Ma dov'è la mia gamba?"
Raccattata la gruccia, l'uomo si alzò senza guardare Federico e si allontanò lungo il corridoio. "Bum! Bum!" e ridacchiava ansimando un poco.

"Trentasei e mezzo," disse la suora.
"Domattina liberiamo il letto," L'ufficiale medico scrisse qualcosa sul foglio che portava con sé.
Seduto nel cassone dell'autocarro insieme con altri sei o sette, anche loro dimessi dall'ospedale, Federico ritornò al reggimento. L'ultima ventina di chilometri la fecero a piedi. I chicchi ghiacciati, piccolissimi, cadevano da chissà dove e rimbalzavano sulle mantelle. Un po' di neve s'impigliava nei ciuffi d'erba morta che tremavano nel vento.
"Finalmente sei tornato, - disse il maggiore seduto nella tinozza, posando a terra il Corriere dei Piccoli - Quell'imbecille che ti ha sostituito non sapeva l'ortografia. E poi è morto."
Dai discorsi smozzicati dei soldati e del maggiore, Federico capì che ci si sarebbe spostati da lì. Spostati in una posizione più settentrionale dove gli austriaci picchiavano forte e avevano fatto parecchi danni.
"Domani arrivano i complementi, - disse il maggiore. - Poi si va."
I soldati stavano rannicchiati a gruppi e facevano tintinnare il fondo sordo della gavetta con i cucchiai di stagno. Bisognava raccogliere fino all'ultimo pezzetto di patata.
Avevano cominciato con un bisbiglio, un bisbiglio che era diventato un brontolio e poi quasi un clamore, delle grida. I cucchiai battevano sulle gavette vuote.
"Che c'è?" strillava il capitano.
Il maggiore uscì dalla casamatta e si trovò davanti centinaia di soldati in tumulto.
"Che cosa succede? Basta! Questa è insubordinazione!"
Senza che si potesse capire chi fosse a gridare, dalla massa veniva "Andateci voi a farvi ammazzare!". E "Basta con questo massacro!"
Il tutto durò poche decine di minuti per placarsi solo quando il maggiore estrasse la pistola, sparò tre o quattro colpi in aria e nel silenzio improvviso gridò: "Vi faccio fucilare!"
Gli ufficiali si chiusero nella casamatta e ne uscirono dopo più di un'ora. Federico li aveva sentiti discutere forte, concitatamente.
I soldati parlavano sottovoce, a scatti, tutti insieme, o tutti insieme tacevano. Qualcuno picchiava il pugno sulla parete della trincea. "Ci mandano a morire…" "Al macello…" "Io… Basta!"
Passò la notte.
Arrivarono i complementi: qualche ragazzo e molti vecchi, quarantenni.
Il pomeriggio, sulla spianata invisibile agli austriaci, furono riuniti tutti i soldati, quelli che già c'erano da mesi e quelli appena arrivati.
"L'insubordinazione di ieri è un fatto gravissimo, - disse il maggiore, parlando dall'alto di un masso. - Si facciano avanti i responsabili!"
Nessuno si mosse. Non c'erano i responsabili: il tumulto era incominciato così, quasi per germinazione spontanea, dal tintinnare delle gavette.
"Si facciano avanti i responsabili! I vigliacchi! I disfattisti!"
I soldati sembravano fantocci.
"Avanti, se questi signori hanno il coraggio!"
Il maggiore batté il tacco sulla pietra bianca, secca, gelata. Scese a terra, fece qualche passo e si avvicinò ad un tenente. "Imbussolate tutti i nomi ed estraetene dieci!"
"Tutti? Anche i complementi arrivati stamattina?"
"Ho detto tutti!"
Ci vollero quasi due ore per completare l'operazione.
I dieci estratti furono fatti allineare. Nessuno pareva aver capito.
I carabinieri avanzarono con i fucili sulla spalla. Legarono le mani dei soldati. Li bendarono.
Nonostante tutto, nessuno pareva aver capito. Già una volta si era inscenata una finta fucilazione.
Tra i dieci bendati c'erano due complementi. Legati, bendati, erano immobili come gli altri otto. Uno cadde. Svenuto. "Signor maggiore," disse l'altro girando la testa per cercare senza occhi dove fosse l'ufficiale.
Non ci fu risposta.
"Signor maggiore," disse più forte.
Il silenzio fu lunghissimo.
"Che cos'hai da dire?"
"Io sono arrivato stamattina."
Il maggiore restava impassibile.
Silenzio.
Il cinguettio di un passero lacerò l'aria.
"Io non so niente di ieri. Non c'ero. Io sono del '75. Ho due figli…"
Tutti gli occhi erano sul maggiore. "Io non posso mettermi a cercare chi ieri c'era e chi ieri non c'era. La giustizia umana è questa. Se sei innocente, dio ne terrà conto…"
I fucili dei carabinieri crepitarono.
Il maggiore camminò verso il mucchio dei soldati a terra. Si diresse verso il complemento che era svenuto. Estrasse la pistola e sparò.

Federico non aveva mai visto morire nessuno.
A cena servì il maggiore come sempre. Da dietro vedeva il collo irto di setole bionde rade.
"Metti tutto nella cassa." E Federico ordinò i fascicoli del Corriere dei Piccoli.

Quando in Sicilia si dice che è freddo, non si ha idea di che cosa il freddo sia veramente.
Il reggimento era stato trasferito in montagna. La neve doveva essere alta quanto e più di un uomo, se mai un uomo avesse avuto voglia di scavare tanto da arrivare alla terra.
Ora la trincea era più stretta. Il freddo ne mitigava l'umidità e il fetore.
Non c'era nessuna possibilità di scaldarsi gli orecchi, il naso, le dita, i piedi. I soldati cercavano solo di sopravvivere fino alla sera, poi fino alla mattina seguente.
Federico stava nel forte scavato sul fianco della montagna. Lì non faceva freddo. Non troppo. Si poteva anche scaldare l'acqua per la tinozza.
Chi era già lì da un pezzo raccontava sottovoce di assalti lanciati contro i reticolati dove si restava impigliati a farsi sparare addosso dei tedeschi. Raccontava di sentinelle trovate morte congelate. Raccontava di soldati giustiziati con la pistola dal colonnello. Raccontava di un ufficiale che in un'azione era morto con una pallottola alla nuca.
Il colonnello stava nell'altro forte, un chilometro più a valle. Un uomo andava giù, di tanto in tanto, a prendere da lui i giornali per il maggiore.
A fine marzo non c'è più tanta neve e non fa più così freddo.
Una mattina saltò fuori il cielo. Blu. Di un blu come in Sicilia non si vede. Il vento aveva pulito l'aria e di lontano si vedeva la pianura marrone.
Da settimane non ci si sparava. Sembrava la pace, ma era solo la neve, che era stata altissima, ad avere impedito qualsiasi azione.
Era uscito il sole e i soldati si erano avventurati nella neve, fuori dalla trincea, allontanandosene anche di qualche centinaio di metri, verso valle. Uno sperone di roccia li difendeva dagli occhi e dai colpi degli austriaci. Fermi al sole, magari al riparo dal vento, faceva quasi caldo. Il cielo aveva un colore che si sarebbe stati tentati di definire innocente. Sembrava la pace.
Federico avrebbe voluto uscire, ma c'era un rapporto da compilare e il maggiore dettava con lentezza, spesso correggendosi e costringendolo a ricominciare la pagina daccapo.
Il sole… I tedeschi, a monte, che si erano presi una vacanza, una lunga vacanza…
Il maggiore dettava.
Il vento era calato d'intensità: appena una brezza da monte.
Il maggiore continuava ad essere indeciso su che cosa dire e su come dirlo. Dettava e ci ripensava.
D'improvviso, lontano, uno scoppio. Subito un altro. Era il cannone degli austriaci.
Il maggiore troncò una frase e si rizzò in piedi. Restò immobile un minuto, poi "Chiudi tutto!" gridò.
Federico lo guardò senza capire. "Chiudi… Che cosa?"
"La porta! Chiudi! Bagna gli asciugamani, le camicie!"
Federico non capiva.
"La porta! Chiudi la porta!"
Federico tentò di ubbidire, ma il maggiore l'aveva preceduto.
"Quello!" gridò il maggiore correndo a prendere l'asciugamano appeso sopra la tinozza e buttandovelo dentro. Poi lo raccolse, lo strizzò appena e, freneticamente, cercò d'incastrarlo tra porta e stipite.
"Bagna le camicie! Sveglia!"
Un odore strano, insolito, di fieno, era entrato nella stanza. Un odore di fieno andato a male che pizzicava il naso.
Il maggiore correva avanti e indietro, bagnava nella tinozza tutto quanto fosse di stoffa che gli capitasse a tiro e lo premeva contro la porta.
"Forza! Forza! Svelto!" gridava.
Federico ubbidiva.
"E' il gas! E' il fosgene!" gridava il maggiore.
Sigillarono ogni possibile spiffero.
Dalla mattina, nel forte erano rimasti soltanto loro due.
"Aprite!" qualcuno gridava da fuori.
Il maggiore guardò Federico.
"Aprite!" Le voci gridavano più forte.
Il maggiore si era messo con le spalle alla porta e si teneva una camicia bagnata sulla faccia.
"Aprite!" Erano in dieci, in cento. Picchiavano contro la porta del forte.
Gli occhi del maggiore erano pazzi di paura.
"Aprite!"
"Signor maggiore…" disse Federico.
Il maggiore si girò verso la porta che rimbombava. Il collo era irto di setole bionde, rade.
Fuori gridavano. Erano tanti.
"Signor maggiore…"
Le voci erano innaturali.
Fuori tossivano.
Gli occhi… Le setole sul collo…
"Mi faccia aprire…"
Il maggiore si teneva la camicia sulla faccia.
"La prego…"
Dieci, cento uomini prendevano a spallate la porta. "Aprite!"
Il maggiore teneva gli occhi spalancati, occhi minacciosi, occhi terrorizzati, occhi da pazzo.
"Aprite!"
I colpi erano sempre più violenti.
"Aprite!"
Federico prese la pistola del maggiore e sparò. Un colpo solo.
Scavò convulsamente nella stoffa bagnata e arrivò alla porta. L'aprì.
Una valanga di uomini, una valanga d'aria verdastra di fieno putrido.
"Chiudete! Chiudete!"
Ma tutti premevano, tutti spingevano con la violenza dei disperati, dei moribondi che non sono pronti a morire.

A fine marzo le giornate sono lunghe.
Era ormai metà pomeriggio quando i tedeschi avanzarono con la testa chiusa nelle maschere antigas. Sembravano insetti. Grossi insetti. Insetti che solo quanto si vede in guerra rende verosimili.
Avanzavano nella neve lentamente, circospetti.
Qualcuno dei nemici, dei loro nemici, pareva respirare ancora. Il più delle volte un colpo di vanghetto sulla nuca era sufficiente. Qualche volta due o tre.
Non ci fu bisogno di forzare la porta del forte: i corpi ammucchiati la tenevano spalancata. Dentro, sotto tutti, c'era un maggiore con i capelli biondi che aveva un proiettile piantato nel cuore.

 
 
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