La carne addosso di Stefano Montanari
"Avanti, se siete uomini!" Fabrizio diede di sprone al cavallo e si lanciò alla rincorsa di suo padre che, passando al galoppo di fianco al cavallo di Claudio ne aveva toccato con il frustino la natica. Il padre, davanti a tutti, rideva e gridava. Fabrizio si era alzato sulle staffe come un fantino. "Forza, forza!" Claudio sobbalzava aggrappato come poteva alla sella, tirava le redini cercando di trattenere in qualche modo l'animale, ma quello si era gettato all'inseguimento degli altri due e soffiava dalle narici e stracci di schiuma gli si staccavano dal morso ed era viscido di sudore e i muscoli scivolavano sotto la pelle e non era certo Claudio chi lo potesse fermare. "Forza, forza! Se siete uomini, venitemi a prendere!" Naturalmente Claudio non poteva stringere la bestia con le ginocchia e quel galoppo senza speranza di freno, scomposto, selvaggio lo sbatteva sulla sella e dalla sella lo cacciava. "Forza!" Suo padre e suo fratello si allontanavano in un'esplosione continua di terra che scoppiava sotto gli zoccoli e il cavallo su cui lo avevano messo non voleva perdere la gara. Quel corpo caldo come un uomo che impazzisca di febbre, quell'umore salato che dal corpo caldo trasudava, quella bava compatta che volava e che gli colpiva la bocca, quel respiro vibrante nelle narici elastiche. Claudio avrebbe voluto che quello fosse un incubo, uno dei tanti, ma l'animale era di una materia che nei sogni non c'è, era di materia. I cavalli di suo padre e di suo fratello galoppavano all'impazzata, in delirio, in discesa verso il torrente, dove il torrente si stringe, e alla fine della discesa spiccarono il salto: prima fu il cavallo di suo padre, poi subito quello di Fabrizio. Il suo arrivò dopo e volò oltre l'acqua, raggiungendo gli altri due che si erano fermati e scrollavano la testa. "Alzati!" Claudio aveva battuto la faccia e la gamba stretta nel tutore di ferro e di cuoio. Il sangue ha il sapore del ferro. Il fango scricchiola sotto i denti. "Alzati!" Suo padre si allontanò di qualche passo sul cavallo che, ancora eccitato, si girò dall'altra parte. Fabrizio scese a terra. "Ti sei fatto male?" E' la materia che fa male, è la carne. E la carne della gamba malata manda un dolore che non è quello che gli altri conoscono. Solo la carne fa male. E il dolore non sta nella carne."Con quale cameriera?"
"Emilia."
"Beh, ha buon gusto il ragazzo."
"Avrà buon gusto ma è tuo figlio e tu gli devi dare una tirata d'orecchi."
"Una tirata d'orecchi? E perché?"
"Perché sono cose che non si fanno."
"Non si fanno? Con una serva?"
"Con una serva che non l'ha presa bene."
"Non l'ha presa bene? Oh, bella, adesso si deve anche chiedere il permesso… Che cosa significa 'non l'ha presa bene'?"
"Significa che dopo avergli dato un ceffone è venuta da me a mostrarmi la camicetta strappata e…"
"E…?"
"E poi una tragedia: 'Signora, che vergogna!' ha detto e si è messa a piangere. Gli altri domestici…"
"Eh, quante storie! Comprale una camicetta, dalle cinquecento lire e dille che la prossima volta, se farà la brava, ne avrà mille. E' un uomo, Fabrizio!"
"Un uomo… E' solo un maschio."
"Un maschio vero!"Fabrizio giocava a tennis e, naturalmente, giocava benissimo. Alla villa venivano gli amici, i suoi amici, e giocavano tutto il pomeriggio. Poi mangiavano.
Dalla finestra della sua stanza, Claudio non poteva non sentire il rumore legnoso, di un ritmo sempre un poco disuguale, della pallina, le grida che accompagnavano ogni punto, la musica del grammofono, suo padre che arrivava sull'automobile scoperta e con le sue battute faceva ridere specialmente le ragazze. Suo padre che faceva un set, lui solo contro due ragazzi, che lo vinceva e che si faceva premiare dal bacio della miss.
La notte Fabrizio dormiva. La carne esausta, la carne che ha consumato se stessa, di notte sembra si acquieti, ma invero lavora: si ritempra, si riforma, costruisce altra carne, altra materia che si consuma e che, divorando materia subalterna, si accresce. E' una materia dominante. E' una materia che non ha altro fine se non se stessa.
Claudio non dormiva. Claudio non consumava materia. Claudio non aveva bisogno della materia. La materia lo costringeva, forse era una specie d'impalcatura. Quando i ragazzi restavano a cena, d'estate, Claudio mendicava qualche scusa per poter restare in camera sua, ma da là li sentiva parlare forte, ridere, maschi e femmine. Non era possibile escludere quelle voci, quei rumori. Poteva solo non vedere gli sguardi che i ragazzi lanciavano sulle ragazze, sui loro corpi di carne che si ritraeva per attirare il cacciatore da solo, sguardi che servivano inconsciamente, consciamente, selvaggiamente, a perpetuare la materia.Non era solo il problema della gamba: erano quelle febbricole che arrivavano puntuali tutte le sere e che il medico non sapeva decifrare, era quella testa che improvvisamente sembrava attraversata da una freccia e che restava stordita. Claudio andava a scuola quando ce la faceva o, meglio, quando glielo mandavano quasi a forza. I banchi sudici con la vernice nera che si scrostava, le mani rinsecchite dal gesso, l'olio rosso che le bidelle continuavano a spargere mescolato alla segatura sui pavimenti, i compagni che lo invitavano ai loro giochi, i suoi rifiuti, i compagni che non gli chiedevano più di giocare e che parlavano tra loro guardandolo di sottecchi. Tutti i pomeriggi veniva la signorina Camilli a dargli lezione e con la signorina Camilli si trovava bene. Non c'erano spiegazioni da dare. Lei stava di là dalla tavola e non si avvicinava mai. Quando lui le porgeva un quaderno, stavano tutti e due attentissimi a che le dita non si sfiorassero nemmeno. La signorina Camilli non aveva forma sotto il vestito grigio che indossava incurante delle stagioni. Benché sua madre l'avesse invitata qualche volta a restare a cena, lei aveva sempre rifiutato. Forse non mangiava. La signorina Camilli non era materia.
"Signore, la vettura è pronta."
"Il bagaglio?"
"Già in vettura."
Suo padre si assentava abbastanza spesso. A lui non era chiaro dove andasse. Una volta aveva sentito due persone di servizio che parlavano tra loro ridacchiando e aveva capito che, quando viaggiava, suo padre lo faceva con delle donne, o con una donna. Aveva osservato sua madre, cercandone una reazione. Niente.Quando era venuto il tempo, Fabrizio si era iscritto all'università: legge, e in tre anni non aveva dato neppure un esame.
"Ha altro da fare, il ragazzo!" diceva compiaciuto suo padre.
In effetti Fabrizio faceva altro, dividendo il suo tempo tra le ragazze e il Partito, tra feste e olio di ricino.
Claudio suonava il pianoforte.Era giugno quando il Duce dichiarò la guerra. Erano a tavola quando Fabrizio disse che sarebbe partito volontario. Suo padre tardò un momento prima di dirgli "bravo," e sua madre non disse nulla. Lo mandarono in Africa. Ogni settimana, poi ogni due, poi ogni tre, arrivava una lettera e suo padre la leggeva ad alta voce a tavola. Poi guardava Claudio e la sua gamba in quella ridicola, miserabile armatura.
Era passato un anno quando arrivò la lettera ufficiale: Fabrizio era morto. Lui era morto da uomo, con una palla pesante nella carne e Claudio se ne stava al sicuro, mostrando il suo salvacondotto di ferro e cuoio, quella gambetta repellente, chiusa al sicuro, che gli proibiva di essere 'uomo'.
"Non puoi piangere!" aveva detto suo padre quando sua madre aveva contorto il viso.
Claudio aveva pianto da solo nella sua stanza. Non per Fabrizio, non per sua madre.A guerra finita le ambasciate tornarono ad aprirsi a Roma e, come accadeva prima, i diplomatici ripresero a frequentare la villa.
Dove gli eucalipti lasciavano il posto a una radura suo padre aveva fatto scavare una piscina, in mezzo alla quale, collegata con una passerella, c'era un'isola e sull'isola una specie di elegantissima capanna con il bar, le docce e gli spogliatoi. Intorno alla piscina o sull'isola, gente di ogni nazionalità si stendeva al sole o chiacchierava. I tonfi di qualcuno che si gettava nell'acqua, le grida di richiamo con gli accenti più diversi, il tintinnare dei bicchieri: la guerra, le cui ferite non solo materiali si spalancavano ancora fresche appena fuori dal cancello, c'era stata solo per gli altri. Gli altri: un'entità indefinita. La servitù si affrettava discretamente con vassoi di tartine, di dolci, di bevande. Quando la piscina era stata inaugurata, in un angolo tra le magnolie si erano riunite, forse per caso, le ragazze. Nelle futilità le tradizioni s'istaurano in fretta e così quell'angolo era diventato una sorta di gineceo. Quell'angolo vedeva Claudio dalla finestra nell'attimo in cui la schiudeva per dare un po' d'aria alla stanza oppressa dalla calura. E vedeva suo padre, ancora atletico benché non fosse troppo lontano dalla sessantina, che si avvicinava alle ragazze, che le faceva ridere, che toglieva loro dai capelli le piccole foglie di salice che il vento aveva portato.
Claudio suonava il pianoforte. La musica non ha legami con la materia, tanto meno con quella sua varietà inferiore che è la carne. La musica non pretende nutrimento. La musica non ricalca nulla che abbia una forma, una massa, una qualsiasi consistenza. La musica esiste al di fuori di chi con le dita o con il respiro cerca ingenuamente di darle un'effimera percettibilità. Claudio suonava il pianoforte con la finestra chiusa, ché la musica non si mescolasse con il vociare cosmopolita della piscina. Claudio suonava con le spalle alla finestra, ché non gli capitasse di soffermarsi, involontariamente affascinato dalla volgarità dello spettacolo, su quelle carni dorate dal sole, su quei capelli luccicanti d'acqua."Davvero bella la figlia dell'ambasciatore francese," disse sua madre.
"La figlia di Simonneau?" fece suo padre.
"Chantal."
La settimana dopo Claudio non poté esimersi dall'andare con padre e madre alla cena cui i francesi li avevano invitati.
"Claudio, non è che ti si veda gran che. N'est-ce pas?" gli disse Chantal.
Claudio aveva dovuto prendere la mano che lei gli aveva porto e l'aveva stretta il più brevemente possibile, ritraendosene in fretta.
Durante la cena suo padre parlava con l'ambasciatore, con Madame e, ma solo per rari attimi, con la ragazza. Claudio taceva e, quando interpellato, rispondeva appena entro i limiti per non essere giudicato troppo maleducato. In breve ci si dimenticò di lui. Così poté farsi servire la minor quantità possibile di cibo e poté nascondere la carne sotto l'insalata con la speranza fondata di non essere notato troppo.
A fine cena suo padre e Simonneau si appartarono in un salotto con un bicchiere di porto, sua madre e Madame si sedettero su due poltrone vicine e cominciarono a parlare in francese, e Claudio si ritrovò seduto su di un piccolo divano di fianco a Chantal. La coscia di lei premeva contro il suo tutore di ferro e cuoio. Lei tentò un paio di volte d'innescare una qualsiasi forma di conversazione, il tennis, il probabile trasferimento della famiglia in Portogallo, ma lui la spense subito con un monosillabo conclusivo e con lo sguardo altrove, pur rendendosi conto ogni volta che questo peggiorava l'imbarazzo del silenzio. D'improvviso la ragazza si alzò, fece due passi e, con una mano, prese da sotto la pancia un gattino con la coda dritta.
"Guarda che bello!" disse tornando al divano e, nel sedersi, appoggiando la mano libera sul ginocchio di Claudio. "Se non ti piacciono le donne, ti piaceranno almeno i gatti," riprese Chantal sorridendo con una malizia inaspettata. Poi lo guardò e gli mise in grembo l'animale che gli piantò le unghiette nella pelle trapassando la trama dei pantaloni. Claudio non allungò le mani per prendere il micio che dopo un attimo saltò a terra.La signorina Camilli era restata sola: la sorella con cui abitava era morta. E allora, di tanto in tanto, e, anzi, sempre più spesso, restava a pranzo. Lezioni a Claudio non ne dava più, è ovvio – Claudio era laureato da un pezzo – ma la signorina non aveva mai cessato di frequentare la villa e ora faceva dei lavori di segreteria e di traduzione. A volte Claudio e la signorina Camilli pranzavano soli e, complici silenziosi, sfioravano appena il cibo.
Al torneo di tennis che, come prima della guerra, si organizzò di nuovo alla villa, suo padre giocava in doppio misto con Chantal e la coppia vinse. Lei era raggiante, molle di sudore, con una leggera peluria dorata sulle braccia color di un velo di miele di castagno, e baciava il compagno che rispondeva ai baci e l'abbracciava davanti agli ospiti e agli sconfitti che ridevano e applaudivano. Bevvero lo champagne dalla stessa coppa.
"Claudio!"
Claudio si voltò di scatto, arrestandosi mentre camminava, quasi furtivamente, sul marciapiede intorno alla villa per raggiungere la vecchia serra dove ora era sistemata la biblioteca cui la signorina Camilli stava provvedendo al riordino e alla catalogazione delle migliaia di volumi.
"Claudio!"
Chantal lo chiamava dalla piscina. Si era agli ultimi giorni di settembre e, benché facesse ancora caldo, pochi venivano alla villa, ormai annoiati da un passatempo che era durato tutta l'estate. Chantal era sola nell'angolo delle magnolie.
"Claudio, vieni, je t'en prie!"
Esagerando un po' la zoppia, Claudio attraversò la ghiaia fino al lettino su cui la ragazza stava sdraiata.
"Claudio, oggi non c'è nessuno, neanche tuo papà. Vieni tu a farmi un po' di compagnia. Tieni, prendi l'olio e spalmamelo sulla schiena."
Claudio restò impietrito.
"Ti prego, Claudio. Non vorrai che mi scotti!"
Claudio si ritrovò in mano la bottiglia untuosa di olio rossastro, del colore di quello che le bidelle mescolavano alla segatura. Sul vetro era incollato, impastato nell'olio, un capello. Claudio svitò il tappo e si versò il liquido sul palmo. Chiuse gli occhi e fece cadere la mano cava sulla schiena nuda che rabbrividì appena al contatto come un cavallo che scacci un tafano. La schiena era calda. Il calore veniva dal sole e da dentro, da dentro la carne. Chantal si muoveva quasi impercettibilmente e la mano di Claudio scivolò d'improvviso su un piccolo neo che la sensibilità delle dita amplificò rivelandone la natura di escrescenza pungente ed elastica. Claudio aprì gli occhi spaventato. "Scusa, - disse – ma devo andare in biblioteca." Tenendo la mano unta ben aperta, per quanto glie lo permettevano l'educazione e la gamba malata si allontanò in fretta, precipitandosi in bagno dove si lavò, si lavò insaponandosi sotto l'acqua bollente, si lavò per eliminare ogni traccia di quella sensazione di pelle calda, di materia vivente, cosmicamente egocentrica, divorante, come quella del cavallo impazzito.
Nell'ombra della biblioteca la signorina Camilli era seduta alla scrivania e ricopiava tranquillamente le sue schede."La ragazza è d'accordo."
"D'accordo?"
"Sì, certo, lei è d'accordo e suo padre pure."
"Ma se… Ma se ci saremo parlati sì e no tre volte!"
"E con questo?"
"Ma…"
"Sentimi un po', Claudio, a me non importa un fico secco se a te piacciono gli uomini… - Claudio guardò suo padre con gli occhi sbarrati. Ma come poteva pensare…? – Tuo fratello non c'è più, purtroppo."
Simonneau era d'accordo, e questo non lo stupiva. Del resto davanti ad un patrimonio simile era difficile non essere d'accordo. Ma lei, la ragazza, come poteva 'essere d'accordo'? E poi perché proprio Chantal?
Per il fidanzamento ufficiale ci fu una festa e, naturalmente, Claudio non poteva non esserci.
Lei lo guardava in una maniera curiosa, gli sorrideva del sorriso di chi ti ha tirato un bidone, ma un bidone tutto sommato innocente, gli teneva la mano sul braccio forse lontana dal sospettare l'orrore che il gesto induceva, lo baciò sulla guancia quando i fotografi lo accecarono con i lampi.
La signorina Camilli, che nemmeno per l'occasione aveva rinunciato al vestito grigio, si era mantenuta in disparte in fondo alla sala."Sì, era nell'aria. Del resto glielo avevo anticipato, - disse l'ambasciatore: – è a marzo che mi trasferiscono a Lisbona."
"Allora…"
"Ma sì, pensavo… Forse non sarebbe male anticipare il matrimonio di qualche mese."Il matrimonio fu un avvenimento mondano: fotografi, giornalisti, operatori dei cinegiornali. E invitatati, tantissimi. Claudio aveva lo stomaco stretto in un pugno così greve, così materiale da percepirne con esattezza i contorni, la consistenza. "Ancora un bacio per i fotografi!" Facendosi largo tra gli ospiti che gli sorridevano e lo toccavano, Claudio riuscì a mala pena a raggiungere il bagno e vomitò. Non c'era acqua bollente che lo potesse lavare. Anche l'acqua è materia.
La sera le stanze erano preparate. Le stanze perché fu subito chiaro, né ci fu bisogno di puntualizzarlo a parole, che le stanze dovevano essere due: Claudio nella sua vecchia camera con il pianoforte e Chantal in quella che era stata di Fabrizio, completamente rifatta secondo un gusto un po' particolare.
Ecco, era tutto chiaro: fin dall'inizio era tutto chiaro. E come era possibile che fosse altrimenti? Claudio era sveglio, Claudio non dormiva mai. Sua madre forse dormiva. Suo padre percorse il corridoio come un personaggio da vaudeville ed entrò nella stanza della sposa. A chi poteva importare quello jus primae noctis che doveva essere semplicemente il ripetersi di un'abitudine? Da adulterino a incestuoso: un po' teatro elisabettiano e un po' farsa parigina.Per il viaggio di nozze partirono in automobile. Guidava lei, correndo senza freni come il cavallo, nervosamente, e non si scambiavano parole. Non appena iniziarono ad inoltrarsi tra le montagne, la strada si fece viscida di neve e schiantarsi contro un parapetto fu un fatto assolutamente ovvio. Chantal scese subito dalla vettura e cercò con lo sguardo Claudio. Aprì la portiera di destra. Lui era appallottolato sul pavimento, ridicolo. "Ti sei fatto male?" Un po' di sangue gli colava dalla fronte. Lei gli mise subito un fazzoletto sulla ferita e lo baciò sulla guancia. Lo baciò senza motivo. Con un'auto di piazza arrivarono alla villa di Cortina. Il caminetto era acceso.
Dopo una cena in cui Chantal tentò ripetutamente di rievocare l'incidente, di spiegare, d'incolparsi, di scusarsi, d'informarsi della salute di Claudio, non restò che alzarsi e dirigersi ognuno verso la propria stanza. "Sei sicuro?" chiese lei. Lui non rispose e chiuse la porta.Un giorno Chantal ritornò prima del solito. Un'improvvisa bufera di neve, per quanto tutto sommato modesta e breve, l'aveva indotta a rientrare precocemente alla villa. In realtà era irrequieta: sulle piste si annoiava, le attrattive del paese erano presto esaurite e in casa c'era ben poco da fare, se non leggere qualcosa raccattato al negozio di giornali. Varcato il cancello, percorso il vialetto che la servitù stava già liberando con le pale dalla neve, appoggiò gli sci fuori della porta e sentì Claudio che suonava il pianoforte. Lo aveva già sentito altre volte, quando, a fine cena, veniva obbligato a "fare qualcosa per gli ospiti". Era un pianista corretto, ma certo non più che un discreto dilettante. Eppure ora, da solo, senza avere coscienza di qualcuno che lo ascoltasse… Era una mazurca di Chopin, niente di eccezionale, non delle migliori o, almeno, non delle più note. Ma dentro quella mazurca c'erano cose che un uomo di carne non può avere scritto, non può conoscere, non può avere pensato. Quelle cose non erano di Chopin.
Come sentì qualcuno muoversi, Claudio non poté smettere di suonare: chi entrava si sarebbe domandato perché, avrebbe presunto di essere la causa di quell'arresto improvviso. Forse avrebbe preteso ragioni, se non altro con lo sguardo. Claudio continuò a suonare meccanicamente.
"Perché non mi fai qualcosa al piano?" disse inaspettatamente un giorno Chantal, rompendo il silenzio tenuto per comune, quanto naturalmente tacito, accordo.
"Scusa?…"
"Ma sì, oggi non esco. Vedi come nevica… Ti prego!"
Claudio suonava da dilettante.Come dio volle passò il periodo del doveroso viaggio di nozze.
La notte del ritorno a Claudio scappò un sorriso quando vinse la scommessa con se stesso e avvertì lo scalpiccio di suo padre che percorreva il corridoio. Si stupì, invece, quando sentì il soffio delle voci dei due che evidentemente litigavano e quando la porta sbatté.Uno dei regali di nozze era stato un pianoforte a coda che avevano sistemato in una stanza ancora vuota di quella che ora era la biblioteca. Claudio aveva accompagnato l'accordatore e ne aveva seguito il lavoro, non liberandolo fino a che non ebbe provato cento volte tutta la tastiera e non ne fu completamente soddisfatto. L'impegno gli valse la scusa di non pranzare con la famiglia.
Quando Chantal entrò nella stanza, cosa che non aveva mai fatto, nessuno se ne accorse. Claudio era seduto al pianoforte e non era difficile riconoscere il terzo movimento del Chiaro di Luna in ciò che dal pianoforte usciva. Ma era un Beethoven depurato della carne, un Beethoven indiscutibilmente travolto dalla passione, come da manuale, ma scolpito nel puro spirito. Era amore, sì, certo, non poteva che essere amore, quello, ma amore verso qualcosa che non si può percepire con i sensi, forse verso qualcosa che non può nemmeno esistere, non in questo mondo, non nei cervelli degli uomini. E Claudio quel sentimento impossibile lo estraeva da un oggetto di legno e di fili di metallo. Dietro a lui, di spalle alla porta, la signorina Camilli in piedi nell'abito grigio."Claudio, ti prego, parliamo."
"Scusa… Che cosa dovremmo…"
"Ma perché?"
"Temo di non…"
"Insomma, Claudio, siamo marito e moglie!"
Quanta ignobile volgarità in quella frase!
Ma Chantal non si arrestò, forse non ebbe nemmeno coscienza dell'orrore al quale era arrivata. Avanzò verso di lui, verso di lui che arretrava barcollando come un buffone deforme nell'ilarità di un banchetto di corte, e lo chiuse contro il tavolo su cui rischiò di cadere ripetendo la più trita delle scenette da avanspettacolo. Lo chiuse e lo baciò, tentando di accarezzarlo, premendoglisi sul corpo, gravandolo della sua materia, toccandogli con la coscia il tutore di ferro e di cuoio, forzandogli addosso il calore e la consistenza di una carne fremente come quella compatta e umida del cavallo.La notte si era fatta d'improvviso serena.
"Non puoi fare altrimenti: per il mondo tangibile è tua moglie. Ci sono adempimenti che la carne pretende. Tutto dipende dal punto di vista, dalla tua Weltanschauung, dalla Weltanschauung alla quale hai deciso di aderire, da come ti poni nei confronti della materia. Comunque della materia devi tenere conto e tu sai di quale adempimento si tratta, che tu lo voglia o no. E c'è una maniera sola. Tu sai che cosa fare."
Ora Claudio lo voleva. Della carne avrebbe tenuto conto, ne avrebbe condivisa la materia.
Percorrere quel corridoio sulle orme paterne. Percorrerlo in una caricatura zoppicante di suo padre cui, benché nessuno avesse il coraggio di dirlo, somigliava. La cosa era buffa.
Claudio aprì con dolcezza la porta. Non era bene che Chantal si svegliasse. Se si fosse svegliata tutto sarebbe stato più complicato. Invece l'incontro doveva avvenire con estrema delicatezza, perché quel contatto volontario con la carne, quel contatto deliberato che dopotutto era il primo, doveva essere naturale, il più naturale possibile. Quell'atto apparteneva alla storia più antica dell'uomo, era scritto nella sua natura, anche se a quell'atto Claudio non aveva pensato mai fino ad allora.
Dalla finestra passavano lame di luna bianche e parallele che attraversavano obliquamente il corpo addormentato di Chantal precisandone la corporeità. Rara traluce la notturna lampa. Claudio non aveva mai guardato bene sua moglie. Per abituarsi al contatto le sfiorò i capelli, forzandosi a tenerne una sottilissima ciocca stretta fra le dita. Quando avvicinò le mani a quel corpo striato di luce e di buio, sentì il calore ben prima del contatto e al contatto, che alla fine ci fu, ebbe paura perché Chantal si mosse un poco. Non si svegliò, tuttavia. Claudio non aveva mai tenuto le sue mani su di una carne se non per contatti fugaci e obbligati. Ora lui lo voleva. Aveva deciso di volerlo. Ci sono adempimenti che la presenza della carne pretende, che il rapporto tra la carne propria e quella altrui pretende. Claudio non avrebbe potuto dire quanto durò quel contatto fatto di brividi e di sussulti. Le mani di un pianista sono agili ma sono anche forti, così inaspettatamente forti che Chantal si sorprese quando, svegliandosi, si accorse che a farla morire, serrandole il collo e facendole spalancare la bocca alla ricerca di aria erano le dita di Claudio.26/4/01