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Cap I
IO E ANNIE
di Alberto Lori
 
 

            Non era un sogno ma un vero incubo. Una mosca. Mi ero tramutato in un ributtante insetto, nero e tronfio, invischiato in una tela di ragno. Una ragnatela che non era formata di sottili filamenti setosi, ma di funi robuste, appiccicose, che m’impedivano ogni movimento. Avevo provato a divincolarmi, a scrollarmi di dosso quegli orribili legami che mi tenevano imprigionato, ma avevo finito col trovarmi completamente immobilizzato. Stavo cercando di riprendere fiato quando avevo udito il suono. Una vibrazione quasi indistinta, eppure penetrante. Tremula come il ronzio pavido di un’ape al suo primo appuntamento con un tulipano. Il suono si fece strada nel buio delle sinapsi. Il sipario di tenebra si smagliò in barbagli di luce. Come bolle d’aria di uno sfiato subacqueo risalirono in superficie brandelli di coscienza. Le palpebre ebbero un tremito. Il battito del cuore accelerò. Il ritmo del respiro si spezzò. Prima ancora di aprire gli occhi, affiorò la consapevolezza di me stesso. Si affacciarono i primi interrogativi.
Sollevai le palpebre. A fatica. Pesavano più del piombo.
            La stanza era immersa nella penombra; mi colpì il candore del soffitto: contrastava con il grigiore delle pareti, deturpate da sbrecciature nell’intonaco. Passai all’arredamento. Un tavolo. Un vaso con dei fiori appassiti. Due poltroncine dal tessuto liso, stinto. Il letto... La ragnatela! Tornai a precipitare nell’incubo. Ancora più agghiacciante perché adesso ero pienamente cosciente. Ero inviluppato in un intrico di cavi, flebo, cannule, elettrodi. Ero un salame cibernetico.
            Subitaneo, incoercibile, insorse il desiderio di liberarmi, di strappare i ceppi che mi tenevano legato al letto. Ebbi la sensazione che la fronte mi s’imperlasse di goccioline di sudore, ne sentii persino il prurito, ma il corpo restò inerte, insensibile ai comandi del cervello.
Un suono raschiante, disumano, spezzò il silenzio. Per un attimo ne fui impressionato. Poi compresi che era un rantolo del respiro. Come un vorticoso torrente in piena che tracima gli argini, una ridda d’interrogativi mi si rovesciò nel cervello. Che cosa era accaduto? Perché mi trovavo paralizzato in un letto? Perché non ricordavo nulla?
            Il fruscio della porta mi fece trasalire. Percepii un tramestio lieve di passi. Un’ombra mi ferì gli occhi. Si fermò di spalle al letto. Una ragazza bionda, in jeans e camicetta celeste, depositò sul tavolino il mazzetto d’orchidee e la bottiglia d’acqua minerale che aveva con sé. Con gesti decisi sostituì i fiori secchi con quelli freschi e riempì il vaso con l’acqua della bottiglia. La riconobbi nell’attimo in cui si girava. Il nome di Annie rotolò dalla bocca, irriconoscibile come un singulto.
            La ragazza soffocò un grido. Si precipitò verso il letto, il volto acceso, stravolto dall’emozione. Scivolò sulle ginocchia. La vidi afferrarmi la mano, ma non sentii nulla. Era come se appartenesse ad un altro.
            «Francois, sei sveglio» mormorò con voce rotta. «Come ti senti? Dio, è meraviglioso!» non poté proseguire, impedita dalla commozione.
            «Che ti prende? Ti comporti come se fossi un morto risuscitato» disse una voce alla carta vetrata che non sembrò la mia.
            «E’ così, Francois, avevamo perduto le speranze. Sei stato in coma più di tre mesi.»
            La fissai sconcertato.
            «Tre mesi? Non è possibile.»
            Frugai nella memoria. Rovistai tra frammenti di ricordi, ma non trovai alcun indizio chiarificatore. Rammentavo Bali, i Casselet, Annie... ma, se tentavo di andare oltre, andavo a cozzare contro una muraglia d’oscurità.
            «Ho avuto un incidente?» balbettai.
            «Non ricordi? Sei andato fuori strada con l’auto. Un incidente pauroso. Se ci penso, mi vengono i brividi. Ho visto la Ford... era ridotta ad un ammasso di ferraglie.»
            Le piantai gli occhi in faccia.
            «Dimmi la verità...»
            Annie fece un debole tentativo d’interrompermi.
            «Aspetta, lasciami finire. Che probabilità ho di tornare normale?»
            Mi guardò seria.
            «Non lo so» confessò dopo una lieve esitazione. «Devi domandarlo a Kanamoto. So soltanto che il coma era causato da un ematoma nel cervello, ma Kanamoto l’ha asportato.»
            «Dove mi trovo adesso? Ancora a Bali?»
            Annie scosse i riccioli biondi.
            «Sei in un ospedale di Giakarta. Bali non era attrezzata per interventi specialistici di questa portata.»
            «Quali altri danni ho subito?»
            Annie sorrise.
            «Mi stai sottoponendo ad un interrogatorio in piena regola, Francois» mi rimproverò con dolcezza. «Ci sono domande, però, alle quali non sono in grado di rispondere. Sarà meglio che chiami il professor Kanamoto.»
            Corse fuori della stanza prima che avessi potuto tentare di trattenerla. Solo dopo averlo pensato, mi chiesi come avrei potuto tentare di fermarla giacché mi ero ridotto ad un pezzo di legno pensante disteso su un letto. Mi sforzai di dominare l’ondata d’autocommiserazione che minacciava di travolgermi, cercando di riannodare il filo dei ricordi.
            Qualche mese prima - mi sembrava strano pensare in termini di mesi quando la mente era incline a ragionare in tempi più brevi - Duverger, il direttore del giornale per il quale sgobbavo come inviato, redattore e fotografo, mi aveva convocato nel suo ufficio. Non aveva perso tempo in preamboli.
            «Conosci Casselet, vero?» aveva esordito senza alzare gli occhi da alcune schede che aveva tratto da una cartellina gialla.
            «Jean Pierre? Sì, ho seguito il suo corso propedeutico di psicanalisi al C.E.P. di Lione.»
            «A quanto mi si dice è un luminare del settore, mentre sua moglie Aline è un’esperta in psicologia. Sono tutti e due partiti oggi per Bali.»
            Duverger aveva finalmente trovato quanto cercava: tre schede. Le aveva allineate una accanto all’altra sul tavolo, come in un gioco delle tre carte.
            «Stamattina mi sono messo in contatto con Cauet a Londra. Mi ha riferito che il professor Jameson è partito per Bali» Duverger aveva sollevato lo sguardo per scrutarmi al di sopra degli occhiali a mezzaluna. «Conosci Michael Jameson, Cartou?»
            «Un antropologo, mi pare.»
            «Già e mezz’ora fa leggo su un dispaccio d’agenzia che anche il professor Hitoshi Kanamoto, il fisioneurologo giapponese, noto per i trapianti di cervello nelle scimmie, da ieri sera è a Bali. Ufficialmente per un periodo di vacanza.»
            Duverger aveva fatto una pausa nell’attesa di un commento che mi ero guardato bene dal formulare.
            «Allora mi chiedo: cosa vanno a fare a Bali uno psicanalista, una psicologa, un antropologo e uno psicochirurgo?»
            «Probabilmente una bella vacanza. Dimentichi che Bali è un’isola indonesiana rinomata come località turistica.»
            Duverger mi aveva fulminato con gli occhi.
            «Lo so anch’io, ma è una vacanza che mi puzza se scopro che tutti e quattro i luminari vanno ad abitare a Bali sotto il medesimo tetto, ospiti di un quinto luminare: Bagus Dutu Mendera.»
            Avevo a stento represso un fischio.
            Il capo aveva socchiuso gli occhi guardandomi sornione. Mi aveva dato l’impressione di un gattone che si leccava i baffi davanti ad un bocconcino particolarmente prelibato.
            «Ti dice niente questo nome, Francois?»
            «Altroché. Mendera è un biochimico dell’équipe di Khorana che, qualche anno fa al MIT di Boston, ha sintetizzato in laboratorio un gene piuttosto complicato.»
            Avevo anche rammentato che, circa due anni prima, Mendera si era dimesso dal MIT a causa delle polemiche che erano sorte intorno all’ingegneria genetica e alle possibilità sempre più prossime di manipolazione del patrimonio ereditario umano. Rientrato in patria, aveva concentrato i suoi studi sugli enzimi. Ciò mi aveva stupito: con gli enzimi i rischi di manipolazioni genetiche non erano annullati, anzi erano anticipati nel tempo.
            «Cartou, mi stai ascoltando?» La voce di Duverger mi aveva riscosso dalle considerazioni mentali. «Che cosa stai almanaccando?»
            «Ti sei sbagliato.»
            «Ho sbagliato cosa?»
            «Non sono cinque i luminari convenuti a Bali.»
            Duverger mi aveva fissato stupito.
            «Sono sei. C’è anche un’etologa, Annie Bressac.»
            «Etologa?»
            «Proprio così. Avrai letto sull’ultimo numero di Science et Vie l’articolo sulle sue osservazioni sugli oranghi del Borneo.»
            «Sì, ma che c’entra questa Bressac con...»
            Avevo sorriso dello sconcerto di Duverger.
            «C’entra, se metti nel calderone delle notizie che anche lei si trova a Bali ed è nipote di Casselet.»
            «Come lo hai saputo?»
            «Semplice, me lo ha detto Jean Pierre.»
            «Tu dunque sapevi...»
            «Sapevo soltanto che stava per partire per Bali dove avrebbe raggiunto la nipote. Mi ha chiesto di conservargli numeri arretrati della rivista.»
            «Ti ha rivelato lo scopo del viaggio?»
            «Una vacanza, ma ha aggiunto che avrebbe colto l’opportunità di andare a vedere da vicino taluni rituali magici balinesi che lo interessavano.»
            «Balle. Niente mi può convincere che sia soltanto per una coincidenza che sei scienziati, sei autorità nelle rispettive discipline, dimorino nel medesimo luogo senza architettare qualche imbroglio.»
            Errore. Gli scienziati non erano sei, ma sette. Qualche giorno dopo avrei saputo che l’équipe di Mendera sarebbe stata al completo con l’arrivo di Carrillo Salcedo, il biochimico spagnolo premio Nobel. Intanto mi stavo chiedendo per quale ragione Duverger mi avesse coinvolto in quella frivola conversazione sulle vacanze di sei scienziati.
            «Ci sono!» avevo esclamato di punto in bianco, fingendo una folgorazione «Vuoi che vada a Bali a scoprire cosa si nasconde dietro il misterioso convegno dei nostri amici ricercatori. Non hai torto a preoccuparti: potrebbe esserci sotto qualche folle esperimento. E’ vero che Jamison per parte di madre è imparentato con il barone Frankenstein?»
            Avevo creduto di fare dello spirito a buon mercato. Ero rimasto sconcertato nel rendermi conto che, al contrario, Duverger mi aveva preso alla lettera. Mi aveva spedito in segreteria di redazione a ritirare i biglietti per Bali.
            Di colpo provai una sete terribile. Il flusso dei ricordi s’interruppe. Presto l’arsura divenne un tormento. Fu il pensiero dominante. Con la coda dell’occhio notai sul comodino il bicchiere d’acqua. Feci un nuovo disperato tentativo di allungare il braccio, ma i muscoli non risposero. Paralizzato com’ero, mi era impossibile raggiungere il filo del campanello che penzolava inerte sulla spalliera del letto. Contemplai il bicchiere, tanto vicino eppure tanto distante. La bramosia diventò intollerabile. Ripresi a sudare. Volevo bere. Volevo placare l’arsura che m’inaridiva le labbra, la lingua, il palato, la gola.
            Il fenomeno iniziò con un impercettibile movimento del bicchiere, come se ruotasse adagio su se stesso. Il movimento si fece via via più distinto. Come mosso da una mano invisibile, il bicchiere levitò sul ripiano. Galleggiò in aria, senza peso. Quasi non mi resi conto della straordinarietà dell’evento. Ero riuscito ad agganciare il bicchiere con lo sguardo e lo pilotavo adagio verso di me. Solo questo contava.
            Il rumore della porta si mescolò a quello del bicchiere che s’infrangeva sul pavimento. Chiusi gli occhi. Quando li riaprii, vidi curvi sopra di me Hitoshi Kanamoto, Jean Pierre Casselet e Annie. L’espressione delle loro facce era indecifrabile.
            «Volevi bere, Francois?» domandò Casselet con voce atona.
            Esitai prima di rispondere. Stavo fissando la mano abbronzata di Annie posata sul lenzuolo. All’anulare brillava una fede.
            «Vuoi un bicchiere d’acqua, Francois?» ripeté la voce di Casselet.
            Sbattei le palpebre in cenno d’assenso. Lo psichiatra si rivolse alla nipote. «Pensaci tu, Annie.»
            La ragazza si affrettò a riguadagnare la porta.
            «Come va, giovanotto?» domandò Kanamoto in un inglese chiaro, senza inflessioni.
            «Come uno che è appena uscito dal coma, professore» risposi in un sussurro.
            «Annie mi ha detto che sei preoccupato per la paralisi» interloquì Casselet. «Non temere, è solo una paresi temporanea.»
            «Sicuro, giovanotto» ribadì a sua volta Kanamoto. «E’ soltanto un effetto postumo del trauma cranico. Adesso, comunque, le darò un’occhiata.»
            Mentivano. Mentivano spudoratamente. Udivo le loro parole incoraggianti, ma le loro menti proiettavano immagini opposte. Mi sentivo annichilito.
            La visita fu lunga e meticolosa. Al termine il neurologo si rialzò sul busto, soddisfatto.
            «E’ come pensavo» dichiarò rivolto a Casselet e ad Annie appena rientrata. «Sono certo che si tratta di una paresi reversibile. Ci vorrà tempo e molta pazienza...» s’interruppe per dare un’occhiata all’orologio. «Com’è tardi! Sono desolato di dovervi lasciare, amici miei, ma il mio aereo parte tra poco.»
            «Se permette, le do un passaggio con la mia auto» propose Annie.
            Dopo essersi congedato con cordialità da Casselet, abbandonò la stanza in compagnia della ragazza, senza degnare di uno sguardo il letto con il suo occupante. Quando la porta si fu chiusa alle spalle della coppia, sputai la domanda che avevo sulla punta della lingua.
            «Quando si è sposata tua nipote, Jean Pierre?»
            Casselet mi lanciò uno sguardo sconcertato. Esitò prima di rispondere.
            «Circa un paio di settimane fa... Non te l’ha detto?»
            «Con chi?»
            «Non so se lo hai conosciuto» replicò lo psicanalista con una punta d’imbarazzo. «E’ un antropologo inglese molto quotato...»
            «Lo conosco. Mike Jameson» pronunciai il nome con sforzo.
            «Non prendertela, Francois» riprese Casselet. «Te l’avrebbe detto lei stessa, se non avesse dovuto accompagnare Kanamoto all’aeroporto. Sta ripartendo per Tokyo. Ormai se ne sono andati via quasi tutti. Aline è già in Francia. Io ho voluto attendere che uscissi dal coma, soltanto che non credevo che ci mettessi tanto...»
            Casselet s’interruppe nel vedere che avevo chiuso gli occhi. Immaginò che mi fossi addormentato. Mi rimboccò le lenzuola fin sotto il mento. Uscì in silenzio dalla stanza, accompagnandosi adagio la porta dietro di sé.

            Ero a Bali da tre settimane, ma senza risultato. Incontravo spesso gli scienziati dell’équipe di Mendera e continuavo a collezionare buchi nell’acqua. “Siamo qui in vacanza” era il ritornello comune. Persino Jean Pierre che consideravo un amico, cominciava a mostrarsi seccato delle mie ingerenze.
            «Stai diventando insopportabile con le tue insinuazioni, Cartou. Una volta per tutte: non ci sono misteri sul nostro soggiorno qui. Sono un vecchio amico di Mendera, come degli altri. Ogni tanto è buona regola confrontare il proprio lavoro con quello dei colleghi. Bali è stata l’occasione per incontrarci. Tutto qui.»
            Avevo cercato di farmi invitare a Kintamani, la residenza di Mendera, per avere l’opportunità d’indagare sul posto, ma non c’era stato nulla da fare. Il luogo sembrava inespugnabile. Sarei entrato con maggiore facilità in una fortezza.
            In attesa di eventi propizi, mi ero dedicato alla scoperta di Bali. Fra i tanti aspetti suggestivi dell’isola, ciò che mi aveva subito affascinato erano state le danze. Non c’era tempio del circondario che non avessi visitato, come non c’era danza che non avessi ammirato. Per la verità quest’improvvisa passione per il balletto aveva ben altra motivazione che non quella di soddisfare la mia sensibilità artistica. Il fatto era che speravo d’imbattermi una volta o l’altra in Annie Bressac, la nipote etologa di Jean Pierre. L’avevo intravista appena in un paio d’occasioni, ma mi era giunta all’orecchio l’eco della sua passione per questo genere di spettacoli.
            Quel giorno mi ero spinto fino al Pura Dalem, il tempio di Batu-bulan perché i miei informatori avevano garantito che anche Annie sarebbe andata ad assistere alla danza del Barong. Avevo già avuto modo di vedere questo balletto e ne ero rimasto incantato. Era una danza particolare, più vicina al rituale magico che allo spettacolo popolare.
            Qualsiasi avvenimento doloroso, malattia, morte o semplicemente danno materiale, era considerato dai balinesi opera degli spiriti maligni. Quando capitava un evento negativo del genere, era indispensabile per la quiete del villaggio celebrare un pubblico esorcismo. L’arte drammatica rappresentava allora il mezzo più efficace per raggiungere lo scopo attraverso un preciso rituale di purificazione. Uno degli spettacoli che conteneva in sé maggior forza propiziatoria era la simbolica rappresentazione imperniata sull’eterna lotta tra il bene e il male, impersonati da due straordinarie creature appartenenti al pantheon mitologico di Bali: il Barong e la Rangda.
            Il Barong, una sorta di lungo drago dal muso di leone e dalla coda sferzante, rappresentava il polo positivo, il protettore del genere umano, la forza benefica associata all’idea di giustizia e alla magia bianca. La Rangda, la vedova strega, era il suo opposto, lo spirito del male per antonomasia. Era la regina delle streghe e dei leyak, larve immonde che frequentavano i cimiteri a notte fonda. La sua specialità era la magia nera.
Il nocciolo della danza era dato dall’eterno conflitto tra due forze cosmiche di segno contrario, simbolizzate dai due protagonisti. Poiché poi questo dramma godeva fama di essere un potentissimo veicolo medianico per il mondo degli spiriti ed era perciò carico di suggestioni magiche, il sacerdote del Pura nel quale si svolgeva la danza, prima che cominciasse l’azione scenica, celebrava un rito propiziatorio per ingraziarsi gli spiriti che avrebbero dovuto proteggere gli attori durante la rappresentazione.
            Di solito era il Barong ad entrare in scena per primo e anche questa volta fu così. Ero affascinato dalle movenze della creatura. Bastava vedersela volteggiare davanti per pochi istanti per dimenticarsi che era solo una maschera abilmente manovrata da due uomini. La precisa coordinazione dei movimenti unita alla leggerezza e perfezione mimica dei danzatori, stravolgeva l’immagine reale dello spettatore che restava estasiato dinanzi alle evoluzioni di un essere dalle sembianze mirabolanti, ma dalle movenze di un incredibile realismo, sia che facesse schioccare le mascelle al ritmo del gamelan, l’orchestrina balinese, o che caracollasse graziosamente, sferzando l’aria con la sua lunga coda ricurva.
            «Straordinario, vero?» commentò in francese una voce femminile alle mie spalle.
Trasalii. Giratomi di trequarti, mi trovai davanti il viso fresco e sorridente di Annie Bressac. Ero così preso dallo spettacolo da dimenticare lo scopo che mi ero prefisso venendo fino a Batu-bulan. Dovevo sorprendere Annie e Annie aveva sorpreso me.
            La ragazza accentuò la curva del suo sorriso.
            «Si direbbe che abbia visto un fantasma. Non immaginavo di suscitare simili reazioni.»
            «Si sbaglia» borbottai, sentendomi un perfetto idiota. «Sono solo stupito che il suo lavoro le conceda il tempo per questi spettacoli di folclore.»
            «Che lavoro? Non ricorda? Sono qui in vacanza, come gli altri» ribatté la ragazza con una venatura d’ironia.
            Fece una pausa per riportare lo sguardo sul palcoscenico. Ne approfittai per osservarla. Benché fosse la nipote di Casselet, non avevo mai avuto occasione di scambiare con lei quattro parole che non fossero convenevoli di saluto. Non l’avevo valutata nel suo giusto valore. Era un peccato perché, me ne accorgevo in quel momento, Annie era davvero attraente: bionda, abbronzata, occhi celesti, corpo ben fatto e non doveva avere più di una trentina d’anni.
            «Eccola, sta arrivando» bisbigliò Annie.
            Un silenzio irreale era calato sul Pura. Diressi lo sguardo verso il portale del tempio. Due mani adunche dagli artigli scheggiati che si agitavano tra i pilastri d’ingresso, preannunziarono al pubblico l’entrata della regina delle streghe.
            Balzelloni, la Rangda avanzò sulla scena. Capelli setolosi e arruffati, volto grifagno, denti a sciabola, lunghissima lingua pendula e fiammeggiante, simbolo dell’eterno fuoco interno che la consumava, collana di visceri umani che sobbalzava ad ogni passo sui seni vizzi e cascanti. Vomitando bestemmie, inframmezzate a cupi ululati, la grottesca creatura si pose alle calcagna del Barong, ancora ignaro della sua presenza. Quando se ne fosse accorto, la lotta si sarebbe accesa fulminea a colpi d’incantesimo per concludersi, come sempre, senza un vinto né un vincitore, a testimonianza di una concezione dell’esistenza in bilico perenne tra il bene e il male.
            «Straordinario» fu l’unico commento di Annie, allorché lo spettacolo terminò in un diluvio di applausi.
            «Sono d’accordo, anche se non riesco ad immaginare un balletto del genere in una cornice diversa da quella naturale.»
            «Ha ragione, non c’è nulla che si presti meglio di un tempio all’aperto» convenne Annie. «Non esiste teatro al mondo nel quale sia possibile ricreare un’atmosfera tanto tipica quanto quella di una notte ai tropici.»
            Annie mi aveva preso sottobraccio e l’avevo sentita rabbrividire.
            «Sente freddo?» domandai con sollecitudine.
            La ragazza scosse la testa bionda.
            «È questa magica atmosfera che mi mette i brividi» Annie si volse a guardarmi con un sorriso. «Non pensi che ne abbia paura, ne sono semplicemente affascinata.»
            Usciti dal Pura, passeggiammo a lungo sotto i bananians. Trovavo la sua conversazione brillante, ne apprezzavo il senso dell’umorismo. Più di una volta ero scoppiato a ridere alle sue battute di spirito. Non volli lasciarmi sfuggire l’opportunità che mi si presentava di approfondire la sua conoscenza. Di punto in bianco le proposi di cenare insieme al Gazebo. Con mio grande stupore accettò. Il più era fatto. Adesso avrei avuto soltanto il problema di condurre la conversazione sull’argomento che mi stava a cuore. La preoccupazione si rivelò fuori luogo perché non avevo fatto i conti con la variabile imprevista.
            Mezz’ora dopo, mentre le contemplavo il viso su cui giocavano i riflessi della candela, mi sentii di colpo emozionato come uno studente al primo appuntamento. Il ristorante stesso si prestava a simili sortilegi. Suddiviso in minuscoli gazebo distribuiti ad arte lungo la spiaggia, ogni tavolino era un’isola a sé, separato dagli altri da cespugli d’ibisco e illuminato non tanto dalla tremula fiamma della candela, quanto dall’immensa luna dei tropici che brillava nel firmamento stellato.
            L’incanto della notte tropicale, il sapore pieno e delicato insieme delle aragoste, il vino bianco ghiacciato, furono tutti elementi che, combinati fra loro, finirono per creare un’atmosfera d’intimità, presaga d’ulteriori impensabili sviluppi.
Ci sembrò perciò naturale dopo cena passeggiare mano nella mano lungo la battigia e ci venne altrettanto spontaneo baciarci sotto la luna. Fu un bacio lungo e tenero. Restammo per qualche minuto abbracciati senza parlare. Gli occhi celesti di Annie brillavano luminosi. Appoggiò la testa sulla mia spalla.
            «Cosa ho fatto per meritare un bacio così bello?» mormorò con un filo di voce.
            Tornai a sfiorarle le labbra con un bacio.
            «Intanto perché sei al mondo...» replicai continuando a baciarla «Poi perché sei qui con me... e infine perché sei bella.»
            Da quella sera in poi non passò giorno senza che ci vedessimo, fosse solo per una nuotata in piscina o per una partita a tennis, per una gita nelle isolette dei dintorni o per una visita ai vari templi dell’interno. Sull’argomento che m’interessava, Annie continuava ad essere elusiva. Sembrava tenesse soprattutto a dimostrarmi che usciva con me perché, libera da impegni di lavoro, poteva dedicarmi il tempo che voleva.
            Un giorno ci spingemmo fino a Sangeh, il Pura famoso per le scimmie in libertà. Se non fosse stato per le bancarelle di souvenir assiepate all’esterno, il tempio avrebbe mantenuto inalterato quel carattere magico che gli dipingevano le leggende di Bali. Narrava, infatti, una di esse che Ravana, il perfido usurpatore di Lanka, il demone che non poteva morire né in cielo né in terra, fosse stato ucciso da Hanuman e dalle sue scimmie guerriere nel solo modo possibile: schiacciato dal grande Meru. Una parte della montagna sacra e alcune schiere di scimmie, alleate di Rama, erano precipitate a Sangeh, restandovi fino ad oggi ad occupare la foresta.
            Bastava, tuttavia, superare il muro di cinta per trovarsi immersi in un’atmosfera senza tempo, nella cornice naturale della vegetazione e delle scimmiette che scorrazzavano libere, indifferenti al viavai dei turisti, salvo che questi non avessero tra le mani sacchetti di noccioline. Io stesso avevo avuto la brillante idea di acquistarne uno con il risultato di essere subito posto in stato d’assedio da un branco di scimmie bercianti, finché una di esse, più furba o più abile delle altre, approfittò di un mio attimo di distrazione per impossessarsi del tesoro che tenevo infilato della tasca della camicia. La comicità della situazione, congiunta all’espressione attonita della mia faccia, suscitò l’ilarità di Annie.
            «Come sei buffo, Francois» commentò lei, ridendo fino alle lacrime.
            C’inoltrammo abbracciati nel folto del sottobosco, ancora ridendo. Man mano che procedevamo nell’interno, ci sentimmo catturati dall’incanto del luogo. Ammirammo le agili costruzioni destinate al culto, ricoperte di vegetazione. Sorridemmo di fronte alle acrobatiche evoluzioni dei cercopitechi, incuranti della nostra presenza. Annie ne approfittò per tenermi una breve lezione di etologia. La cosa mi coinvolse a tal punto da non potere fare a meno di tempestarla di domande sull’argomento. Stava illustrandomi la scala gerarchica delle scimmie di Sangeh, quando venne interrotta da un suono penetrante di corno.
            Le scimmie furono percorse da un fremito d’eccitazione. Si precipitarono dai rami, da dietro i cespugli, dall’interno delle costruzioni, per raccogliersi strillanti sul piazzale antistante l’edificio principale del tempio. Annunciata dal corno, comparve la figura ricurva di una vecchia scheletrica che camminava a passi strascicati appoggiandosi ad un bastone. Le scimmie ammutolirono. Silenziose non perdevano di vista la vegliarda.
Fissammo meravigliati il volto della donna: era rugoso, incartapecorito, carico d’anni. Forse più di cento.
            Le scimmie si riscossero. Si lanciarono in una folle sarabanda intorno alla vecchia indigena, una dopo l’altra le saltarono sulla schiena o sulle spalle. Per ciascuna ella ebbe una parola o una carezza.
            Estasiati dallo spettacolo, restammo immobili, consci che qualcosa di straordinario stesse svolgendosi dinanzi ai nostri occhi. Al termine di ciò che mi era apparso come un rito, la vegliarda parve accorgersi della nostra presenza. Lentamente si raddrizzò sulla schiena rinsecchita e fissò uno sguardo intenso su di noi, immobili davanti a lei. Turbato dal fascino di quegli occhi vivi e penetranti che mettevano a nudo l’animo, mi sentii rabbrividire.
            «La strada è lunga. Ogni tanto conviene riposare per giungere sani alla meta.»
            Guardai Annie perplesso. Non capivo se la vecchia si fosse rivolta a noi o a se stessa. La donna proseguì:
            «Volete mangiare qualcosa?»
            Frugò nella sacca sdrucita che portava a tracolla e trasse una manciata di frutta secca. Tese il braccio per offrircela. Annie, disgustata, scosse la testa con una smorfia. Io, dopo un attimo di esitazione, presi ciò che mi veniva offerto. La bocca della vecchia si aprì in un sorriso sdentato.
            «Non mi ero sbagliata. Sei un cercatore.»
            «Cercatore di che cosa?» domandai sconcertato.
            «Cercatore di te stesso» replicò quieta la vegliarda, poi soggiunse: «Vieni, leggiamo sul libro del destino quale futuro ti riservano gli dei.»
            Si avviò adagio in direzione del santuario. Guardai di sottecchi Annie.
            «Seguiamola» suggerii.
            La ragazza scosse la testa.
            «Sono sciocchezze. È un modo come un altro per spillarti quattrini.»
            Scrollai le spalle spazientito.
            «Sia come sia, io ci vado. E’ una vecchietta troppo interessante perché possa rischiare di perdermela.»
            Penetrai nell’androne del tempio. Fui costretto ad arrestarmi qualche istante per abituare gli occhi alla semioscurità dell’interno. L’ambiente era tanto spoglio da apparire squallido. La vecchia era andata a sedersi a gambe incrociate nell’angolo più oscuro della sala, accanto ad un braciere nel quale bruciavano alcuni incensi. Con voce cantilenante m’invitò a prendere posto sul cuscino davanti a sé. Obbedii senza fiatare. Immersa nei fumi dell’incenso, la vecchia teneva le palpebre abbassate e le mani strette in grembo.
            Il tempo trascorse lento. La donna non dette segno di voler uscire dal suo stato di profonda meditazione.
            Mi mossi, irrequieto, nel tentativo di trovare una posizione più confortevole per le gambe. Mi apparve davanti agli occhi il ridicolo della situazione. Mi chiesi se Annie non avesse avuto ragione nel mettermi in guardia contro i ciarlatani. Ero perplesso. M’irritai perfino con me stesso, ma non trovai la forza di alzarmi e di andarmene. Pian piano anche questa sensazione d’oscura ribellione si sciolse nel gran mare agitato di altre e diverse sensazioni che si accavallavano le une sulle altre senza una precisa identità. Presto anch’esse svanirono. Tornai a valutare me stesso in relazione all’ambiente. Restai colpito dal silenzio del luogo. Tentai di captare il battito cardiaco, il ritmo del respiro. Finii con lo sprofondare in una sorta di trance.
Ebbi la bizzarra sensazione che, di punto in bianco, la realtà circostante regredisse fino a sfumare e, in contemporanea, emergesse dal profondo l’impressione viva e prorompente di essere immerso in un’altra dimensione, a prima vista ignota, ma tremendamente reale. Subentrò l’idea che ciò che avevo sempre ritenuto concreto non fosse altro che un’illusione, creata ad arte per distrarmi dalla visione della realtà autentica. Tutto ciò che era fuori di me - il mondo colorato, Annie, il giornale, la mia missione, i ricordi lieti o dolorosi del mio passato - era come se, d’improvviso, si fosse svuotato di significato, fosse un guscio vuoto, senza sostanza, da osservare con distacco, senza la partecipazione diretta dell’Io. Qual era la reale sostanza di me stesso? mi chiesi. Quale la mia essenza? Doveva esservi un significato profondo, unico, che trascendeva il mio essere senziente, schiavo dei bisogni primari di cibo, acqua, aria. Nel mare inesplorato dell’inconscio doveva esservi qualche terra emersa da cercare e da raggiungere per dare una ragione al mio esistere.
            Riaprii gli occhi. La vecchia aveva lasciato cadere qualcosa sul pavimento di pietra. Alcuni ossicini. La donna osservò la disposizione delle ossa con attenzione.
            «Scegliene uno e dammelo» disse poi in tono quasi di comando.
            Ne presi uno a caso. La vecchia ebbe un fuggevole sorriso.
            «Non mi ero sbagliata. Sei un cercatore, Francois» bisbigliò con voce carezzevole.
            Di nuovo cadde il silenzio. La vecchia tornò a concentrarsi. L’interrogativo mi rodeva come un tarlo. Come faceva a conoscere il mio nome?
            La voce fioca della veggente ruppe il silenzio.
            «Non è bene che l’uomo si sostituisca alla natura. C’è tempo e luogo per ogni cosa, ma alcuni esseri umani vogliono porsi sullo stesso piano di Dio.»
            Alcune parole mi erano giunte smozzicate e prive di senso. Era difficile seguire il filo del discorso. L’argomento, però, era chiaro.
            «Chi sono? Cosa vogliono fare?» domandai emozionato mio malgrado.
            «La tua compagna è una di loro. Fai attenzione, non è sincera con se stessa, quindi non può esserlo con te» proseguì la vecchia senza curarsi dell’interruzione.
            «Se stanno davvero facendo qualcosa contro natura, cosa posso fare io?» insistetti.
            «Nulla è contro natura, se esiste un disegno divino. Essi potrebbero essere gli ignari strumenti del Creatore. I risultati, però, saranno contrari alle loro aspettative.»
            «Chi sono costoro? Di quali risultati parli?»
            La vecchia non rispose. Ancora una volta parve ripiegarsi in se stessa per scrutare nelle pieghe profonde del subconscio.
            «La perla è nel loto, cercatore» riprese dopo una lunga pausa «E’ a tua disposizione nello scrigno del tesoro. Tre chiavi aprono lo scrigno. Tu possiedi una sola di esse. Conquisterai la seconda dopo aver attraversato il mondo dell’uomo con l’aiuto della saggezza, della forza e della giustizia. La terza chiave sarà tua grazie ad un essere puro. Infine conoscerai te stesso.»
            Mille domande mi si affollarono in mente.
            Con visibile sforzo la donna tornò ad aprire la bocca. La sua voce si era ridotta a poco più di un bisbiglio.
            «Alla base e oltre l’universo del tempo, dello spazio e del cambiamento si trova la verità di tutte le cose. Cercane le chiavi e quella verità sarà tua.»
            La vecchia ammutolì. Reclinò il capo sul petto e rimase immobile come una statua.
            Avrei voluto saperne di più. Avrei desiderato sentirmi spiegare il significato oscuro di talune frasi, ma le mie domande non ebbero risposta. Una mano si posò sulla mia spalla facendomi sobbalzare. Era quella di un balinese di mezza età che indossava un batik a grandi riquadri bianchi e neri.
«La Madre ha raggiunto il samadhi. Non può risponderti» bisbigliò in un inglese stentato «Devi andar via.»
            Mi lasciai trascinare docilmente fuori del tempio. Camminavo come un sonnambulo con la mente confusa. Le parole della veggente continuavano a vorticarmi nel cervello.
            All’aperto feci il gesto di cavare di tasca alcuni spiccioli, ma il balinese me lo impedì.
            «La Madre ha detto che non vuole niente. Le è bastato esserti stata utile.»
            Mormorai una parola di ringraziamento e mi avviai verso Annie che mi aspettava ai limiti della radura.
            «Finalmente, Francois, cominciavo a preoccuparmi» esclamò appena la raggiunsi.
            Visto che non rispondevo, mi afferrò per un braccio.
            «Cos’hai? Non ti senti bene?» domandò inquieta, scrutandomi in faccia.
            La fissai sorpreso.
            «Sto benissimo» replicai avviandomi verso l’uscita.
            «Che ti è accaduto, Francois?» gridò lei, quasi rincorrendomi «Non mi racconti nulla?»
            «Qualsiasi cosa ti raccontassi, non mi crederesti» ribattei. «E’ stata un’esperienza irripetibile.»
            Annie scoppiò in una risata divertita.
            «Non dirmi che proprio tu, razionalista come sei, presti fede a ciò che può averti raccontato quella vecchia.»
            Scrollai le spalle infastidito.
            «Non so se crederci o no, giacché per lo più ha fatto riferimento al futuro. Ci sono stati, però, anche alcuni accenni al presente. Per certi versi, le sue parole sono state illuminanti.»
            «Che ti ha detto?» volle sapere Annie incuriosita.
            Mi fermai per fissarla negli occhi. Scelsi le parole una ad una.
            «Secondo la veggente, c’è gente da queste parti che con i suoi esperimenti vuole mettersi sul piano del Creatore.»
            Il bel volto della ragazza s’imporporò per l’irritazione.
            «Non è vero. Questo te lo sei inventato.»
            Scossi la testa con un sorriso amaro.
            «Sono parole testuali.»
            Il battibecco si esaurì presto. Preferimmo rifugiarci entrambi in un silenzio offeso che durò l’intero tragitto di ritorno. Ci lasciammo a Kintamani con un bacio fugace sulla guancia.
            Non rividi Annie per parecchi giorni.


 
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