CONSIDERAZIONI MEDICO-LEGALI
SULL'ASSASSINIO DI PAOLO E FRANCESCA
di Aldo Alessiani
1. La personalità di chi esplica l'azione. - 2. La narrazione del Boccaccio. - 3. La tradizione popolare. - 4. Il mezzo ledente universalmente accettato. - 5.L'ipotesi più verosimile sull'evento e sulle sue cause.
Non l'occasionalità o l'accidentalità, nella disamina medico-legale, possono emergere dal contemplare le narrazioni tradizionali su Paolo e Francesca, ma la intenzionalità dell'evento, consumato da Gianciotto Malatesta.
Siamo di fronte ad una cronachistica più improntata ad una emotività romantica e popolare che trova, nel substrato amoroso ed addirittura erotico, una spinta alla commozione ed alla partecipazione istintiva tutta dettata dalla rappresentazione passionale.
Sempreché dell'ingenuità non sia stato fatto profitto in una rafffinata tendenziosità pretestuosa ed alibistica, per creare un falso-scopo nell'unico vantaggio dell'uccisore.
Si direbbe più trattasi di un affresco in tinte suscitate dal raccapriccio e dalla morbosità per sfociare in una scenografia in parte fosca, in parte ammirativa ed esaltativa tutta propria della edificazione immaginifica e poetica.
La difficoltà di questo nostro compito è stata nella mancanza di particolari apprezzabili sì da rendere difficile la ricostruzione tecnica in senso stretto, per imporla deduttivamente e soltanto in una retro-visione logica, soprattutto critica e con procedura ad esclusione.
La non certezza della località e della ambientazione fu per noi gravissima lacuna così come il tacere d'ogni altra circostanza indicativa ed allora abbiamo scelto cinque condizioni di base per analisi a posteriori:
1. la personalità di chi esplica l'azione
2. la narrazione del Boccaccio
3. la tradizione popolare
4. il mezzo ledente universalmente accettato
5. l'ipotesi più verosimile sull'evento e sulle sue cause
1. - La personalità di chi esplica l'azione.
Il ledente ci viene indicato quasi in una costanza di tratteggiamenti sui quali s'impianta una non variabilità: la claudicazione. Si rinviene il personaggio per - sozzo - brutto - sciancato - ancora "sciancato" in particolare e ripetuto con risalto; - ziotto - Janschiancatus - Giotto - Gianciotto - Lanciotto - mirabiliter claudus - zoppo - Giovanni sciancato - ob debilitati cruris vitium - (rispettivamente in Tonini pp. 8-19-29-48-69-71-74 e in appendice alle osservazioni critiche 1854 in p. 14).
Da quanto in rassegna il termine - zoppo - risulta mediamente in minoranza per dare supremazia a - sciancato - dunque - ciotto.
Il termine - ciotto - proviene dall'antico tedesco "schutt" che letteralmente vuol dire - rovina - ed in questo già ingenera il quadro finalizzato nella specie di grande deformità quasi repellente; la sgradevolezza scende nella acquisizione italiana fino a - ciottolo - per tratteggiare un concetto primitivo di rotolamento ovvero di procedere per anomalia tutta innaturale.
Si giunge così a pitturazioni di tardo latinismo quali: - mirabiliter claudus - dizione questa che è partecipata da un avverbio inconsueto che s'invera in - grandemente - caratteristicamente - spiccatamente - zoppo. Ed ancora "quam perito sed deformi", ovvero, tanto abile (in rebus bellicarum non minus stusioso) quanto deforme.
Quasi a diagnosi specificante si aggiunge: "ob debilitati cruris vitium" quasi nella localizzazione descrittiva di congenitismo (vitium) per patologia delle anche (cruris), ed in sede più estensiva, di quelle e degli arti inferiori.
L'aggettivo "sciancato" inteso come sematica dispregiativa, parte infatti da - anca - ed indica una configurazione assai netta nella espressività comune, più che con l'altra di "zoppo" per cui la comunione delle due caratterizzazioni, nel volgo, è assai difficilmente rintracciabile per una separazione che nasce nella rappresentazione dei due diversi modi di deambulare.
Questo anche perché, nello sciancato, si contemplano due alterazioni di solito costanti (e diverse nella loro entità) ed individuabili nella non ritenzione delle teste femorali in una naturale contenzione: le cavità articolari del bacino.
Da qui la diversità tra zoppìa (più dell'arto inferiore nei suoi distretti) e l'ancheggiare faticoso (e purtroppo risibile) per difetto più alto, anatomicamente espresso.
Lo sciancato lascia il posto a - ciotto - in una eccezione: "et fu detto Gianni ciotto per una scesa che ebbe in un ginocchio et rimase ciotto" (ibidem p. 71).
Sembrerebbe addirittura una eziologia che per "scesa" vorrebbe significare flussione, dunque enfiangione (probabile sinovite a carattere esitato di anchilosi del ginocchio) con tutti i crismi della malattia acquisita.
Ora se ci limitiamo solo a questo, saremmo di fronte ad una menomazione modesta che manca di quella rilevanza giustificante l'ingrato soprannome ed appena inificiante la dinamica del procedere; sarebbe più congetturabile l'impaccio o l'esitazione al camminare ma mai una deformazione di grossa entità.
Pertanto, dati i precedenti, l'anchilosi d'un ginocchio non viene di certo a determinare gli estremi di una claudicazione in senso stretto.La personalità del ledente: non sembra improntata ad un complesso d'inferiorità sentita come spirito rivendicativo subdolo ed impietoso, atto all'agire sottile ed ipocritamente improntato.
Gianciotto appare come "uomo atto alle armi" come "buono alle cose di governo" - "animoso et risoluto" - "viro maximi animi"; una concordia di plausi dunque che rivela una personalità certamente sofferta e sofferente ma in completa estrinsecazione tutta estroversa e quindi aliena da una autocontemplazione commiserata, propria di chi non sa difendersi e deve attendere, per difesa, per vendetta, l'auto-raffinarsi nel paziente ed elaborato vile artifizio.
Gianciotto è uomo d'azione con tutte le cariche primordiali dell'aggressione forse fino alla crudeltà, ma più per un suo primitivismo conservato che per una reattività subordinata.
Rabbia, perciò la sua, motivata principalmente dal tradimento, dalla rottura d'un patto inscindibile effettuatasi nell'aggravante della clandestinità e della continuatività.
Un'offesa, più filiazione dell'inganno, che di quella opinabile repulsione che se stesso ingenerava e nei cui riguardi, forse, per antica abitudine, aveva riversato spiegazione fino alla attenuante generica per chi lo dileggiasse.
D'altra parte, lo stesso Boccaccio intuisce questo profilo, e ci dice come "per lo quale accidente (cioè aver colpito Francesca) turbato Gianciotto, siccome colui che più che se medesimo amava la donna..." avesse in animo, esclusivamente, la colpabilità del fratello, salvaguardando l'integrità della consorte che, dopotutto, appare responsabile quanto quello.
Possiamo, caso mai, intravedere una carica astiosa verso il fratello Paolo che si matura nella comune infanzia ed adolescenza per quelle viscerali differenze affettive, frequenti nei rapporti famigliari, laddove il figlio migliore, nell'aspetto soprattutto, riceve una predilezione, frutto di una depositarietà di garantibile selezionata discendenza.2. - La narrazione del Boccaccio.
Il fattore sorpresa, innanzitutto, qui viene a mancare, Gianciotto non si appressa alla coppia di soppiatto. La porta della stanza del convegno d'amore è sbarrata dal di dentro.
Prima chiama la donna perché gli aprisse, poi "diè di petto all'uscio".
E' dopo un certo tempo (che in effetti è la finalità della salvazione di paolo per fuga) che Francesca apre. L'attesa aveva determinato nel marito ancor più il dubbio d'una situazione irregolare.
Quando Gianciotto infine può entrare, si trova dinanzi alla colpibilità del fratello in quanto incastratosi per la falda del "coretto" nell'asperità del riquadro della botola immettente nel vano sottostante.
Essendo il coretto un indumento toracico, dobbiamo immaginare che Paolo venga a trovarsi per i due terzi sotto il pavimento e per un terzo (costituito dalla testa, spalle, collo e parte d'un arto superiore) sopra.
Si concretizzano così una perpendicolare e la sua ipotenusa con angolo di 45° gradi circa aperto al basso e comprese tra la fronte di Gianciotto che s'espressa minacciosamente e quella del fratello se gli era rivolto.
Da questo momento Boccaccio diventa inaccettabile: Gianciotto ha uno stocco in mano e "tutto si gravava sopra il colpo". L'atteggiamento del ledente viene perciò ad essere quello di colui che mena un fendente dall'alto verso il basso. D'altronde non si può pensare altrimenti essendo il bersaglio molto ridotto ed assai inadatto per un colpo di punta. La punta della spada difficilmente avrebbe potuto trapassare il cranio di Paolo, ed il collo e le spalle offrivano in complesso delle superfici ridottissime e non adeguate per sfogare una impetuosità omicidiaria.
Ora, se Francesca "acciocché quello non avvenisse" si intromise tra i due in un baleno ("corse oltre presta") proprio nell'attimo del fendente infrenabile, poteva essere colpita tra la spalla ed il collo (da quale lato non si sa) o sul capo se notevolmente più bassa di Gianciotto.
Cade così il racconto che la vuole trafitta nel petto, e talmente trafitta nel petto che Gianciotto deve ritrarre da lei lo stocco per riversare l'azione finale (che allo star delle cose sarebbe stata l'unica desiderata) su Paolo sempre in condizione di costretto svantaggio.
Ma il trapassare un petto con una spada, implica una dinamica ben diversa dal fendente e soprattutto una intenzionalità ben precisa: quella della proiezione dell'arma in avanti e grosso modo in linea retta. Non era quella, allora, la direzione da attendersi né il brandimento poteva mirare verso il basso: Francesca sarebbe stata colpita, in via involontaria, verso il basso ventre o gli arti inferiori.
La tesi del Boccaccio cade dunque nell'irrazionale.
Altra ipotesi: se Gianciotto cala il fendente, nell'accorgersi d'aver colpito la donna tanto amata, per giunta non morta (se non per eccezionale fratturazione del capo), avrebbe comunque avuto un attimo di esitazione almeno nell'immediato passaggio tra l'omicidio involontario di Francesca ed il volontario di Paolo se non un ripensamento addirittura, dettato da un evento tragico, fortuito, inatteso.
Illogica dunque quella immediatezza di momenti stretti tra una accidentalità ed una volontarietà, quasi per un automatismo completamente indifferente al richiamo del raccapriccio, doloroso, dettato dalla moglie morente o morta.
Escludendo l'azione dell'arma per punta, la impostazione logica del fendente ingenera:
In Francesca: colpo squarciante tra la spalla e la base del collo con rottura della clavicola e delle costole più alte monolateralmente, e recisione probabile dei grossi vasi del collo; in ogni caso non morte immediata. Molto più inverosimile il colpo sul capo per consistente naturale resistenza della teca cranica.
In Paolo: necessaria sequela di fendenti sul capo con massima energia essendo quello nel punto più basso del campo d'azione e dunque più recettivo per l'energia dell'arma nel suo discendere a mò d'accetta.
In più: verosimili lesioni agli arti superiori o su un arto superiore, se uno o due potevano sporgere anche solo in parte dalla botola, nella istintività spasmodica del proteggersi.
Doveroso quindi un richiamo all'avvenuto ritrovamento, alla fine del secolo scorso (1895) del teschio di Giuliano de' Medici (Congiura de' Pazzi - 1478) recante grossolane incisioni longitudinali e parallele determinate da "accettamento" ma non sufficienti ad incidere completamente la volta; il decesso fu causato da sfondamento del parietale destro da pesante oggetto contundente aut similia.
Resta comunque difficile l'immagine della uccisione per fendenti sul capo o spalle o braccia anche con una daga; con spada o stocco ancor meno in quanto i strumenti di massa inferiore.
La modalità della fine di paolo esige, date le circostanze, la presenza o l'uso di mezzo più contusivo e pesante con altre successioni d'impatto e d'energia ai fini della determinazione di una sommossione intracerebrale o emorragia intrecerebrale o massiva sub-aracnoidea, successioni degradanti lo stocco o la spada a semplici agenti martellanti con perdita della loro intrinseca proprietà di taglienti.
l'istintiva e muta consapevolezza, nello sciancato, della sua instabilità, ben difficilmente porta questi ad una proiezione rettilinea d'arma bianca, per quella componente squilibrante maggiormente infirmante il suo atteggiamento già precario.
Resta allora più valida l'ipotesi di intervento di terzi ai fini ausilari ed atto alla immobilizzazione del bersaglio, Francesca, per nulla interessata a salvare Paolo ma in realtà se stessa.
In conclusione: comunque si rappresenti la vicenda narrata dal Boccaccio, il procedimento porta sempre ad una soluzione: la intenzionalità di uccidere da parte di Gianciotto, sia l'uomo che la donna.3. - La tradizione popolare.
Poggia, anch'essa, sulla intenzionalità omicidiaria e con versioni superiori a quella accidentale per Francesca, per il rapporto di otto a tre.
Abbiamo:
a) "eius exorem gladio confondisse inventam in adulterio cum Pauolo Bello..."
b) "uccisa da suo marito in un sol colpo con Paolo detto il Bello"
c) "furono trafitti da Giovanni il quale li sorprese..."
d) "... ambidue con un colpo di pugnale miseramente uccisi"
e) "... con una spada gli conficoe insieme per modo tale che abbracciati ad uno morirono"
f) "... eodem gladio ictuque confondit"
g) "... con un sol colpo di spada ambedue uccise..."
(opere citate pp. 72-74-75-79-68 e II-14-21)
Qui la scenografia prescinde dall'ambientazione per scivolare nell'erotismo particolareggiato: "... sorpresi nella più interessante e deliziosa operazione che la natura ispira ai mortali" - "trovati da lui in atto disonesto" - " ... et breviter ambos unum super alium amplexatos interfecit...".
La realtà diventa così travisamento obbligato da parte della immaginazione popolare che si esalta nella rappresentazione obbligata, qui quella dell'amplesso, addirittura "condizione" dell'evento.
Il tutto in successione tale da instaurare un trinomio: amanti - amplesso - morte.
L'ultimo elemento, la morte, è un susseguente e non può prescindere dai due antecedenti i quali, isolati, possono solo ingenerare pettegolezzo ed ilare curiosità. La morte dunque "riscatta" gli amanti e non può essere sopravvenuta se non nel culmine dell'amplesso per l'immaginazione popolare.
In tale paradossale coincidenza, il brando si abbatte sugli amanti e li trafigge: con un colpo solo. La vendetta del marito tradito lascia il posto ad una consacrazione che è assolutamente aliena da un riscatto per sfociare in una ritualità, una cerimonialità pagana che rende non cessato l'atto sessuale. La morte, anzi, lo rende eterno preservandolo dalla sua fisiologia breve. E' il trionfo del bello che il fato rende imperituro ed inalienabile con il sacrificio della vittima (qui delle vittime) sanguinosamente palpitante.
Va con sé che immedesimati, i due corpi si lasciassero così pure nell'inumazione; il che avvenne l'indomani.
Tutto questo è accettabile ai nostri fini tecnici - ricostruttivi, ancor meno della cronaca del Boccaccio; siamo già nella fiaba popolare che Dante fa sua; una fiaba che se tale, non poteva essere diversa. La rappresentazione assurge a simbolismo e non può non pervadere ed infiammare i cuori e le immaginazioni.
L'eternità scende sull'amplesso, se ne appropria, lo preserva; è il trionfo dell'illecito, del proibito, il fascino del rischio e del drammatico. E' l'ancestralità che si libera dai sopravvenuti obblighi sociali che la strangolano, coprendone quelle nudità fatte per essere impudiche e caste nella loro ingenuità.
Due amanti, talmente divorati dalla passione, da non avvertire i passi d'uno sciancato o, avendo visto l'approssimarsi di questi, scelgono addirittura la sua spada quasi in una comune volontà suicidaria liberatoria.
Gianciotto, con quel colpo solo, diventa quasi il sacerdote di una sacrificalità esultante: un intermediario necessario. Non un estraneo ma l'esecutore di diritto; una personalità che la tradizione non rivaluta in quanto pregno dei caratteri della repellenza nella polarità tra la bella e la bestia.4. - Il mezzo ledente universalmente accettato.
Se le due versioni tradizionali corrispondono al vero, obbligatoriamente l'arma fu una sola; ma esse discordano. Quale la vera?
La seconda, quella popolare-poetica è di fantasia; l'altra, quella del Boccaccio, probabilmente opportunistica ai fini di preservare il Gianciotto almeno dall'aggravante dell'omicidio premeditato sulla consorte.
Sicuramente si trattò di fatto compiuto da più individui (forse tre o quattro in azione), con pluralità di armi, molto decisi, consapevoli d'essere degli esilitati. Un episodio assai ben concertato con una tattica "commando". E fu il massacro.
5. - L'ipotesi più verosimile sull'evento e sulle cause.
Il feulleton Paolo- Francesca piacque e fu roba di trovatori prima e di poeti poi; ogni narrazione diventa sublimazione di intime segretezze, o di desideri impossibili non svelabili perché, in fondo, irrinunciabile patrimonio specie per le donne d'ogni tempo.
Parlammo all'inizio di pretestuosità alibistica; Gianciotto era al bando e probabilmente la soppressione del fratello Paolo, per sopravvenute gravi ragioni, o di maturate successioni, o diritti, non era dilazionabile. La cinica uccisione di Francesca, la moglie infedele, e di cui forse già da un pezzo era per lui, Gianciotto, senza significazione, offriva il vantaggio di una partecipazione personale al delitto ben più grave se per sicari.
Qui il mandante, seppure indiziario, avrebbe aggravato la posizione di esiliato per un reato non più suscettibile di larghezze concessive d'alto livello sensibili alla riveribilità del lignaggio.
La presenza fisica di Gianciotto configura così il delitto passionale nelle sue attenuanti, delitto in cui la donna non poteva non essere presente; questa, a sua volta, testimone pericoloso, scompare per una dichiarata accidentalità pura e dannata; Paolo, vero fine dell'atto, giustifica il portare a termine una tresca provocatrice ed offensiva. La sua soppressione si copre con l'estinzione del tradimento coniugale.
La botola è una raffinatezza: per garantire i complici da accuse e responsabilità, si doveva trovare una circostanza che cristallizzasse in una impossibilità dinamica l'uomo, quello più disposto alla reazione difensiva. da solo, uno sciancato, per quanto forte ed abile nelle armi, ben difficilamente avrebbe potuto convincere non tanto d'aver ucciso, quanto di aver fronteggiato due giovani da uccidere e dunque atti allo spostarsi, al tentar di fuggire, al render comunque difficoltoso l'evento.
La Storia in verità, tacque, ed i versi, tra i più belli della letteratura mondiale, nacquero al vero.
Testo tratto da "Studi Malatestiani", Roma, Cicinelli & C. Editore, 1985, p. 211-20.