Per gentile concessione
del quotidiano
"L'Arena"
di Verona°°°
Da Como a Dongo
verità sull'arresto di Mussolini
Intervista con
FRITZ BIRZER
IL COMANDANTE DELLA SCORTA TEDESCA
di
Jean Pierre Jouvet
INCONTRO
CON
I PROTAGONISTI
(1981)
°°°
Intervista pubblicata in due puntate sul giornale
" L'ARENA " di Verona
domenica 1° marzo
e martedì 3 marzo 1981
°°°
nella foto: Fritz Birzer e J. P. Jouvet, a destra
Prima parte
Il rinnovato e imprevisto interesse dell'opinione pubblica per i tragici e in parte misteriosi episodi che segnarono la fine della seconda guerra mondiale in Italia, negli ultimi giorni dell'aprile 1945, è stato suscitato, come tutti sanno, dalla sorprendente notizia, divulgata da centinaia di quotidiani e periodici e di emittenti radiofoniche e televisive, della scoperta, da parte dei sommozzatori «Angeli neri» di Trento, di quattro casse pesantissime, attribuite alla RSI, a 52 metri di profondità nel Lago di Garda.
Si sono così riaccese le polemiche sulla cattura di Mussolini a Dongo, sulle esecuzioni dello stesso Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi catturati dai partigiani della 52° Brigata Garibaldi, sulla sparizione del «tesoro» della Repubblica Sociale Italiana e dei carteggi segreti del «Duce», e su tanti altri fatti oscuri o controversi.
Ed è ritornato alla ribalta, ancora una volta e in primo piano, il nome di Fritz Birzer, l'ufficiale che comandò la scorta di SS e SD che dal 18 al 27 aprile 1945 seguì passo per passo, giorno e notte, da Gargnano a Dongo, o da Milano a Dongo, Mussolini e i suoi fedelissimi dell'ultima ora.
In quasi trentasei anni, dal 1945 a oggi, a Birzer sono stati dedicati innumerevoli servizi giornalistici e interi capitoli di decine di volumi pubblicati in mezzo mondo: ma quasi tutti ricavati da testimonianze incerte, da dichiarazioni «riportate», da semplici voci o addirittura da fantasiose invenzioni.
Nel giugno 1945, un mese dopo la fine della guerra in Europa, Birzer fu fatto prigioniero dagli americani e trascorse tre anni in undici campi di concentramento. Durante questo periodo fu interrogato lungamente, a più riprese, prima da ufficiali delle forze armate statunitensi e dell'OSS poi da agenti della CIA. I verbali di questi interrogatori sono tuttora segreti.
Finita la prigionia Birzer, da bravo soldato, scrisse un lucido e dettagliato rapporto sulla sua missione di «guardiano» di Mussolini e lo fece pervenire all'ex generale delle SS Karl Wolff, che era stato il comandante supremo delle SS e della polizia militare e politica tedesca in Italia durante la Repubblica di Salò. Di tale rapporto furono pubblicati stralci imprecisi, anche a causa della loro limitatezza, o tendenziosi. Uscirono inoltre alcune interviste rilasciate da Birzer a studiosi tedeschi, italiani, americani e inglesi di storia dei fascismo, della RSI, del Terzo Reich e della seconda guerra mondiale. Erano però, anche queste, testimonianze «parziali». La più completa resta, a mio parere, quella pubblicata nel 1964 dal giornalista e scrittore veronese Silvio Bertoldi sul settimanale «Oggi» e successivamente nel suo volume «I tedeschi in Italia», edito da Rizzoli.
Birzer, ripetiamo, parte da Gargnano poco prima delle ore 19 del 18 aprile 1945, a capo della scorta di SS incaricata di seguire MussoIini ovunque si fosse recato (si diceva che avesse intenzione di visitare truppe italiane in procinto di essere inviate al fronte), di proteggerlo in caso di necessità ma anche di impedirgli, qualora si proponesse di farlo, di fuggire in un paese neutrale: Svizzera, Spagna, Portogallo o Svezia.
La prima tappa della colonna di Mussolini fu alla prefettura di Milano, dove il «Duce» rimase fino al pomeriggio del 25 aprile, subito dopo il suo incontro con i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale, avvenuto nello studio del cardinale Ildefonso Schuster.
Nella sera del 25 Mussolini e il suo seguito raggiunsero Corno, sistemandosi nella sede di quella prefettura. Alle 4.40 del 26 aprile la colonna ripartì per Menaggio e da qui Mussolini, Elena Curti (sua figlia naturale), Claretta Petacci, alcuni gerarchi, collaboratori e amici salirono a Grandola, sulla strada per Porlezza e il cortfine svizzero, sostando all'albergo «Miravalle». Da Grandola partirono in ricognizione verso la frontiera l'ex ministro degli Interni Buffarini-Guidi e il ministro dell'Economia Angelo Tarchi, i quali, benché in possesso di passaporti e documenti d'identità falsi, furono fermati e trattenuti in istato d'arresto per accertamenti da un gruppo, di partigiani e di guardie di finanza dei posto di controllo di San Pietro Sovera.
Fallito il tentativo di espatrio dei due gerarchi, Mussolini fece ritorno a Menaggio, da dove riparti all'alba del 27 al seguito di una colonna tedesca in ritirata, comandata dal tenente della Luftwaffe Hans Fallmeyer. Poco dopo 1'abitato di Musso, a pochi chilometri da Dongo, la colonna (trecento persone in tutto, tra tedeschi e italiani, compresi i civili) si arrestò in prossimità di un posto di blocco partigiano. Ci fu una breve sparatoria, alla quale seguirono lunghe trattative fra Fallmeyer e il comandante della 52.a Brigata Garibaldi «Luigi Clerici», il conte fiorentino Pier Luigi Bellini delle Stelle («Pedro»).
Durante la sosta, protrattasi per quasi nove ore, Mussolini, dopo aver indossato un pastrano e un elmetto della Flak germanica, trasbordò dall'autoblinda di Pavolini su un camion tedesco. Alle 15.10 la colonna di Fallmeyer si rimise in moto, mentre gli italiani, militi e civili, rimanevano sul posto e in breve venivano tutti catturati dai partigiani.
Alle 15.45, sulla piazza di Dongo, durante un controllo dei camion tedeschi, Mussolini fu riconosciuto, nonostante il suo travestimento, e arrestato dagli uomini di «Pedro».
Fino a quel momento Fritz Birzer rimase accanto, al «Duce», controllando ogni sua mossa e conferendo con lui frequentement'e.
Birzer comandava una trentina (di SS e SD, e dalla partenza da Menaggio anche di dieci uomini della Feldgendarmerie che si erano aggregati alla colonna. I militi del SD dipendevano ufficialmente dal capitano Otto Kisnat, ma in realtà prendevano ordini da Birzer. Kisnat era partito assieme al convoglio di Mussolini da Gargnano il 18 aprile ed era rimasto e Milano fino al 24 aprile, poi, improvvisamente, aveva fatto ritorno sul Garda, per motivi mai appurati, ed era riapparso sulla scena nel pomeriggio del 26, al «Miravalle» di Grandola.
La cronaca dettagliata degli avvenimenti verificatisi tra la sera del 18 aprile 1945 e il momento della cattura di Mussolini a Dongo, è stata pubblicata su «L'Arena» recentemente, nelle prime quattro puntate di un'ampia inchiesta illustrata riguardante gli ultimi dieci giorni del «Duce» e la sparizione dei suoi carteggi segreti e di gran parte del cosiddetto «tesoro della RSI».
Da oltre trentacínque anni numerosi storici e giornalisti, soprattutto di destra, contestano alcune «scottanti» dichiarazioni di Fritz Birzer. In particolare tre:
1) - La Presunta intenzione di Mussolini di fuggire in Svizzera (mentre aveva ripetutamente dichiarato che si sarebbe battuto fino alle ultime forze nel «Ridotto» della Valtellina);
2) - Il presunto incontro di Mussolini con la, moglie Rachele e lá figlia Annamaria alla prefettura di Como nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1945 (Rachele negò sempre di aver rivisto il marito dopo la sua partenza da Gargnano);
3) - Il travestimento di Mussolini con il Pastrano e l'elmetto della Flak, la contraerea tedesca.
A Birzer si rimprovera inoltre di non aver difeso con le armi Mussolini quando fu riconosciuto e arrestato dai partigiani.
Birzer non ha mai risposto pubblicamente alle critiche e alle accuse mossegli, «per non alimentare una polemica astiosa e inutile», e ha rifiutato molte e allettanti proposte di interviste televisive e giornalistiche, di confronti, di conferenze ecc.
Dopo la pubblicazione dell'inchiesta de «L'Arena», tramite amici tedeschi sono riuscito a rintracciare Birzer e a mettermi in contatto con lui, chiedendogli un colloquio, allo scopo di verificare la veridicità di quanto avevamo scritto su «L'Arena». Birzer ha accondisceso gentilmente e ho avuto con lui, il 19 febbraio, un lungo e cordialissimo incontro nella sua casa di Monaco.
L'ex ufficiale delle SS che comandò la scorta di Mussolini in fuga verso la morte è nato il 23 giugno 1904, è sposato e ha tre figli: Mathilde di 54 anni, Fritz di 44 e Hans di 40. Abita in un caseggiato al n. 14 della Keuslinstrasse, in un appartamento arredato con il gusto tipico della media borghesia bavarese: semplicità, intimità, comodità essenziali, ordine. Niente di vistoso di lezioso, di esibizionistico.
Al mio colloquio con Birzer erano presenti suo fratello Felix, gioviale e simpaticissimo, un avvocato tedesco che «sovrintendeva» alla conversazione, un signore sconosciuto dall'aspetto di funzionario che è rimasto sempre in silenzio e con il quale Birzer e l'avvocato a un certo punto sono usciti dalla stanza, probabilmente per consultarsi in privato.
Con me erano un amico di Verona e la dottoressa Martina Walther-Mohr di Monaco, medico e redattrice per la Germania della rivista scientificoculturale «NOI Intemational», diretta dal dott. Dietfried Schonemann, un insigne studioso di Klagenfurt.
La moglie di Birzer, Maria, elegante e gentile, ci ha offerto tè e pasticcini bavaresi, ha assistito per qualche minuto al colloquio e ha acconsentito alla mia, richiesta di lasciarsi fotografare, mentre I' avvocato ha rifiutato fermamente, però con garbo e signorilità.
Tutte le risposte di Birzer alle mie domande, come pure le sue minuziose descrizioni di scene e fatti, sono state trascritte da Martina Walther-Mohr alla lettera, in lingua tedesca. Esse formerebbero il «corpo» di un lungo servizio, ricco di particolari di grande interesse, non pochi dei quali sconcertanti e inediti; ma ho assunto con Birzer l'impegno di pubblicare soltanto le sue dichiarazioni in merito a ciò che non è stato chiarito o che è stato male interpretato o confutato nelle tante inchieste uscite in Italia dal 1945 ad oggi, ultima in ordine di tempo quella pubblicata da «L'Arena», anch'essa non scevra di imprecisioni, seppure marginali.
Nel 1945 Birzer aveva 41 anni. Dopo aver combattuto sul fronte orientale ed aver trascorso un breve periodo nella sua città, Monaco, fu trasferito a Desenzano del Garda, dove giunse il 26 gennaio 1945, assegnato al reparto contraereo 3-II SS Flak Einheit, della Panzer Grenadier Division Waffen SS «Reichsfuhrer».
La «Reichsfuhrer», unità di fanteria corazzata, fu formata alla fine del 1943 prevalentemente con elementi della polizia e della guardia personale di Himmler. Impiegata dapprima sul fronte italiano, all'inizio del 1945 fu trasferita in Ungheria e combatté sul lago Balaton, ma alcuni suoi reparti, compreso quello di Birzer, rimasero in Italia. Aveva come insegna il distintivo del grado di Reichsfuhrer SS, cioè quello di HimmIer, unico nel Terzo Reich. Creatore del. la Divisione era stato il Gruppenfuhrer Max Simon, poi comandante del XVI Corpo d'Armata SS. Alla fine della guerra Simon fu arrestato e processato a Padova per la strage di Marzabotto. Rimase in carcere fino al 1954.
Per la cronaca ricordiamo che oltre alla «Reichsfuhrer» soltanto un'altra divisione SS tedesca fu impiegata in Italia: la «Leibstandarte Adolf Hitler».
Ed ecco la prima precisazione di Fritz Birzer:
«Io appartenevo alle Waffen SS e non al Sicherheitsdienst. E' falso quindi, come è stato scritto più volte, che l'Hauptsturmfuhrer Otto Kisnat, del SD, fosse il mio comandante e che da lui ricevessi ordini. Le mie decisioni, al seguito di Mussolini, sono state autonome e le presi sotto la mia personale e completa responsabilità. Quando durante la sosta alla prefettura di Como, riuscii a mettermi in contatto telefonico con un aiutante dell'ambasciatore Rahn che si trovava al consolato tedesco di Milano e gli chiesi istruzioni, temendo un tentativo di fuga di Mussolini in Svizzera, la risposta che ricevetti fu: "Qui non c'è più nessuno, non so cosa dirle. Agisca come meglio crede e se Karl Heinz tenta di fuggire, lo uccida". Karl Heinz era il nome in "codice" usato da noi tedeschi per riferirci a Mussolini.
Dopo la telefonata al consolato mi recai dal comandante del presidio militare tedesco di Como e gli dissi: "Signor Ortskommandant, sono qui col Duce e temo che voglia tagliare la corda. Che cosa mi consiglia di fare?"
Mi rispose: "Io ho a disposizione trenta uomini, e lei quanti ne ha?"
"Una trentina anch'io", precisai.
"Bene' - osservò il capitano - allora insieme abbiamo sessanta uomini e siamo abbastanza forti per trattenerlo. Lo faccia prigioniero!"
Tornai in prefettura e poco dopo venne anche l'Ortskommandant col quale avevo parlato, su richiesta del Maresciallo Graziani che gli chiese informazioni sulla dislocazione delle sentinelle lungo la vicina frontiera con la Svizzera. Terminato il colloquio, mentre scendeva le scale il capitano mi disse: "Signor Untersturmfuhrer, quelli vogliono tagliare la corda, ma io ho dato loro indicazioni tutte falso". Così andarono le cose e la responsabilità era tutta sulle mie spalle. Kisnat non c'era a Como, come non c'era alla partenza da Milano la sera del 25 aprile; d'altra parte non avrei accettato ordini da lui. Io ero SS e lui SD».
Birzer ha ragione. Le Waffen SS erano un corpo militare combattente; il Sicherheitsdienst (SD) era il servizio di sicurezza, con compiti di sorveglianza, spionaggio e controspionaggio, del Reichssicherheitshauptamt (RSHA), ossia l'Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, lo strumento del terrore della Germania di Hitler istituito nel settembre 1939 da Reinhard Heydrich, il sinistro luogotenente di Himmler morto a Praga in seguito a un attentato di partigiani cecoslovacchi nel giugno 1942. Del RSHA facevano parte, oltre al SD, la Sicherheitspolizei (SIPO), polizia di sicurezza; la Geheime Staatspolizei (Gestapo), polizia segreta di Stato, e la Kriminal Polizei (Kripo), polizia criminale, e dal 1944, dopo la congiura del 20 luglio, e l'arresto dell'ammiraglio Canaris, anche l'Abwehr, ufficio militare d'informazione.
Capo del RSHA era l'Obergruppenfuhrer (grado equivalente a quello di generale d'armata) Ernst Kaltenbrunner, un fanatico e spietato criminale che fu condannato a morte e impiccato a Norimberga nel 1946. Capo del SD era il Brigadefuhrer Walter Schellenberg, condannato a sei anni di reclusione dal tribunale interalleato di Norimberga, rilasciato nel giugno 1951 e morto alla clinica Fornaca di Torino, per una grave affezione epatica, il 31 marzo 1952. Capo del SD per l'Italia era il generale Wilhelm Harster, che aveva il comando a Verona.
Seconda precisazione di Fritz Birzer, in risposta alla mia domanda: «E' sicuro di aver riconosciuto Rachele e Annamaria Mussolini nella donna e nella ragazzina che erano accanto al "Duce", alla prefettura di Como, nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1945?»:
«So che questa mia dichiarazione è stata giudicata falsa in Italia, particolarmente negli ambienti fascisti e neofascisti. Ma io ero a pochi metri da Mussolini mentre egli parlava affettuosamente con la signora e con la fanciulla. E quando chiesi chi esse erano ad alcuni camerati che avevano svolto servizio di guardia alla villa Feltrinelli di Gargnano, mi fu risposto senza incertezze: "La moglie e la figlia più giovane del Duce". Questa è la verità».
Birzer tuttavia, come egli stesso confessa, non conosceva personalmente Rachele e Annamaria Mussolini. E' in errore dunque l'amico Franco Bandini (lo scrittore e giornalista italiano che più di ogni altro ha fatto ricerche e scritto su quelle vicende), quando annota nel suo libro «Le ultime 95 ore di Mussolini», pubblicato da SugarCo e in una successiva edizione economica da Mondadori: «Non c'è dubbio che Birzer conosceva assai bene donna Rachele, per averla vista, praticamente tutti i giorni, durante la sua permanenza a Gardone. Il tenente l'aveva anche accompagnata spesso nelle sue passeggiate sul lago e nei dintorni ... ».
Il «giallo» di Rachele a Como ha un interesse notevole. Secondo alcuni storici, infatti, i famosi carteggi segreti sarebbero stati consegnati da Mussolini alla moglie durante il loro presunto incontro alla prefettura di Como, poco prima che il «Duce» partisse per Menaggio e Rachele per li confine svizzero, dove fu respinta dalle guardie di frontiera elvetiche. Ma, ripetiamo, si tratta di un «giallo», fino ad ora non risolto in modo incontrovertibile.
Seconda parte pubblicata su "L'Arena" di Verona il 3 marzo 1981Riprendiamo e concludiamo oggi la pubblicazione della nostra intervista con Fritz Birzer, il comandante della scorta di SS e SD che seguì Mussolini da Gargnano a Dongo, tra il 18 e il 27-aprile 1945, con la sua precisazione in risposta a quanti insistono a definire «invenzione» il travestimento del «Duce» con il cappotto e l'elmetto della Flak tedesca, per la sua «personale» salvezza.
«Su questo episodio - mi dice Birzer, quasi gridando, nessuno può minimamente smentirmi, perché fui io stésso a ordinare a un sergente della Flak di consegnare a Mussolini il suo cappotto e il suo elmetto. Lo feci perché ritenevo che soltanto in quel modo, confondendosi con i nostri soldati, egli sarebbe forse riuscito a sfuggire ai partigiani. Il capitano Kisnat era presente alla scena, ma non disse nulla, né per opporsi alla mia iniziativa né per approvarla. Claretta Petacci invece supplicò il Duce di ascoltare il mio consiglio. Cosi Mussolini, anche se malvolentieri, indossò il cappotto della Flak e si mise l'elmo d' acciaio sotto il braccio. Salì poi sul camion (targato WH 529507, n.d.r.) dalla parte posteriore per non essere visto dai partigiani che si trovavano davanti alla nostra colonna».
Chiedo a Birzer: «E' esatta la versione pubblicata in Italia da Silvio Bertoldi delle due valigie piene d'oro, diamanti e oggetti preziosi vari che lei fece gettare nel lago di Como dopo la partenza della colonna di Fallmeyer da Dongo?"
"Fu proprio così - mi risponde Birzer - erano due valigie molto pesanti. Per alzarle ci vollero quattro uomini. Erano di coccodrillo, o pelle simile. Una si ruppe mentre veniva sollevata e fu buttata nel lago aperta, l'altra chiusa».
Domanda: «Lei, signor Birzer-, non aveva niente altro di italiano sul camion delle SS oltre alle due valigie?».
Risposta: «Sì. Sul camion dei miei uomini, e anche su altri della nostra colonna, c'erano molti documenti. Ce li avevano consegnati i ministri e i gerarchi fascisti quando fummo costretti a separarci da loro. Ma prima di giungere al confine con la Svizzera, dove sapevamo che saremmo stati perquisiti, ordinai, d'accordo con Fallmever, che fossero bruciati».
Penultima domanda: «Signor Birzer, lei sa che le sono state rivolte dure critiche per il fatto di non aver difeso con le armi Mussolini al momento della sua cattura. Mussolini stesso, anzi, quando a Dongo scese dal camion e si tolse il pastrano della Flak disse: "Nessuno mi difende!". Lei non aveva ricevuto l'ordine di proteggerlo?».
Risposta: «L'ordine che mi era stato dato era di scortarIo, di sorvegliarlo, di impedirgli a qualsiasi costo di fuggire, qualora l'avesse tentato, e anche, è logico, di difenderlo in caso di necessità. Ma la situazione a Musso e a Dongo non mi consentì un' azione di forza. Il tenente Fallmeyer, che era il comandante della colonna, aveva sottoscritto con i comandanti partigiani della zona accordi precisi in base ai quali soltanto i militari tedeschi avevano libertà di transito. lo non potevo oppormi, né potevo dare ordini ai duecento uomini che dipendevano da Fallmeyer. Kisnat, da parte sua, non propose nessun'altra solizione né mai suggerì l'uso delle armi. Mi creda, è stata quella di Dongo la più brutta esperienza della mia vita. Credo però di essermi comportato con saggezza, secondo coscienza. Del resto nessuno poteva immaginare che Mussolini sarebbe stato riconosciuto con indosso una divisa militare tedesca e gli occhiali da sole sugli occhi. Che cosa avrei dovuto fare? Decidere un inutile spargimento di sangue? Continuare, con trenta o quaranta uomini, una guerra che praticamente era finita in Italia? lo non ho nulla da rimproverarmi. Non ero un generale; ero un semplice sottotenente, un semplice soldato».
Ultima domanda: «Signor Birzer, lei ebbe veramente l'impressione che Mussolini avesse in animo il proposito di fuggire in Svizzera?»
Risposta: «Si, l'ho detto e lo ripeto conm assoluta convinzione. Fu a Como che incominciai a capirlo. Per recarsi in Valtellina, da Milano, non si passa da Como, e tanto meno si sceglie la via occidentale del lago. Ma i miei dubbi aumentarono quando Mussolini tentò di partire da Como a mia insaputa, alle 4.40 del 26 aprile. Perché voleva andarsene senza la sua scorta tedesca, da lui tante volte elogiata? E tutti sanno che glielo impedii con i mitra dei miei uomini puntati. A Grandola poi i miei dubbi si fecero più consistenti. Perché Mussolini era salito in quella località, a pochi chilometri dal confine svizzero, abbandonando la litoranea Menaggio Dongo: E perché aveva mandato Buffarini-Guidi e il ministro Tarchi al confine? Soltanto al ritorno da Grandola verso Mnaggio, nella sera del 26, Mussolini mi disse: "Birzer, dica ai suoi uomini di prepararsi, partiamo subito per Merano"».
La parte pubblicabile, secondo gli impegni presi, della mia intervista con l'ex Untersturmfuhrer delle SS Fritz Birzer è finita. Credo tuttavia opportune, per completare il servizio, alcune puntualizzazioni.
Nel citato volume di Silvio Bertoldi «I tedeschi in Italia» trovo un solo dettaglio errato rispetto alle odierne dichiarazioni di Birzer. BertoIdi scrive che Birzer respinse la richiesta, fattagli da Mussolini a Grandola, di andare con le sue SS a liberare Buffarini-Guidi e Tarchi prigionieri nei pressi della frontiera svizzera. Birzer mi ha detto invece che non rispose negativamente a Mussolini, ma pretese di essere accompagnato sul luogo della cattura dei due gerarchi da un autista, di Buffarini-Guidi o di Tarchi, che era riuscito a ritornare a Grandola e conosceva la strada percorsa dai fuggiaschi. L'autista disse che era stanchissimo, chiese un po' di tempo per riposarsi e non si fece più vedere. Così Birzer non partì per San Pietro Sovera.
Nel volume «Benito Mus~solini - A Biography» di Christopher Hibbert (uno storico inglese laureatosi a Oxford, autore di importanti saggi, che partecipò alla campagna d'Italia come ufficiale di fanteria, fu ferito due volte e ricevette la «Military Cross»), la parte dedicata a Birzer è sostanzialmente fedele alla descrizione che mi è stata fatta dallo stesso Birzer. Vi sono invece errori di date e di tempi, come per la partenza di Mussolini da Gargnano, datata 19 aprile anziché 18 aprile 1945.
Richard Collier nel volume «Duce! The Rise and Fall of Benito Mussolini» scrive che «la guardia del corpo di dodici uomini al comando del Kriminalinspektor Otto Kisnat e dell'Untersturmfiihrer Fritz Birzer seguiva sempre, ovunque, Mussolini sul Garda». Non è assolutamente vero. Birzer non fece parte della guardia dei corpo di Mussolini a Gargnano. Seppe che avrebbe comandato una scorta di SS al seguito del «Duce», con destinazione non precisata, soltanto il 17 aprile 1945. Numerosi altri sono gli errori e le lacune che si riscontrano nella biografia di Collier.
Nella sua biografia «Mussolini», pubblicata dalla UTET nel 1969, Gaspare Giudice dà informazioni sbrigative e in alcuni punti inesatte sulla scorta tedesca del «Duce» da Como a Dongo.
In molti altri volumi di autori italiani e stranieri si leggono resoconti dei fatti qui rievocati molto diversi, nei particolari e nella sostanza, da quello fattomi da Birzer, per cui non ritengo utile citarli, anche per evitare ulteriori polemiche.
In merito al presunto proposito di fuga di Mussolini, c'è da dire che Otto Kisnat è stato ancor più categorico di Birzer. In una sua testimonianza del 1968 (non sappiamo quanto attendibile) riguardante, l'arresto di BuffariniGuidi e Tarchi, Kisnat asserisce che Mussolini gli disse all'hotel «Miravalle» di Grandola: «Li ho mandati io a trattare con le autorità di confine la possibilità di passare in Svizzera col mio seguito... ma ora ciò non è più possibile. Partiremo domani, presto, per Merano».
Concludo con le impressioni che ho riportato dal mio colloquio con Fritz Birzer. E' un brav'uomo, semplice, corretto, sincero e aperto, che non alimenta miti, che non si crede un eroe. Oggi un quieto borghese di Monaco, senza grilli nella testa; trentasei anni fa un soldato del Terzo Reich nazista che non si macchiò di crimini e si trovò improvvisamente protagonista di una vicenda drammatica, entrata nella Storia. Svolse il suo compito con energia e dignità, appellandosi soltanto al suo buon senso. Perché era stato abbandonato da tutti i suoi capi, era solo, in mezzo a un gruppo di uomini sconfitti, stanchi e disperati, molti dei quali attesi dal plotone di esecuzione.
Jean Pierre Jouve
1981