medicina - medicine

 

Dalla maieutica
all'educazione
- Il Pedagogista -
Materiali di lavoro sul riemergere recente d’una professione antica


di Franco Blezza

(Facoltà di Scienze Sociali - Università “G. D’Annunzio” di Chieti - a.a. 2002/2003)

 

***


Premessa

Questa dispensa raccoglie una serie di scritti espressi nella convegnistica e nella letteratura del settore pedagogico-professionale, nonché in rete, in questi ultimissimi anni. In particolare, nella Parte I si sono recepite e rielaborate, come parte della materia prima, due relazioni tenute ad altrettanti convegni che poi non hanno visto la pubblicazione degli Atti: il Convegno di Studi sul tema “Ricerca, Formazione e Società Globale” (Trieste, Facoltà di Scienze della Formazione, 11-12 dicembre 1998); e il I Congresso Nazionale della F.I.Ped. - Federazione Italiana Pedagogisti (Ancona, 6-7-8 aprile 2001) sul tema “Io ero il Pedagogista, tu lo psicologo"

Nella seconda parte si è partiti da un inedito già diffuso in rete, mentre nella terza si è inserito un altro contributo recato alla convegnistica FIPed. La quarta parte in prevalenza, e la quinta quasi interamente, sono tratte dalla comunicazione telematica, come verrà specificato contestualmente.

Il lavoro è stato fatto per gli studenti dei Corsi di Laurea attivati al tempo nella Facoltà di Scienze Sociali dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti, vale a dire in Sociologia e in Servizio Sociale; ma è stato pensato anche come ulteriore contributo in rete alla formazione continua del Pedagogisti e di altri professionisti, ed altresì come elemento del dibattito su questa professione nel contesto delle professioni intellettuali del livello più elevato. Qui stanno le ragioni di una voluta coesistenza di passaggi evidentemente specialistici con passaggi d’interesse e di cultura più generali; mentre nella genesi dell’opera si possono ravvisare le ragioni di talune ripetizioni, che si sono volutamente lasciate in quanto ritenute essenziali alla buona comprensione delle singole parti e della loro collocazione e del loro significato entro l’economia complessiva del testo.

Si tratta, di conseguenza, di materiale di lavoro, volutamente lasciato allo stato grezzo ed aperto a successivi sviluppi. Le attività didattiche nell’ateneo teatino, e il dibattito tra professionisti in rete, ne costituiranno il terreno di sviluppo successivo più opportuno: il che è, per le nostre idee, ciò che più conta.

Da quell’esperienza futura, cui si accede proprio perché si è già elaborato questo primo materiale, e dai relativi riscontri, è atteso quanto ci consentirà di controllare, correggere, far evolvere con lo scritto la dottrina che vi è espressa.


Parte I

Generalità sulla professione di Pedagogista
Presentazione

Nel mondo del lavoro, ed in particolare dei servizi, è in corso da tempo un cambiamento molto profondo e sostanziale per quanto attiene alla Materia Pedagogica. In sintesi, potremmo dire che il pesante investimento educativo che è necessario per la società in trasformazione dimostra sempre più chiaramente il suo bisogno di un aiuto di carattere professionale e specifico; laddove l’investimento diverso, ma altrettanto pesante, di ordine educativo che ha retto per due o tre secoli i preesistenti equilibri sociali, culturali, familiari, relazionali, lavorativi, politici, era essenzialmente di ordine a-specifico e non professionale, né richiedeva una qualche forma di aiuto del genere se non, al massimo, in alcuni casi molto particolari, che si sarebbe con il tempo imparato a classificare nell’ambito della cosiddetta “Pedagogia Speciale” (handicap, disadattamento, devianza, problemi di interesse psichiatrico, …).
Tra le caratteristiche essenziali di questo cambiamento si potrebbero enunciare un’immagine evolutiva e non più statico-omologativa dell’educazione, i suoi caratteri pluralistici sia quanto alle idee di fondo sia quanto alle sedi alle agenzie e alle fasce d’età, la sua bi- (o pluri-) direzionalità, la sua assoluta valenza per tutta la vita, il suo carattere processuale e promozionale anziché centrato su acquisizioni, certezze e definitività. Ma sono solo dei significativi esempi: si potrebbe facilmente seguitare l’elencazione, per linee sempre più note e sempre meglio leggibili (seppure non omogeneamente e non senza contraddizioni) nella letteratura pedagogica degli ultimi decenni.
Alla base vi è una revisione sostanziale di ciò che si intende per “educazione”, e di conseguenza di come possa e debba condursi quella riflessione su di essa che è compito e competenza della Pedagogia. Qualunque forma di comunicazione interpersonale umana che sia parte dell’evoluzione culturale, come prerogativa umana, può considerarsi correttamente e rigorosamente come “educazione”; mentre per la riflessione sull’educazione che possa dirsi a rigore “Pedagogia” vanno emergendo con sempre maggiore chiarezza il rifiuto di qualunque visione riduzionistica che tenda a relegarla al solo piano della Teoria o al solo piano della Prassi, o a qualche dualismo o contrapposizione tra di essi, e l’individuazione piuttosto su una dimensione propriamente di mezzo, su un piano intermedio tra Teoria e Prassi, sintesi ed insieme possibilità di comunicazione tra due piani reciprocamente irriducibili.
Può essere utile, qui ed altrove, un ricorso a taluni strumenti concettuali che hanno avuto la loro origine nella Filosofia e nella Storia della Scienza, e che possono gettare luce su questi fenomeni storici se utilizzati nel campo pedagogico, e quasi riprocessati in esso, iuxta propria principia.
Ci riferiamo allo strumento concettuale di “rivoluzione scientifica”, e a quello reci­proco di “scienza normale”, come anche allo strumento di “paradigma”, proposti ed impie­gati dall'epistemologo-storico della scienza Thomas S. Kuhn (1922-1996), soprattutto ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, probabilmente la sua opera più nota (sottotitolo Come mutano le idee della scienza) .
Le definizioni che egli delinea dei tre strumenti concettuali sono le seguenti (i grassetti sono nostri):

“In questo saggio, <<scienza normale>> significa una ricerca stabil­mente fondata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una partico­lare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fon­damento della sua prassi ulteriore. Oggi tali punti fermi sono elencati, seppure raramente nella loro forma originale, dai manuali scientifici [...].”

“[...] consideriamo qui rivoluzioni scientifiche quegli episodi di sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sosti­tuito, completamente o in parte, da uno nuovo incompatibile con quello.”

“Con tale termine [paradigma] voglio indicare conquiste scientifi­che universal­mente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di pro­blemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca.”

Tutto il saggio si consiglia alla lettura; comunque, la visione di Kuhn è chiaramente delineabile in termini di lunghi periodi di lavoro attorno a problemi particolari o “Puzzles”, che hanno brusche soluzioni di continuità (o meglio, brusche variazioni di trend, “non de­rivabilità” o angolosità più che non discontinuità ) per un complesso di ragioni diverse le quali sfociano in rivoluzioni dalle quali scaturiscono nuovi paradigmi sui quali si condurranno nuovi periodi di scienza normale, e così via in un infinito a-teleologico.
Vi è una notevole vicinanza tra il concetto di “scienza normale” e quella che potremmo chiamare l’“educazione normale” nel periodo otto-novecentesco: uno svolgersi ordinato e coerente di un processo di omologazione attorno a “paradigmi educativi”, vale a dire a dei modelli rigidamente prefissati, aprioristicamente considerati come validi ed indiscutibili, e di fatto in genere né discussi né considerati criticamente da parte degli educatori, come essi richiedevano che fossero da parte degli educandi.
Quanto è avvenuto, a cominciare dagli anni (’50)-’60 del secolo scorso, ha integrato sempre più e sempre più chiaramente un profondo cambiamento dei paradigmi educativi e di quelli pedagogici, nel senso che ha dato Thomas S. Kuhn a questo termine tecnico. Seguitando così ad impiegare la terminologia di Kuhn, siamo di fronte ad una “rivoluzione scientifica” pluridecennale, con il cui tenore di problematicità abbiamo molto a che fare ancora oggi, ed avremo da misurarci per decenni. I problemi prettamente pedagogici che vi vengono posti investono direttamente le professionalità specifiche del settore, e d’altra parte fanno sì che tanto lo studente di Scienze dell’Educazione quanto il laureato che intenda seguire quelle professionalità elevate cui la laurea avvia possano contare su di una esperienza diretta del paradigma educativo in via di superamento, e quindi su di una base empirica eccezionalmente pregiata ed efficace. Già la Legge Organica G. Casati indicava come uno dei due fini per l’Università quello di“indirizzare la gioventù, già fornita delle necessarie cognizioni generali, nelle carriere sì pubbliche che private in cui si richiede la preparazione di accurati studi specialistici”, e non quello di fornire una professionalizzazione in qualche modo finita: la validità di questa idea è chiaramente più forte oggi che non a quel tempo.
E’ in questo contesto che si comprende bene come quel complesso di situazioni problematiche nelle quali si è trovata la ex Facoltà universitaria di Magistero in questi stessi ultimi anni possano essere state trattate come occasioni evolutive e di superamento di ristrettezze e riduzionismi preesistenti. La quinquennalizzazione di fatto dei diplomi di scuola superiore ha comportato la necessità di sopprimere quelle che diventavano duplicazioni di corsi di laurea già presenti nelle Facoltà di Lettere e Filosofia ed ormai immotivate; d’altra parte, la permanenza di un’impronta originaria essenzialmente scolastica, come una sorta di “circuito chiuso” per cui a quella Facoltà accedevano maestri con prospettive di lavoro come direttori didattici od ispettori od insegnanti di scuola medie, non aveva più ragion d’essere nel cambiamento del mondo del lavoro e della realtà socio-culturale, ed evidenziava l’inadeguatezza grave di una impostazione di fondo del curriculum tutta fortemente centrata sulle discipline letterarie, cosiddette “umanistiche” nell’ottemperanza a matrici neo-idealistiche (e relative “gerarchie dei saperi”) che quasi nessuno più accetterebbe come proprie matrici teoretiche, culturali, politiche.
Così si comprende appieno, e si coglie nel suo carattere innovativo e prognostico, la trasformazione della Facoltà in Scienze della Formazione, e quella del corso di laurea in Pedagogia nel corso in Scienze dell’Educazione: un corso di laurea durato poco, in quanto avviato nel 1992/93 e quindi andato a regime solo nel 1996/97, mentre i nuovi titoli accademici, secondo lo schema “3 + 2”, sono stati introdotti in modo generalizzato entro il 2001 .
Rinunciare, in questo modo, ad una denominazione che avesse un riferimento esplicito al termine “Pedagogia” e derivati è stato, probabilmente, un errore; probabilmente, si intendeva sottolineare proprio la maggiore incidenza della cultura scientifica nella cultura pedagogica: sia considerato che le “Scienze dell'educazione” per buona parte almeno sono scienze in senso stretto (Antropologia, Sociologia, Docimologia, Didattica appunto...), e che un sottoinsieme di queste è costituito da Scienze della Natura applicate all'uomo (Scienze Mediche, Igieniche, Auxologi­che e Neurologiche; Scienze Psicologiche; Scienze dell'ambiente e dell'interazione uomo-am­biente; ...); sia considerata la sempre più essenziale ed imprescindibile importanza della metodologia scientifica, dell’atteggiamento e del rigore tipici della scienza.
Va tuttavia subito aggiunto che questo non pone nessuna ipoteca circa la denominazione delle professioni superiori alle quali tale corso di laurea avviava. I suoi 2° e 3° indirizzo, denominati rispettivamente “Educatori professionali (extrascolastici)” ed “Esperti in processi di formazione” avrebbero teso a distinguere due grandi versanti delle professionalità pedagogiche, anche se con qualche margine di indeterminazione che probabilmente non potrà mai essere del tutto escluso; mentre il 1° indirizzo (per “insegnanti di scuola secondaria”) stava ad indicare il carattere residuale dello sbocco scolastico di questo corso di laurea, che anche sotto questo aspetto è assolutamente analogo a tutti gli altri.
Lo scopo fondamentale di questa dispensa è fornire alcune linee di fondo circa quell’itinerario di formazione delle professionalità più elevate che hanno avuto ed hanno la loro base nel Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione, e che possono richiamare nella loro dizione la “Pedagogia” in senso proprio.
A fondamento vi sono le attività di ricerca accademica (o di base) , e le attività di ricerca sul piano intermedio od applicativo, svolte negli ultimi dieci anni ed oltre: queste seconde, attività di interlocuzione pedagogica svolte per lo più come relazione d’aiuto in problemi di famiglia, coppia, Partnership e genitorialità, sono state praticate sotto forma di volontariato.
L'.I.P. è stata proposta pubblicamente nel 1997, tanto alla comunità scientifica dei pedagogisti accademici quanto all’associazionismo del settore della professione . La sperimentazione era da molti anni in corso, e prosegue tutt’ora, sotto la forma specifica di esercizio libero-professionale volontaristico, trattando problemi soprattutto di coppia, Partnership, famiglia, genitorialità, relazionalità quotidiana, e connessi. Alla sua elaborazione hanno, peraltro, concorso anche le risultanze dei precedenti anni di esperienza di insegnamento e, poi, di conduzione di gruppi di ricerca di insegnanti e sulla scuola, e quanto può essere più efficacemente riferito alla locuzione “Pedagogia scolastica”. Gli scritti nel primo campo sono venuti prima e sono tuttora prevalenti; gran parte degli scritti nel secondo campo sono in via di pubblicazione, in particolare nel contesto dell’Associazione Nazionale dei Pedagogisti professionali .
Da un punto di vista più generale questa proposta, con l’esperienza relativa, si propone e si offre come forma paradigmatica di tecnica di relazione d'aiuto, nella quale implementare la metodologia e la strumentazione concettuale ed operativa specifica del Pedagogista professionale. L'I.P., insomma, fornisce delle indicazioni fruibili da chiunque eserciti una qualsiasi relazione d'aiuto pedagogica , ed offre i suoi contributi, per il tramite di una opportuna mediazione, alla Pedagogia Generale .


L’approccio storico alla questione identitatria

Il titolo contiene una sorta di “chiasmo concettuale”: certo, per discutere di storia del Pedagogista occorre avere ben chiara l'identità od, almeno, un'immagine del Pedagogista. Avrebbe ben poco senso scrivere sulla storia di qualche cosa, senza avere ben chiara l’identità di quel “qualche cosa”: si pensi a quanti discettano, ad esempio, di storia della scienza (o della Pedagogia come scienza…) senza avere la benché minima idea di che cosa sia la scienza e che cosa distingua la conoscenza scientifica da altre forme di conoscenza e di cultura; l’esempio non è scelto a caso, né all’esterno del nostro dominio di competenza e dei nostri campi d’esercizio.
Vi sono, però, precise ragioni d'ordine espositivo che ci indicano di discutere prima sulla storia e poi sull’identità di questa nostra professione. Da una salda base di considerazioni storiche ci troveremo, infatti, nelle condizioni migliori anche per descrivere i tratti di fondo della nostra identità.
E del resto. è proprio questo l'approccio che viene dato sia da altri professionisti, specie da quelli che ci sono (per qualche verso) vicini, sia dal mondo della cultura generale. La domanda è, più o meno, sempre quella: “voi pedagogisti, chi siete? Che storia avete?”. In questa particolare formulazione, echeggia nelle orecchie di molti di noi: fu posta con tono concitato e accusatorio, per la precisione da uno psicologo clinico, nell'occasione di un importante convegno sulle difficoltà d'apprendimento, e in senso più ampio sulla Pedagogia Speciale, organizzato da una nota Casa Editrice specializzata qualche anno fa. I rappresentanti politici dell’associazionismo pedagogico, in quella occasione, non seppero rispondere.
Va detto chiaramente che eventuali timori di sovrapposizione dell’esercizio della professione pedagogica su quello delle professioni psicologiche o sociologiche, sanitarie o giuridiche, non hanno ragion d’essere ed allignano solo sulla mancanza di conoscenza su quale sia il compito del Pedagogista professionale. D’altra parte, eventuali sovrapposizioni dell’esercizio delle professioni anzidette nel campo del pedagogico e dell’educativo sono da considerarsi indebite ed improprie, comprensibili solo come esercizio di una supplenza provvisoria là dove la figura specifica non esista, e tendenti a dimostrare la necessità e l’urgenza del suo inserimento.
Ciascuna professione e ciascuna cultura ha un suo proprio spirito: lo spirito del Pedagogista non è assertivo né aggressivo quanto, piuttosto, dubbioso, interrogativo, ipotetico, sempre proteso ad una ricerca continua,… magari melancolico, ma per quello che ciò rappresentare in termini di creatività. E’ certamente un motivo di difficoltà immediate e contingenti: ma che potrà dimostrare tutta la sua fecondità a tempi non lunghi.
Con questo spirito, possiamo dire chi siamo, dopo aver affrontato, sinteticamente, la questione storica.
Innanzitutto, la nostra storia è assai più cospicua che non quella della Psicologia; a meno che non s’intenda con questo termine quella branca della Filosofia che studia l’anima, come l’intendeva primariamente l’Enciclopedia Italiana ancora nel 1935 .
Oltre un secolo prima fu un Pedagogista, Johann Friedrich Herbart (1776-1841), a teorizzare nella Pedagogia una particolare sintesi tra Filosofia e Scienza, quella tra l’Etica e proprio la Psicologia. Ma questo era ancora un auspicio, un programma, in quanto la Psicologia come scienza sarebbe sorta solo alcuni decenni dopo, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, e solo ancora più avanti avrebbe dimostrato la sua importanza specifica anche nel campo educativo. Fu lui stesso, negli Hauptunkte der Mataphysik (1806), a cercare di andare oltre le limitazioni (specie per quanto riguarda la quantificazione) che ancora qualche decennio prima Immanuel Kant (1724-1804) aveva posto a pregiudiziale perché la Psicologia potesse considerarsi una scienza a pieno titolo come le altre Naturwissenschaften.
Non confonderemo certo quel grande pensatore tedesco con il particolare Herbartismo che, oltre oceano, ha significato soprattutto eccessi di disciplina rigida e di passività, e contro il quale molto opportunamente polemizzavano John Dewey e tutta la sua scuola. Semmai, dovremmo ricordare il ruolo importante che avrebbe avuto in Italia il Neo-herbartismo che, agli inizi del ‘900, era stata assunto come ispirazione di fondo per le riforme della scuola del periodo giolittiano, ed aveva tra i suoi massimi esponenti grandi pedagogisti, del valore di Nicola Fornelli (1843-1915), del ministro Luigi Credaro (1860-1939), di Francesco Orestano (1873-1945).
In Europa, questa corrente di pensiero educativo verrà poi avvicendata dall'Attivismo pedagogico; rimarrà la tensione tra scienza e filosofia come motivo conduttore e promotore di molta elaborazione teorica e di molta applicatività. In Italia, in periodo giolittiano, la dominante herbartiana si integrava anche con altre componenti pedagogiche: c'era ad esempio un Pragmatismo italiano con le sue specificità (un Italo-pragmatismo), che quasi tutti hanno dimenticato come i suoi maggiori esponenti (Giovanni Vailati, Mario Calderoni, Ettore Regalia, Giuseppe Vacca, Mario Manlio Rossi, Antonio Aliotta, Mario Manlio Rossi, Giulio Cesare Ferrari, ...); fatta eccezione, forse, per Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, ricordati più come scrittori che come pensatori..
Tutto questo fermento culturale e riformatore, di grande interesse anche specifico per noi, fu spazzato via dalla Grande Guerra e, poi, dall’egemonia totalitaria del Neo-idealismo italiano.
Tornando alla storia della Psicologia, solo nel 1867 Wilhelm Max Wundt (1832-1920) cominciò a parlare di “psicologia fisiologica”, nel contesto della rifondazione della Fisiologia in senso fisico-sanitario che si ebbe nell’Ottocento; e creò nel 1880 a Lipsia il primo laboratorio di Psicologia Sperimentale.
Cominciarono a sortire risultati significativi in quello stesso periodo anche le ricerche quantitative di Psicologia Fisiologica, con personaggi di rilievo come Ernest Heinrich Weber (1795-1878) e Gustav Theodor Fechner (1801-1887), Hermann von Helmholtz (1821-1894), Ernst Mach (1838-1916) e molti altri.
Quanto, poi, all’aspetto più direttamente medico del problema, la Psichiatria indubbiamente ha radici più remote come risposta (più o meno scientifica e più o meno umanamente congrua) a ben precise necessità sociali. Ma fu solo con l’affermarsi dell’indirizzo psicopatologico che essa poté porsi come scienza medica analoga alle altre: e questo avvenne poco prima, con personaggi come Vincenzo Chiarugi (1759-1820), Jean-Etienne-Dominique Esquirol (1772-1840), H. Maudsley, J. Guislain.
La Psichiatria come scienza medica a base fisico-fisiologica, e come studio sperimentale, si sviluppò nell’Ottocento. Ma la prima cattedra nel mondo di Clinica delle malattie nervose venne assegnata a Jean-Marie Charcot (1825-1893) solo nel 1882. Sigmund Freud (1856-1939) pubblicò nel 1985 gli Studien über Hysterie; e sono ancora successive la prime opere di una lunga serie per tutto un complesso di nuove professionalità in campo psichiatrico, come Die Traumdeutung (1900), Zur Psychopathologie des Alltagslebens (1901), Drei Abbandlungen zur Sexualtheorie (1905) e le successive sulla Psicanalisi .
La Psicologia come scienza, insomma, ha una storia molto recente; e poco più lunga è la storia della Psichiatria come scienza medica quale oggi l’intenderemmo.
Molte delle professioni nostre “cugine” hanno una storia effettiva assai recente, anche se possono cercare progenitori poco “diretti” nei tempi precedenti: ciò vale, ad esempio, per l’Assistente Sociale o per l’Assistente Sanitario. Un po’ meno recente, e non priva di qualche radice antica, è l’Antropologia culturale, una scienza moderna. Ottocentesca è la Sociologia, in quanto Auguste Comte introdusse per la prima volta il termine nel suo Cours de philosophie positive del 1839. In questa esemplificazione, almeno noi non dovremmo dimenticare la proposta della Pedologia di Oskar Chrisman (Paidologie. Entwurf zu einer Wissenschaft des Kindes, 1894).
La storia della Pedagogia, invece, è assai più cospicua, in quanto affonda le sue radici saldamente fino alle origini della civiltà occidentale. A testimoniarcelo è proprio il John Dewey più noto: “E’ significativo che la filosofia europea abbia avuto origine in Atene sotto la pressione diretta dei problemi educativi. La storia più antica della filosofia svolta dai greci in Asia Minore e in Italia, quanto all’oggetto della riflessione, è prevalentemente un capitolo della storia della scienza più che della filosofia come si intende oggi la parola. Aveva per oggetto la natura e speculava sul modo in cui le cose sono state create e mutano. Più tardi i maestri vaganti, che si conoscono sotto il nome di sofisti, cominciarono a applicare i risultati e i metodi dei filosofi naturali alla condotta umana. Quando i sofisti, il primo corpo di educatori professionali in Europa, presero a istruire i giovani alle virtù, nelle arti politiche, e nel governo della città e della famiglia, la filosofia cominciò ad avere a che fare con le relazioni dell’individuale con l’universale, dell’individuo con la classe o gruppo, con la relazione fra uomo e natura, fra tradizione e riflessione, fra conoscenza e azione.” .
I Sofisti (dal sec. V a.C.) e Socrate (469-399 a.C.) sono coevi ad Ippocrate (460-370 a.C.) e precedenti, di molto, a Galeno (130-201 d.C.); più o meno coeve ad essi sono anche quelle XII tavole fino alle quali attinge la cultura giuridica. La Pedagogia, insomma, ha una storia assolutamente paragonabile a quella di altri saperi cui corrispondono professionalità assai forti e ben strutturate, come quelle del Medico Chirurgo, o quelle dell’Avvocato, del Giudice, del Notaio. Essa è parte integrante della nostra Civiltà fin dalle sue radici più remote. All’antichità attingiamo non per un vuoto esercizio di costruzione di un blasone, ma perché la nostra professione ha proprio lì, in quelle fonti, i suoi componenti primi anche come pratica operatività d’esercizio: il dialogo, la socialità, la cittadinanza, la maieutica, e via elencando, e considerando anche quanto ci hanno apportato Platone ed Aristotele oltre a Socrate e ai Sofisti.
Questo spiega perché noi Pedagogisti studiamo la nostra storia assieme alla Storia della Filosofia, o alla Storia Umana: sono materie che sarebbero importanti per qualunque professione, ma noi siamo i soli ad averle, e giustamente, come materie fondamentali nella nostra formazione iniziale. Molto vi sarebbe da discutere sul come essa si realizzi effettivamente, ma nessuno mette in dubbio che ciò vada fatto.
Diverso è il discorso relativamente alle professioni: quella del Pedagogista è ri-emersa solo da pochi anni, sia pure in quel modo prorompente e forte che evidenzia qualche ritardo storico. Mentre le professioni psicologiche e psicoterapeutiche hanno un secolo o giù di lì, e per affermarsi hanno dovuto affrontare e vincere resistenze corporative e di categoria non molto diverse da quelle che debbono affrontare oggi i pedagogisti, probabilmente quelle altrimenti motivate che non queste.
Dobbiamo semmai domandarci, di conseguenza, perché sia invece recente un nuovo manifestarsi dell’esigenza di Pedagogia professionale: vale a dire, il manifestarsi con chiarezza del bisogno dell’aiuto di un esperto specificamente preparato e addentro nel campo educativo. Ovvero, quali siano le ragioni per le quali una parte essenziale della cultura umana nella nostra Civiltà fin dalle sue origini abbia trovato la necessità e fin l’urgenza di emergere come oggetto di una professionalità elevata e specifica solamente da pochissimi anni. Se ne comprendiamo le ragioni storiche, costruiamo anche la nostra identità professionale
Due domande assolutamente analoghe, è chiaro, potrebbero porsi anche per la Psicologia e la Sociologia con riguardo alla loro origine nel secolo scorso: ma andar oltre l’eventualità delle loro posizioni ci porterebbe altrove. Qui sono in gioco delle questioni storiograficamente epocali, alle quali sarà necessario dedicare qualche cenno.


Il Pedagogista professionale: una figura d’oggi di una cultura antica

A tali fini, occorre riferirci a come sia cambiato sostanzialmente l'investimento sociale nell'educazione negli ultimi decenni.
I problemi educativi odierni si inquadrano innanzitutto entro considerazioni periodali. Il senso di vivere una transizione è abbastanza chiaro, anche nell’impiego che si fa del termine postmoderno. Ma tale termine è improprio, in quanto storiograficamente l’Evo Moderno è terminato da circa due secoli: semmai, sta terminando l’evo successivo, un evo breve, dominato dallo spirito borghese o Bürgergeist.
L’Evo Moderno ha visto un progressivo avvicendamento dei borghesi ai nobili come classe dirigente, sotto la guida di un sovrano che, da medievale o feudale, si è fatto progressivamente “moderno” in senso proprio, storiografico, cioè assoluto. Federico II di Svevia (1194-1250), come re delle Due Sicilie, è stato il precursore di questa idea di stato e di assetto sociale; l’esponente più prestigioso e illustre ne è stato Luigi XIV di Borbone (1638-1715), “le roi soleil”. Solo in Inghilterra tale transizione ha seguito idee affatto particolari, per le quali il Bürgergeist ha cominciato ad affermarsi in quel paese già nel XVII secolo; altrove, i borghesi si libereranno della tutela del sovrano (salvo poi eventualmente darsene uno “costituzionale”, cioè uno ancor meno forte di quello feudale) con le rivoluzioni propriamente dette borghesi a partire dalla fine del Settecento.
Nei circa due secoli di Bürgergeist l'investimento educativo, nei genitori e nelle sedi non formali, era pesantissimo ma essenzialmente non professionale, e non richiedeva una particolare preparazione o cultura. Esso mirava alla costruzione di ruoli predeterminati, in particolare ruoli di genere e ruoli sociali, con un’efficacia che non dipendeva dalla competenza specifica degli educatori. Si trattava, in buona sostanza, di una educazione per omologazione a modelli, prefissati e a volte idealizzati, indiscutibili e indiscussi. Come osservava Edmond Demolins, uno dei precursori dell’Attivismo, a fine Ottocento tutta l’educazione si riduceva a preparare i maschi ad un “buon” lavoro, e le femmine ad un “buon” matrimonio
Tra quanto ci lascia l’Evo trascorso, vi sono molti elementi pedagogicamente qualificanti, nel senso di costruiti culturalmente mediante l’educazione, e nel senso di fondanti quel particolar modo d’intendere e di operare l’educazione, con il quale abbiamo a che fare problematicamente come professionisti e come uomini.
Essi costituivano delle condizioni necessarie per la tenuta complessiva del quadro socio-relazionale, politico, produttivo (e via elencando) di quei tempi; ma non lo costituiscono più (o lo costituiscono sempre meno) per il quadro odierno e per il suo divenire. Loro permanenze, eredità, ricadute rappresentano una crescente fonte di impegno per il nostro esercizio professionale oltreché per la nostra vita come persone umane. come cittadini, come uomini di cultura, come lavoratori intellettuali.
Vi erano, tra questi, regole ben precise e stili di pensiero e di comportamento tipicamente borghesi, quali ad esempio: “il pregiudizio sistematico, come una sorta di norma di vita, di principio incontrollabile e di fatto scontrollato ed immune perfino alle evidenze contrarie; il perbenismo, come immagine pubblica alla quale poteva peraltro corrispondere una realtà privata anche divergente purché non emergesse pubblicamente; il culto di una forma che prenda il luogo della sostanza (laddove per il nobile la distinzione non ha senso alcuno), da cui un'educazione tutta centrata sulle forme aprioristicamente intese e, quindi, anche da riceversi ed accettarsi acriticamente; una certa comprensibile disposizione all'ipocrisia mascherata da virtù per cui il fingersi ciò che non si è viene perfino lodato; un comportamento, tenuto e fatto oggetto di educazione specifica, <<snob>> in senso etimologico […]; la famiglia chiusa ed auto-consistente, <<nucleo culturale e produttivo>> della società e come tale affidata alla potestà scontrollata ed auto-referenziale del padre (chiamato a spendere fuori le sue risorse) e al sacrificio della madre-moglie nonché alla sottomissione supina dei figli […]; insieme, la ricerca di un qualche paternalismo pressoché ovunque, in politica al pari che in società e nel lavoro, sia come bisogno di protezione che esimesse dall'onere di impegnarsi ad auto-proteggersi sia come attesa che qualcun altro metta giustizia dove egli non fa assolutamente nulla allo scopo (anzi, spesso non collabora nemmeno); il restringimento di qualsiasi produttività sostanziale sotto forme ossessivamente ripetute; la cristallizzazione della cultura a strumento pratico di immediata spendibilità economica, assieme ad una cultura cosiddetta e supposta <<vera e propria>>, fine a sé stessa od <<otium>>, lasciata solo a ristrettissime élite […] per lo più iniziatiche e abbastanza chiuse; il rifiuto della creatività come un ostacolo alla vita "comune" ed adulta, confinandola solo (in certi casi) ad un'infanzia mitizzata e ad una casta di artisti o di scienziati molto rigidamente limitata; il bisogno di regole dategli ed impostegli da fuori quali che siano, che lo esentino dal costruirsene di umanamente funzionali in ciascun contesto; il trasformismo ideologico e di schieramento sempre e comunque giustificato dalla conservazione delle forme e delle relazioni formali esistenti (<<tengo famiglia>>...), e la disponibilità quindi a fare fin delle proprie idee strumento di mercato, di baratto; e così via.” .
Le eredità pedagogicamente significative di quell’evo annoverano anche molte acquisizioni positive: ad esempio la Scuola Secondaria e la Scuola dell’Infanzia. Ma, tra le realizzazioni che più ci impegnano professionalmente, potremmo segnalare le seguenti a titolo d’esempio:

la “Life-span Theory” nella sua visione tripartita;
la durata breve dell’educazione “esplicita”;
la famiglia “nucleare”, domestica e intima, presentata come un paradigma “naturale” e privo d’alternative;
le relative costruzioni di genere e di ruolo;
Il concetto di “rispettabilità”;
il concetto di nazione, e il Nazionalismo;
la non necessità di un orientamento né per gli studi né per la vita:
l’esistenza di una “retta via”, ed una sola, nel senso di “giusta” e nel senso di “diritta”;
la produzione industriale modello Ford e la concezione del lavoro di Taylor in essa.
.
I tempi attuali sono caratterizzati da una profonda transizione di carattere epocale, piuttosto che non delle non fondate questioni di millenarismo che sussistono solo da un punto di vista numerico e convenzionalmente relativo. Come indicativamente si può proporre per le scansioni secolari, esse hanno un senso storiografico qualora se ne retro-dati la decorrenza di alcuni decenni: da ultimi, l’Ottocento (in senso culturale) può considerarsi sorto in corrispondenza alle tre grandi rivoluzioni borghesi della seconda metà del Settecento (cronologico); e il Novecento in senso culturale, detto alquanto impropriamente e grottescamente “il secolo breve”, può farsi decorrere verso gli anni 1869-70-71, con la guerra Franco-prussiana, Sedan, la caduta di Napoleone III, il II Reich tedesco, la Comune di Parigi, la presa di Roma, e via elencando.
Seguendo questa logica, è plausibile ipotizzare che il secondo XXI sia culturalmente già iniziato, anche se non siamo ovviamente in grado di andare oltre vaghe ipotesi provvisorie e di lavoro circa il quando: la massificazione degli anni ’60? I movimenti di emancipazione femminile dello stesso periodo? Il cosiddetto Sessantotto? I fatti d’arme degli anni ’70? La fine della guerra del Vietnam? Le ristrutturazioni economiche e produttive, che costituiranno una delle ultime grandi battaglie dalle quali l’Occidente uscirà vincitore della Guerra Fredda? L’Afghanistan? Gorbacev, la Perestrojka e la Glashnost? La caduta della Cortina di Ferro? Quella del Muro di Berlino? La fine dell’URSS? L’unificazione tedesca? E’ più difficile a dirsi, e meno essenziale.
Sembra così configurarsi, per i decenni a cavallo tra gli anni ’60 e i primi anni ’90, il senso di una transizione più profonda, che si comprende assai bene impiegando strumenti concettuali di pertinenza pedagogica. Quello che è stato chiamato per un po’ impropriamente “postmoderno” è corrisposto ad un atto di superamento di un equilibrio socio-culturale durato circa due secoli, e che si reggeva su di un investimento educativo molto forte, monolitico e, si diceva, a-specifico. L’educazione per omologazione a modelli, la famiglia nucleare, la Life-Span Theory, e la scuola secondaria costruita per essere ponte tra la (eventuale) scuola elementare e l’Università o il lavoro di livello intermedio, il concetto di nazione e il nazionalismo, la produzione industriale modello Ford e la concezione del lavoro di Taylor in essa, la rispettabilità, non sono che esempi altamente significativi e coerenti delle creazioni di questo periodo, di interesse pedagogico diretto, che potrebbe avere le caratteristiche di un evo (questo sì, “breve”). Buoni segni di quella a-specificità stavano nell’attribuire a questi e ad altri caratteri di fondo dell’educazione dell’era le connotazioni di “naturale” (alla famiglia nucleare, ai modi di intendere la Partnership, la genitorialità, i generi; od anche le fasce d’età) o di “sempre esistite” o “tradizionali” (a certi modi di intendere la cultura a scuola, o al nazionalismo): si trattava di attribuzioni indebite, del tutto infondate, in quanto tutte queste non costituivano nient’altro che costruzioni umane, e per giunta storicamente molto recenti e di permanenza storica (a quel che si può vedere) abbastanza ridotta.
Oggi tale necessità d’investimento educativo non è certo diventata minore quantitativamente, ma è in progressivo mutamento qualitativo: un tale investimento richiede sempre di più competenze, preparazione e cultura generale e specifica . Per reggere ad una realtà socio-culturale, relazionale, lavorativa, politica di ricerca continua, ad una Weltanschauung secondo la quale “Alles Leben ist Problemlösen” e “Unended [is the] Quest” , come scriveva Karl. R. Popper, ci vogliono tutt’altra educazione, e tutt’altra professionalità. Per vivere una simile vita da soggetto umano, da attivo agente e non da passivo gregario, è comprensibile che ci voglia un aiuto tutto particolare: la relazione d’aiuto di ordine pedagogico. Non v’è chi non veda che questa non è né può essere né a-specifica né delegabile ad uno Psicologo, ad un Sociologo, ad un Medico, ad un Giurista e via elencando. Ci vuole la relazione d’aiuto con uno specialista di alto livello, a ciò preparato: il Pedagogista.
Tra le caratteristiche essenziali di questo cambiamento si potrebbero enunciare un’immagine evolutiva dell’educazione, i suoi caratteri pluralistici sia quanto alle idee di fondo sia quanto alle sedi alle agenzie e alle fasce d’età, la sua bi- (o pluri-) direzionalità, la sua assoluta valenza per tutta la vita, il suo carattere processuale e promozionale anziché centrato su acquisizioni, certezze e definitività, che sposta la sua attenzione “dai prodotti ai processi”, alla ricerca interminata, che valorizza l’errore, che s’incentra sulla posizione e sui tentativi di soluzione dei problemi, e via elencando, per linee sempre più note e sempre meglio leggibili (seppure non omogeneamente e non senza contraddizioni) nella letteratura pedagogica degli ultimi decenni.
Un discorso potrebbe esser quindi fatto sul perché la Psicologia e la Sociologia come scienze siano sorte proprio nel pieno di quell’evo (che è l’evo che potrebbe dirsi post-“moderno” con proprietà, storiograficamente parlando).
E’ in questo contesto, e con la necessaria dimensione storica, che si comprendono appieno i concetti premessi, e se ne possono cogliere le implicazioni essenziali sul piano pedagogico, sia generale che professionale: sia per quanto riguarda il profondo cambiamento dell’educazione e della riflessione su di essa; sia per quanto riguarda l’impiego degli strumenti concettuali di Kuhn; sia circa le trasformazioni cui è andata incontro l’ex Facoltà di Magistero.
Il che corrisponde ad una transizione analoga anche nelle aspettative che la società e la famiglia ripongono legittimamente nella scuola: da qui le logiche conseguenze nell'introduzione di nuovi paradigmi anche nella visione degli insegnanti, nella loro figura professionale e nella loro formazione.
Emerge (o ri-emerge) chiara in questi contesti evolutivi la figura del Pedagogista professionale nelle numerose fattispecie ad esso riconducibili, nel mondo del lavoro ed in particolare (ma non solo) in quello dei servizi: dal responsabile di comunità all'operatore pedagogico di consultorio, dal Marriage Counselor all’esperto in Formazione, dal consulente culturale d’alto livello al mediatore familiare, dal mediatore interculturale all'operatore d'orientamento, dal Pedagogista libero-professionale a tanti professionisti d’alto livello che vengono riduttivamente etichettati come “educatori professionali”, fino ad alcune valide interpretazioni di quella modalità d'esercizio della professione docente che è il cosiddetto “psicopedagogista” (o, meglio, “operatore psicopedagogico”, su cui ritorneremo). L’investimento educativo odierno richiede uno specifico aiuto di un professionista in via sempre più essenziale.
Questo professionista non è primariamente un “educatore”, pur se il suo agire presenta tra i tanti gli aspetti anche quelli dell’educare. E’ semmai un “esperto di” educazione, un professionista capace di “riflettere su” l’educazione.
Non si tratta di estendere la Pedagogia alle età non di sviluppo, ad esempio mediante un ampliamento della cosiddetta Pedagogia Speciale, o di estendere la Didattica a settori che più somigliano all’insegnamento nella classe come ad esempio la rialfabetizzazione degli adulti o certi segmenti della formazione professionale. Non è neppure necessario parlare di “Andrologia” o di “Geragogia”: si tratta di andare oltre l’etimo (che ha una sua ragion d’essere storica), e di considerare la Pedagogia come lo studio teorico e la professionalità applicativa nonché la Prassi corrispondente per tutto ciò si può intendere oggi con il termine “educazione”, vale a dire “qualunque forma di comunicazione interpersonale la quale concorra, o sia suscettibile di concorrere, alla perpetuazione della storia e dell'evoluzione culturale come prerogative essenzialmente umane.”
Come riassume Sergio Tramma, prendendo le distanze da M. Knowles e da tanta letteratura internazionale, “risulta difficile tracciare una solida identità adulta e anziana, a cui associare, indipendentemente dalle biografie individuali e dalle biografie del contesto in cui agiscono, compiti predeterminati, idee di maturità, transizioni e scansioni di itinerari, bisogni (formativi e non) da cui far derivare obiettivi, contenuti e metodi educativi rigidi e distinti per incerti intervalli di età.” . La visione dell’Adultità come dell’età della stabilità, della fissità, del mantenimento più a lungo possibile di quanto acquisito nella breve durata delle età dello sviluppo, e quella dell’Anzianità come l’età del calo e della perdita, avevano un senso in altri tempi e soprattutto nei due secoli trascorsi: non a caso, l’Autore esemplifica subito sulla condizione femminile, una delle costruzioni più pesante di quell’evo. Rispetto alla Life-Span Theory va introdotta un’idea alternativa: “Il corso della vita si presenta come un continuum e come tale deve essere concepito da chi organizza l’azione educativa” ; non di stadi si deve parlare, ma piuttosto di processo tra una sequela di stati; e “La pedagogia allora, indipendentemente dall’etimo, […] riguarda l’individuo nel corso del suo intero processo di sviluppo.”
Quanto, poi, alla Didattica, “Con il termine didattica ci si riferisce sia all’attività di chi insegna, sia alla riflessione e alla progettazione operativa relative all’insegnamento, alla definizione di orientamenti, condizioni, modalità operative che si ritiene possa assicurarne l’efficacia formativa […]. La definizione di didattica rinvia a quella di insegnamento, identificabile come un’attività volta intenzionalmente, in forma organizzata, […] secondo procedimenti ritenuti efficaci, a sviluppare (estendere, approfondire, modificare) abilità, conoscenze, valori […] il rapporto del soggetto con la propria cultura e con altre culture. Una definizione abbastanza precisa, anche se limitata, di didattica è quella che la indica come una sezione del sapere pedagogico che ha per oggetto il metodo d’insegnamento.” .
Il concetto si fonda su una chiara premessa, secondo la quale “non sono sufficienti né il pensiero né la parola a modificare la realtà. Solo modificando il comportamento si produce una variazione del rapporto tra la persona e il suo mondo. Solo assumendo una prospettiva nuova ci si immerge in una realtà diversa. […] l’azione pragmatica, che include il progetto e lo perfeziona nell’apprendimento, spetta alla didattica.”
Una concezione realistica e adeguata della Didattica rimanda, in effetti, ad una concezione analoga dell’apprendimento, da intendersi “come l’acquisizione di nuovi comportamenti” . E questa consente di attivare i collegamenti con l’intervento psicologico e psicoterapeutico nella piena consapevolezza delle potenzialità e dei limiti dei due settori professionali: come scrive K.V. Wilkes sulla “Modificazione del comportamento”, si tratta una “Espressione generica riferita all’uso applicativo della psicologia comportamentistica, che offre a quanti lavorano in ambito assistenziale (psicologi clinici e dell’educazione, operatori sociali, insegnanti, ecc.) uno strumento per promuovere dei cambiamenti nel comportamento umano.” ; visioni unilaterali e riduttive dei riferimenti al comportamento non sono fondate.


La “lunga marcia” dalla laurea alle professioni

Il titolo di questo paragrafo contiene un richiamo esplicito alla rivoluzione cinese e alla figura di Mao Zedong (1893-1976) come comandante militare è voluto: l’operazione che ancora adesso si chiama comunemente la “lunga marcia” del 1934-35 è passata alla storia come quella che è stata probabilmente la più cospicua ritirata strategica della storia (10 000 km in poco più di un anno).
Questo riferimento non è effettuato con riguardo al carattere offensivo o difensivo dell’atteggiamento da tenersi verso il problema, quanto piuttosto con riferimento al carattere strategico del problema, e dei tempi e delle operazioni coinvolte. Uno degli errori più gravi che il futuro Pedagogista potrebbe commettere sarebbe proprio quello di credere che invece il discorso sia più semplicemente tattico, coinvolgente tempi brevi, operazioni banali scontate e meccaniche, e obiettivi di leggibilità e tangibilità immediata.
Così non è.
Lo si capisce bene, se si guarda a tutte le altre professioni cui si accede con la laurea (prima almeno quadriennale, ora con la Laurea Specialistica, cioè con 5 anni almeno di studio universitario): questo titolo di studio è, comprensibilmente, necessario, ma non sufficiente e, spesso, ancora “strategicamente” lontano dalla qualificazione professionale piena. Il passaggio dall’”aula universitaria”, comunque intesa, alla professione non è comunque mai “immediato”.
Prima di parlare degli esempi, che sono peraltro noti e sotto gli occhi di tutti, vediamo l’unico controesempio che sussiste. Questo è rappresentato dalla Laurea in Scienze della Formazione Primaria: il corso si è avviato con gravi ritardi rispetto alla previsione di legge, e i primi laureati si sono quindi avuti a partire dall’a.a. 2001-2002 come noto. Esso costituisce l’unico caso di titolo di laurea avente valore abilitante. Non ve n’è, né se ne prevede, alcun altro; ed anzi, il Trend evolutivo va esattamente nel verso opposto.
Dovremmo aggiungere che questa formazione iniziale, seppur abilitante, non viene comunque intesa da nessuno come una formazione “finita”, ma semmai è pensata e strutturata come la prima sostanziale fase di una formazione continua di un professionista dell’educazione e della cultura la quale è fatta per proseguire tutta la vita lavorativa e, data la particolarità della professione cui abilita, per proseguire in modo organico e consustanziale con il pratico esercizio di quella professione. L’accesso alla professione, comunque, non è esattamente “immediato” neppure in questo caso: semmai, questa eccezione consente di gettare luce sulla particolarità che la formazione iniziale e il reclutamento degli insegnanti primari ha sempre costituito nella normativa per l’accesso alle professioni nel nostro paese. Dalla Legge Organica Casati, la quale inseriva le Scuole Normali nello stesso titolo della Scuola Primaria, di fatto non conferendo ad esse un vero e proprio carattere di secondarietà, al lungo permanere dall’Ottocento in poi del “doppio canale di reclutamento”, alla previsione di un anno di meno per l’Istituto Magistrale rispetto a tutte le formazioni di livello secondario superiore con Gentile, e via elencando: comunque la si guardi, e pur nelle diversissime teorie della scuola e dell’insegnamento, il considerare la formazione dell’insegnante primario come “a parte” rispetto a tutte le altre, e richiedente discipline e fin canali assolutamente speciali, risulta essere un dato che taglia trasversalmente epoche, indirizzi politici, filosofici, pedagogici, figure e personaggi, e quant’altro.
Una delle particolarità assolute della professione docente primaria, con riguardo alla formazione iniziale per essa prevista, sta altresì nel carattere di corrispondenza univoca tra titolo e aspettative di esercizio professionale che la caratterizza. Questa era venuta meno da decenni ormai relativamente al titolo di scuola superiore, ma è tornata in auge con l’istituzione delle “formazione universitaria completa” prevista dal Decreto Delegato n. 417 del 31 maggio 1974 (all’art. 17) e, prima dalle Legge Delega 477/73. La previsione del numero programmato e, di più, la scarsità di iscrizioni che ha reso non necessaria la prova d’ammissione in alcune regioni, tendono a conferire una relativa stabilità al fenomeno.
In questo, la specialità si ravvicina alle corrispondenti specialità di altri corsi di laurea, anch’essi con storie assolutamente a parte, vale a dire quelli dell’area sanitaria, per i quali l’attivazione del numero programmato ha incontrato pesanti intralci da parte di studenti che non ne comprendono la ratio o, se la comprendono, evidentemente si illudono che l’aspettativa sia compatibile con la crescita de-regolata.
Ci si riferisce a lauree quali Medicina e Chirurgia, Medicina Veterinaria, Odontoiatria. Anche in questo caso, il controesempio è e rimane parziale, sia in ordine al carattere di prima fase di una formazione per tutta la vita che caratterizza la formazione iniziale di queste professioni delicate ed altissimamente caratterizzate da evoluzione scientifica e tecnica, sia in ordine ad una corrispondenza univoca tra titolo di laurea e aspettativa di professione, la quale ultima non è compatibile con i disattendimenti e le disapplicazioni della disciplina del numero programmato.
Fra l’altro, va osservato che la Facoltà di Medicina e Chirurgia è quella che prevede, da lungo tempo, i corsi di durata maggiore rispetto a tutti gli altri in Italia: e questo, considerato che essa ha previsto al suo interno sistematiche ed ampie attività di pratica professionalizzante, le cosiddette “Cliniche”, proprio in considerazione del carattere ben definito delle professionalità previste.
Anche per il vecchio Corso di Laurea (quadriennale) in Farmacia, del resto, l’Esame di Stato era poca cosa oltre alla Laurea. Ma anche in esso era previsto prima della laurea un tirocinio obbligatorio a carattere fortemente professionalizzante, e anch’esso molto collimato ad una sola delle professioni cui avvia, cioè quella del Farmacista propriamente detto: sei mesi di pratica in una farmacia, di cui 15 giorni obbligatoriamente in una farmacia ospedaliera. E che la cosa avesse un senso profondo lo si capisce dal confronto con il Corso di Laurea della stessa Facoltà in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche, che era invece quinquennale: anch’esso consentiva di accedere all’Esame di Stato per l’abilitazione alla professione di Farmacista ma, non essendovi previsto questo tirocinio professionale, esso andava tenuto obbligatoriamente (e con qualche problema normativo ed organizzativo) dopo la laurea come condizione necessaria all’accesso a tale esame.
In effetti, e soprattutto, la corrispondenza tra titolo ed esercizio professionale pieno non è biunivoca neppure nei predetti e pur privilegiati casi. Esistono ed esisteranno ancora a lungo medici-chirurgi che esercitano l’odontoiatria; medici-chirurgi che non esercitano l’arte medica se non in via parziale e subordinata, cercando altri sbocchi ad una laurea un tempo non lontano professionalmente “blindata”, e questo fenomeno è assai più accentuato tra i Medici Veterinari che si orientano nel campo dell’industria delle preparazioni alimentari ovvero dell’igiene pubblica, dell’ecologia o del management, e via elencando.
Va aggiunto che la parzialità del controesempio si coglie meglio riflettendo sul fatto che il superamento dell’Esame di Stato, considerato una non cospicua formalità quasi immediata rispetto al conseguimento della laurea, non è sufficiente per accedere a funzioni superiori del campo sanitario. In particolare, la via che porta alle Specialità e alla carriera ospedaliera dopo la Laurea sessennale è ancora lunga, e caratterizzata dalla frequenza delle Scuole di Specializzazione con numeri chiusi rigidi, limitati e indiscussi, e da un pesante e pluriennale Training in quel contesto. Mentre l’accesso ai ruoli universitari, anche per un settore che rimane parzialmente soggetto ad una disciplina ad hoc come quello medico-chirurgico pone a condizione sempre meno derogabile il conseguimento del triennale Dottorato di Ricerca, ancora più selettivo come accessi ed ancora più impegnativo come Training nonché come esclusività che non per altri analoghi settori.
In sostanza, il titolo di studio di laurea non è che condizione quasi sempre necessaria (con previsioni di discipline transitorie di una certa entità) per l’accesso alle professionalità elevate anche nei casi di maggiore collimatezza del Corso di Laurea sulle professioni; e tale collimatezza tende a non essere più così forte come un tempo. L’accesso alle professioni va inteso come mediato, non univoco, richiedente una formazione iniziale specifica, più organicamente connessa con il mondo delle professioni, mentre la laurea si configura come importante formazione iniziale generale, alla lunga necessaria ed inderogabile.
Un ulteriore messaggio particolare ci proviene dalle lauree del settore sanitario, e riguarda le denominazioni adottate. In questi casi, la corrispondenza è forte: quei laureati in Odontoiatria che si abilitano e poi esercitano la professione corrispondente si chiamano appunto Odontoiatri; vale l’analogo, più o meno, per i Medici-Chirurgi e per il Veterinari.
Ma già questo non vale per i laureati in Scienze della Formazione Primaria, che probabilmente a nessuno verrà in mente di chiamare Scienziati della Formazione Primaria. Comunque la si pensi, la denominazione sarà diversa: Maestri, Responsabili di comunità educative infantili e di servizi dell’infanzia, insegnanti, educatori laureati, …
Questa non è una particolarità, in nessun senso: anzi, notiamo che la corrispondenza è forte nelle facoltà del settore delle Naturwissenschaften e del settore di Technik und Technologie. Come per i titoli di laurea sanitari (ed anche per i D.U. del settore), vale l’analogo e l’abbastanza simile per le Ingegneria nei suoi vari indirizzi, per Chimica e Chimica Industriale, Fisica; ed anche per Scienze Biologiche o Scienze Geologiche (ma la professione è quella di Biologo e, rispettivamente, di Geologo; non di “Scienziato in …”), Agraria (“Agronomo”, non certo “Agrario” …). E qui si nota un ampliarsi enorme del ventaglio delle modalità di esercizio di professioni che, pur richiamandosi ad un'unica dizione storicamente pregiata, si differenziano ben di più di quanto non valga per le diverse modalità d’esercizio dell’arte medica. Questo vale anche per una laurea del settore sanitario come Farmacia, per la quale l’abilitazione schiude professionalità diversissime come quella dell’Informatore Scientifico del Farmaco (professione la cui formazione iniziale si è andata differenziando, pur con l’ovvio permanere della matrice comune), del tecnico nell’industria di produzioni chimiche non necessariamente farmaceutiche, del farmacista nel commercio e del farmacista negli ospedali civili o militari, e via elencando. Il richiamo forte che rimane, oltreché ad una qualche ”bandiera”, è alla cultura di base, cioè al livello di Corso di Laurea, sulla quale molti rami (e molto diversi) si possono positivamente (e necessariamente) aprire.
Questo dato di fatto si rende, insieme, più forte e più pacificamente accettato quando si passa a considerare il settore delle Human- Sozial- Geistes- Wirtschafts-wissenschaften. Qui la denominazione delle professioni cui si può ragionevolmente aspirare con il titolo di studio corrispondente si differenzia, evidenziando così il dato di fatto più potente della non immediatezza dell’acceso e della non univocità tra titolo di studio e professione cui esso può dare accesso.
In professioni di plurisecolare tradizione, come quella dell’Avvocato o del Notaio o del Magistrato, nessuno trova alcunché di anomalo nel fatto che la Laurea che costituisce la loro formazione di base generale, e che è per queste carriere condizione necessaria, si chiami Giurisprudenza, come del resto la Facoltà entro la quale il Corso di Laurea si sviluppa. Nel linguaggio comune, il termine è ancora un altro: Legge. Né vi sono obiezioni se, per una professione come quella del Commercialista, la laurea anziché quella “nominalmente assonante” in Economia e Commercio, sia altra affine. E nemmeno, per considerare un Corso di Laurea che ha avuto qualche anno di vita in Facoltà ex di Magistero, se all’Albo dei Pianificatori Territoriali si accede con la laurea che si chiama Politica del Territorio.
La questione nominale, semmai, è la faccia formale della sostanza reciproca, cioè relativa alla non univocità degli sbocchi professionali corrispondenti ad una data laurea: mentre questo è ancora parziale e combattuto nelle Facoltà di cultura sanitaria, od in alcune Facoltà tecniche, si può dare invece per acquisito che solo una parte (minoritaria) dei laureati in Giurisprudenza diventino Avvocati, al termine di un percorso di formazione pluriennale, duro, selettivo, insidioso; e che ancor meno diventino Magistrati o Notai. E così via.
Se, quindi, una prima lezione di fondo si deve ricavare dallo stato delle cose per quanto attiene alle professionalità pedagogiche, esso può essere riassunto come segue:

- si possono individuare una o più grandi suddivisioni per le professionalità superiori alle quali il Corso di Laurea (nella fattispecie, e fino alla riforma dei titoli accademici, in Scienze dell’Educazione) avvia, costituendo per l’accesso ad esse una condizione necessaria (fatto salvo un opportuno regime transitorio) e la formazione iniziale generale;

- la loro individuazione integra canonicamente una formazione iniziale specifica, della durata di qualche anno, costituita da periodi di studio, di tirocinio professionale, di prove selettive ed orientative, da condursi eventualmente solo in parte dentro l’Università, ma essenzialmente da modularsi sul mondo del lavoro e delle professioni;

- per individuare tali professionalità sembrano costituire una buona base le determinazioni del 2° e del 3° indirizzo del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione; questi in nessun caso possono considerarsi professionalizzanti, è invece possibile parlare con molta cautela di “pre-professionalizzazione”, in un certo senso e comunque senza determinismi o pregiudiziali in materia;

- mentre la professionalità prefigurata dal 3° indirizzo non è quella del “formatore” come detto esplicitamente (“esperto in processi di formazione”), non si può pensare a denominare quella prefigurata dal 2° indirizzo come quella dell’”educatore” comunque aggettivata e parafrasata, trattandosi anche in questo caso di un “esperto in”, come vedremo;

- il fatto in sé che il corso di laurea si denomini “Scienze dell’Educazione” e non più “Pedagogia”, e che il suo 2° indirizzo si denomini “Educatori professionali”, non significa assolutamente che il professionista di alto livello cui esso avvia, come formazione iniziale e di base non si debba chiamare “pedagogista”..

Si tratta, per la via prefigurata dal 2° indirizzo, di quella figura del Pedagogista professionale che si va affermando solo in anni recenti nella pubblica amministrazione centrale e periferica, nelle strutture private in convenzione, nella cooperazione, della libera professione, e via elencando.
Notiamo che questa presenza, consistente qualitativamente e quantitativamente, da un lato costituisce il necessario corrispettivo di riscontro esperienziale ad un’opera di ristrutturazione del Corso di Laurea in Pedagogia che, altrimenti, renderebbe vana anche la migliore progettualità accademica; dall’altro, consente quel recupero della classica e tradizionale dizione di Pedagogia e derivati che altrimenti rischiava di perdersi nelle sole ristrettissime cerchie di specialisti accademici, per lasciare il posto alla semplice operatività pratica la quale viene meglio identificata dal termine “educatore”, appunto.
Riguardo a quest’ultimo punto, sembra del tutto avventata ogni pretesa di propagare la dizione adottata per il 2° indirizzo (“educatori professionali”, per lo meno non più con l’arcaica specificazione “extrascolatici”) alla professionalità alla quale esso non può che limitarsi ad avviare. E’ chiaro che non sono “educatori professionali” neppure i laureati, mentre quei laureati che si formano ulteriormente possono tranquillamente ambire alla denominazione di “pedagogisti” (“professionali”, appunto). Invece, sembra più plausibile l’attribuire quella dizione alla propagazione (per linee interne) del nuovo nome del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione che ha preso il posto di quello, appunto, in Pedagogia; e questa ri-denominazione si può accettare nel suo significato di distacco dalla pesante ed inattuale tradizione neo-idealista che lo voleva un corso essenzialmente letterario, cosiddetto “umanistico”, per caratterizzarsi in modo più essenziale come corso pienamente scientifico, nel quale hanno un ruolo maggiore le Scienze dell’Educazione, generalmente intese.


Che cosa cambia con la riforma dei titoli accademici

La riforma dei titoli accademici, quella che va sotto il nome generico di “3 + 2”, può anche ingenerare qualche confusione in altri settori, e nel settore dell’ex Magistero non ha fatto altro che rendere ancora più difficoltosa la vita e l’opera di aggiornamento di una Facoltà che, già debole in partenza e in qualche modo collocata come Facoltà “particolare”, nel senso di essenzialmente vocata alla scuola fin dall’origine, ha incontrato troppi cambiamenti, troppo profondi e troppo frenetici, nel breve volgere di una decina d’anni scarsi.
Riconosciuto tanto, riesce immediato notare come questa riforma sistemi definitivamente e senza alcuna necessità di ulteriore mediazione.la professione di Pedagogista con quella di altre professioni “cugine” anche come cultura di riferimento: essa avrà come formazione iniziale la Laurea Specialistica (3 + 2) come tutte le Professioni più elevate, come quelle che si sono citate del Medico Chirurgo, dell’Odontoiatra, del Medico Veterinario, del Farmacista, dell’Avvocato, del Commercialista, e le tante altre che si potrebbero elencare; mentre al primo livello (laurea triennale) si colloca propriamente la formazione iniziale dell’Educatore professionale; ed anche di quella figura che si prevede nelle Facoltà Umanistiche in alternativa a questa, che ha avuto una sua formazione triennale nelle Facoltà di Medicina e Chirurgia, dell’Educatore Sociale.
Vale l’analogo per l’Educatore motorio, o per le tante professioni sanitarie non mediche: Logopedista, Ortottista, Fisioterapista, Tecnico di radiologia, …
Qualche problema si pone nel pregresso, per quanti abbiano conseguito la Laurea quadriennale vecchio ordinamento in Scienze dell’Educazione od in Pedagogia: sia nel senso che va prevista una formazione ulteriore maggiore che non per i laureati specialistici secondo il nuovo ordinamento per accedere alla professione di Pedagogista, sia nel senso che deve essere prevista la possibilità anche per essi di ripiegare verso le professioni di Educatore.
Il problema, ad entrambi i riguardi, coinvolge la riconversione delle prove superate in termini di Crediti Formativi Universitari, e l’afferenza di una parte di essi ad alcune aree caratterizzati: ad esempio, perché possa partecipare a concorsi per Educatore Professionale nel settore sanitario, il candidato laureato (quadriennale, come anche triennale) delle Facoltà umanistiche deve avere nel suo curriculum almeno 35 CFU di area sanitaria.


Il Pedagogista come “figura di mezzo” nell’esercizio della sua professionalità

Quando si parla dei livelli nei quali individuare lo svolgersi della Pedagogia, si rischia di ripetere una delle tante forme del riduzionismo filosofico cui, storicamente, essa si è esposta spesso: una riproposizione, in qualche forma, del dualismo Teoria-Prassi, nato e cresciuto in ambito filosofico.
Non si discute qui delle sue valenze in quell’ambito né dei suoi limiti in assoluto: si intende rimarcare come esso sia evidentemente inadeguato quando esso venga applicato alla Pedagogia.
E’ possibile individuare anche in Pedagogia il piano della Teoria, e il piano della Prassi: ma non in modo tale che essi ne esauriscano il dominio, o per lo meno non per come si intende l’educazione da decenni, e per come essa si va evolvendo nella transizione corrente.
I Pedagogisti accademici si attribuiscono questa qualifica, e tra di essi è altamente sviluppato il piano della Teoria. Qualcuno parla di “teoretica”, altro termine tipicamente filosofico, probabilmente adatto ad indicare uno studio di Filosofia dell’Educazione nel quale il tenore di Filosofia prevalga in modo netto e preponderante rispetto agli altri componenti di quel discorso composito che è sempre quello pedagogico.
Se rimaniamo sul piano della Teoria, vi è collocabile l’esercizio di tutta una serie di altri studiosi e proponenti anche di diversa posizione professionale. Pensiamo, ad esempio, a quei Manager delle grandi aziende che traccino le grandi linee della formazione professionale, del reclutamento, delle relazioni interne, oppure dell’immagine culturale dell’azienda, della sua storia, della sua archivistica, od anche della gestione della risorsa-uomo. Oppure a dirigenti pubblici (ministeriali, degli enti locali, della sanità,…) i quali rivestano le funzioni di indirizzo pedagogico generale rispetto ad un progetto politico dato. O a responsabili della Formazione (in senso lato) in grandi agenzie, dal cui teorizzare scaturiscano poi atti educativi conseguenti. Oppure ad intellettuali la cui creatività ha influenze dirette nel campo educativo, o che si rivolgano direttamente a problematiche educative da un punto di vista più generale. Insomma, vi si possono collocare ampie tipologie di soggetti: quanti, potremmo dire, lavorino ad elaborare visioni generali dell’educazione che siano suscettibili di una ricaduta non immediata in materia di atto educativo.
Cogliere il piano della Prassi è altrettanto immediato, e anche qui vi è una certa elaborazione da compiere rispetto alla prima impressione. Il termine “educatore” designa, anche nel linguaggio comune, chiunque educhi. In una prima istanza, esso è applicabile indipendentemente dal retroterra culturale generale o specifico, dalla progettualità, e fin dall’intenzionalità dell’atto; potremmo dire che “educatori” siamo tutti, per il fatto di essere persone umane, cioè sedi di valori, e soggetti di relazionalità interpersonale.
Su questo piano possiamo collocare anche quanti, tra i pratici, esercitino la funzione con consapevolezza, secondo un piano (non necessariamente elaborato da loro stessi) e con qualche fondamento culturale, all’interno di una prestazione d’opera lavorativa o volontaristica, comunque in qualche modo strutturata. In questo caso, si può applicare al sostantivo una qualche aggettivazione, o qualificazione perifrastica. Qualcuno parla di operatori professionali diplomati, ammesso che siano in possesso di un titolo specifico di diploma : è un discorso che si assesta in modo diretto, come abbiamo appena visto, con le riforme dei titoli accademici, ma anche con quella dei titoli scolastici.
Il mondo della Prassi educativa è vario e consistente: il mondo delle diverse tipologie di animatori, degli aî, dei precettori, degli istitutori, dei governatori, degli assistenti di comunità o di convitto, dei prefetti e sorveglianti, e via elencando. In linea di massima, si tratta di soggetti che si possono chiamare generalmente educatori, od Erziehrer (in alcuni casi, anche Lehrer o Jugendlehrer). Come formazione iniziale, non è detto neppure che si richieda necessariamente un diploma specifico, anzi neppure un titolo di scuola superiore. In qualche caso, vi sono stati dei corsi privati, o locali, che hanno avuto l’intendimento di accreditarsi della supplenza in materia.
Qui va operata una distinzione di principio tra l’operare generale (e generico) in campo educativo od “Erziehung”, ed un operare sul piano della prassi educativa sulla base di un ben preciso riferimento teorico e generale, secondo una progettualità saldamente ed esplicitamente fondata, e nella consapevolezza piena del tutto. Il che richiede una formazione iniziale ulteriore: un Diploma di Laurea fino ad anni recenti, oggi la nuova Laurea triennale.
Un termine per indicare questo modo di operare in campo educativo diverso e più evoluto non esiste in lingua italiana, mentre esiste in lingua tedesca ed è “Pädagogie”. Chi opera in tal senso si chiama Pädagoger, e questo termine è traducibile in italiano con il termine arcaico, e che forse sarà bene riportare in uso ed in vigore, di Pedagogo . E’ il termine più adatto, allo stato, a designare un educatore qualificato, di livello intermedio tra l’Educatore e il Pedagogista.
E’ stato certo un errore far uscire il termine “Pedagogia” e derivati dalla nomenclatura dei titoli e degli indirizzi accademici, anche se ne possiamo apprezzare alcune motivazioni. Probabilmente, il titolo di “educatore professionale” qualificato accademicamente potrà attribuirsi a coloro che conseguiranno il titolo di triennio di base in materia; od anche i semplici laureati in Scienze dell’Educazione quadriennale, senza ulteriori qualificazioni; ma la cosa non sarà né facile né immediata. Mentre invece il titolo cui può aspirare chi ha acquisito il titolo accademico di secondo livello, la Laurea Specialistica, con la previsione altresì di requisiti ulteriori, potrà chiamarsi “pedagogista”, eventualmente con alcune specificazioni più fini (“professionale”, “sociale”, “clinico”, …).
Uno dei problemi di fondo della Prassi odierna in materia educativa è costituito dal tanto operare che attualmente non ha un quadro teorico e progettuale di riferimento, né un’adeguata qualificazione degli educatori: ciò, anche per cause che ancora rimandano al Neo-idealismo italiano, e al suo rifiuto di considerare scientificamente e tecnicamente la dimensione educativa, come quella didattica. Va fatta compiere, in altre parole, la transizione dalla Erziehung alla Pädagogie, e dall’Erzieher al Pädagoger, per tutta la parte per la quale ciò è necessario ed opportuno, cioè per una parte crescente e sempre più rilevante della realtà educativa.
Basterebbero considerazioni come queste a gettare luce sull’esistenza e sull’importanza essenziale della dimensione intermedia della Pedagogia.
Basterebbe riflettere sulla distanza che vi è tra la Teoria e la Prassi nello specifico dell’educazione, senza lasciare spazio ad illusioni (oltre a tutto, infondate in linea di principio) che questo spazio si colmi da solo.
Basterebbe riflettere sull’opera da svolgersi proprio perché si compia la descritta transizione, la quale non avviene certo per “virtù propria” del mondo della Prassi, né per devoluzione del mondo della Teoria su quello della Prassi. Brevi corsetti di qualificazione nel contesto del servizio, anche tenuti in convenzione con l’Università, servono più a coprire un problema esistente di un’illusoria cortina fumogena, e a consentire promozioni senza corrispettivi reali di personale che rimane qualificato solo sulla carta, che non a qualificare la politica di istituzioni socio-sanitarie in materia educativa.
La Pedagogia non si esaurisce nel chiuso dualismo Teoria-Prassi, ma si qualifica nella sua autonomia propria con la presenza di una dimensione di mezzo, di un piano intermedio, che consente la comunicazione e l’integrazione reciproca di Teoria e Prassi per farne qualche cosa d’altro e di sostanzialmente differente. La Pedagogia Italiana ha larga consapevolezza di questo, e dei pericoli del riduzionismo in un senso o nell’altro .
Dieter Benner, studioso di Systematische Pädagogik, scandisce “der drei möglichen Bedeutungen” della Pedagogia Sistematica in “Theorie, Empirie und Praxis” . Più che non di empiria od Empirie, andrebbe impiegato in italiano quel neologismo che è Applicatività, e che si potrebbe rendere parzialmente (per quel che è possibile) con Anwendungsmöglichkeit. Non è, comunque, applicabilità o Anwendbarkeit. Non si tratta neppure di una “sintesi” hegeliana, semmai è il piano della dialettica continua tra Teoria e Prassi, secondo teorie francofortesi .
La questione terminologica ha un peso notevole, se si considera il permanere in campo pedagogico di locuzioni di pertinenza strettamente filosofica, e che hanno il loro tenore di improprietà specifica e di fraintendimento, come ad esempio quella di “scienza pratica” che viene ancora oggi riferita non di rado alla Pedagogia .
Ma ancora una riflessione si impone, per quel che riguarda le modalità di relazionamento tra il piano della Teoria generale, e il piano della Prassi e della operatività, in educazione.
Una tendenziale soppressione del piano della mediazione pedagogica non è impossibile: è, piuttosto, inaccettabile. Inaccettabile in quanto integra un progetto totalitario, integralista, umanamente incongruo. Un progetto nel quale esistono, da un lato, una ristretta cerchia di consiglieri del Principe che dettano dall’alto le linee di quella che finisce comunque per essere una Kommandierte Pädagogik, e, dall’altro, un esercito di pratici esecutori che rispondono direttamente all’autorità centrale e che, sprovvisti di vera professionalità ma carichi di onori e di rispetto formale, assicurano la puntuale e fedele attuazione di quanto disposto.
Non è un caso se la Pedagogia è assente in simili domini, sostituita dalla Filosofia in alto e della pratica esperienza in basso. La negazione della Pedagogia si coniuga bene con la negazione della democrazia, con la negazione della scienza, con la negazione della professionalità. Gentile non è stato l’unico maestro in tal senso: il problema si ripropone più e più volte, anche attualmente, sotto diverse forme.


Alcuni elementi di fondo nell’esercizio professionale del Pedagogista

Il ri-emergere della Pedagogia come professione superiore ed il suo ri-collocarsi come piano d’esercizio, pur innestandosi sul tronco di un sapere antico, richiede elementi dottrinali, metodologici, un lessico, un complesso di procedure, e quant’altro da tempo possiedono altre professionalità, che siano compatibili con la sua origine e la sua storia. Ne prenderemo qui di seguito in rassegna una serie largamente rappresentativa, sia come “stato dell’arte”, che come propositività, che come apertura agli sviluppi e all’esperienza futuri.
La tecnica dell’Interlocuzione Pedagogica, nella quale si sviluppano gli elementi che seguiranno, è stata proposta, elaborata e sperimentata come risorsa per l’esercizio delle professionalità pedagogiche avanzate, come detto in premessa . Al di là dell’effettivo ricorso ad essa nell’esercizio professionale, essa si offre come terreno di coltura e come ambito di proposta fondata di strumenti concettuali ed operativi per qualunque forma d’esercizio professionale del Pedagogista.
Si è altresì premesso che eventuali sovrapposizioni dell’esercizio delle professioni anzidette nel pedagogico e nell’educativo sono da considerarsi indebite ed improprie, comprensibili solo come esercizio di una supplenza provvisoria là dove la figura specifica non esista, e che dimostrano di fatto la necessità e l’urgenza del suo inserimento.
Come detto, la storia della Pedagogia occidentale affonda le sue radici saldamente fino alle origini della civiltà occidentale, di cui è parte integrante. Per la Pedagogia professionale, l’esercizio ha avuto origine con i Sofisti, mentre la dottrina con Socrate.
A quelle fonti antiche attingiamo i componenti primi anche per la pratica operatività d’esercizio: il dialogo, la cittadinanza come socialità e come partecipazione attiva alla vita politica (politeia), l’ironia e la maieutica, le regole della logica, la retorica, il gnvqi seauton o nosce te ipsum, con il senso delle proprie potenzialità e dei propri limiti, e la condanna della ubriV, e via elencando, considerandovi anche quanto ci hanno apportato Platone ed Aristotele oltre a Socrate e ai Sofisti, in originale e liberati di certi platonismi e certi aristotelismi. Il che spiega, tra l’altro, come mai noi studiamo la nostra Storia assieme a quella della Filosofia, o alla Storia Umana, come materie fondamentali nella nostra formazione iniziale.
L'I.P. può considerarsi l'erede legittima del dialogo socratico, ed in particolare dei sue due momenti qualificanti: vale a dire l'ironia, cioè quella che oggi chiameremmo confutazione, con termine epistemologico, di idee sbagliate e improponibili; e la maieutica, il far emergere al piano esplicito quanto è sempre stato dentro i due interlocutori ma è rimasto implicito, sottinteso, mai discusso.


La relazione d’aiuto

Cominciamo con l’osservare come, nella gran parte dell’esercizio della professione del Pedagogista, ciò che si pone in essere è un caso particolare di quella che si chiama, propriamente, relazione d’aiuto.
Questa locuzione, come noto, ha avuto origine nel contesto della Psicologia Clinica e della Psico-sociologia , ed è stata poi mutuata separatamente dagli Assistenti Sociali e dai Pedagogisti, e da alcuni Didatti.
Essa sta ad indicare una alternativa esclusiva alla relazione terapeutica.
Si dà una relazione terapeutica quando si possa presupporre una Fisiologia, e vi sia un’alterazione di alcuni suoi aspetti che imponga (o anche solo richieda) un intervento per il suo ristabilimento. Anche in Diritto, esiste una profonda analogia metodologica, con la Giurisprudenza e la positività delle leggi che tiene il posto della Fisiologia, e l’intervento del Terzo Potere per ristabilire la legalità quando venga violata. L’Assistente Sociale non di rado è chiamato in interventi metodologicamente analoghi, e sono quelli nei quali agisce in modo più rispondente al participio presente del verbo “assistere”.
Ma esistono casi differenti per l’Assistente Sociale, come per il Pedagogista. La relazione d’aiuto si attiva nei casi nei quali si escluda il riferimento ad una “fisiologia”, normalità o legalità, la violazione dalla quale integri una patologia o una devianza o una illegalità trasferibilmente tali, ma non per questo si sminuisca la rilevanza della prestazione professionale per il soggetto che deve compiere le proprie scelte.
Tale soggetto prende la denominazione di “utente” per l’Assistente Sociale (quando non è, propriamente, un “assistito”), e di “interlocutore” per il Pedagogista professionale. Ne è di particolare rilievo l’applicazione nel settore socio-sanitario, dove appunto gli apporti di entrambi i professionisti sono sempre maggiormente richiesti ed incisivi, senza per questo confondersi con le relazioni terapeutiche, come quelle che si instaurano ad esempio con il medico, con lo psicologo, con altri professionisti terapisti non medici.
Nella relazione d’aiuto non si può parlare di una Prassi esercitata dal professionista sull’utente-interlocutore, quanto piuttosto di una Prassi che il soggetto è aiutato ad esercitare su di sé stesso. La Teoria è presente al professionista, ed è parte integrante della sua professionalità: ma l’esercizio va a collocarsi sul piano intermedio tra quello della Teoria e quello della Prassi, il piano dell’applicatività.
La continua spola che il Pedagogista è chiamato a fare dal suo piano tra quelli della Teoria e della Prassi è nei due versi: in modo di qualificare scientificamente e democraticamente la Teoria mediante i Feedback positivi e negativi che provengono dalla Prassi, e di rendere il piano della Prassi e chi vi opera (cioè il suo interlocutore, come l’allievo, lo studente) quanto più pienamente partecipe della Teoria e della sua evoluzione.
Vi è, in questo, un principio antropologico fondamentale: la condizione di comunicabilità della Teoria con la Prassi e viceversa sta nella persona umana del Pedagogista.
La mediazione pedagogica si esercita tra dualismi noti come quelli che corrispondono al dualismo filosofico Teoria-Prassi (dover essere - essere; prescrivere - descrivere; filosofia - storia; pensare - fare; …); o quelli, più vicini all’esercizio professionale che si è esperito, che vedono da un lato i concetti di merito o colpa e dall’altro il concetto di responsabilità; od ancora, tra quelli che vedono da un lato i concetti di fisiologia e legalità e dall’altro il concetto di scelta; e via elencando (norma-situazione, caso generale - caso particolare, decontestualizzazione-contestualizzazione, …). Il pedagogico si gioca nella mediazione.
Per portare tre esempi differenti con il medesimo messaggio: nell’educazione sanitaria, nell’educazione sessuale, nell’educazione stradale, questa mediazione si gioca nell’irrisolta tensione continua tra la normatività dell’etica, della medicina, dei codici, da un lato, e l’idiograficità dei comportamenti umani, dall’altro.


Interlocuzione sul piano culturale, e sue condizioni

La relazione d’aiuto del Pedagogista professionale è una forma di intervento dialogico. Essa può essere scambiata, ad uno sguardo superficiale, con certi interventi psicologici: ma si tratta di una cosa molto differente: di una interlocuzione educativa che si svolge sempre e comunque sul piano culturale, in ordine a dimensioni essenziali dell’uomo come soggetto di cultura, di storia, di evoluzione culturale, quali ad esempio

· il progetto di vita,
· la relazionalità intersoggettiva,
· la coerenza logica e metodologica,
· l'evolvere,
· il propiziare il divenire,
· l'educare all'attività,

e via elencando, per linee note a chi si occupa di Pedagogia. Sono elementi sviluppabili a partire dalla più che bi-millenaria Storia della Pedagogia, tenendo conto del suo Trend evolutivo nella transizione degli ultimi decenni.
Piero Bertolini, ad esempio, indica come criteri comuni per ogni figura pedagogica quelli di “Globalità, operatività, relazionalità, integrazione tra individuo e società” . Erich Fromm parla, nel suo contesto, di “attitudine umanistica [...], ossia che ogni persona porti dentro sé stessa tutta l'umanità.” .
Classicamente, potremmo risalire almeno a Terenzio: “Homo sum: nihil humani a me alienum puto” .
Come relazione dialogica, essa ha carattere esplicito: per questi e per altri motivi di fondo e di metodo, si distingue dal contributo di uno psicoterapeuta, di un operatore sociale, di un giurista, anche se può talvolta assomigliarvi come forma. Il Pedagogista offre un contributo, il suo, di dialogo critico: ad esempio, condivide riflessioni e comunicazioni od esprime non condivisione (e la motiva), contribuisce a che non siano perdute di vista la realtà e la concretezza, stimola il confronto con l'esterno di ciò che emerge dall'interno, favorisce le relazionalità, la comunicazione e l'ascolto, un atteggiamento interrogativo e prospettico. In particolare guida ad affrontare positivamente e costruttivamente le situazioni di difficoltà.
Il dialogo, come del resto l’educazione quale oggi la si intende, è sempre bi-direzionale (o pluri-direzionale, quando siano più di uno i soggetti che chiedono l’aiuto del Pedagogista, o quando egli ritenga di coinvolgervi altre persone, e vi riesca), compreso il Pedagogista.
Parte di questo dialogo è lui stesso. Ciò significa che il Pedagogista, per il fatto stesso che esercita il suo intervento (educativo), è anche e contestualmente educato. Facciamo questo mestiere, anche perché sappiamo bene di essere tutti educatori e tutti educandi: e siamo educatori per il fatto stesso di essere educandi, esattamente come ,viceversa, siamo educandi per il fatto stesso che siamo educatori.Si deve trattare di un dialogo esplicito, nel quale il Pedagogista mette chiaramente in discussione le proprie tesi e le proprie posizioni, come chiede di fare all’interlocutore, trattandole tutte per quelle che sono cioè per delle posizioni personali. Non è praticabile l’interlocuzione se qualcuno pretende di presentare le proprie posizioni come se fossero “di tutti” o, ad esempio, “tradizionali”, “sempre esistite”, “naturali”, che è quanto si faceva nei due secoli trascorsi per posizioni storicamente determinate ma da passarsi per indiscutibili: cioè, quando il Pedagogista aveva funzioni enormemente più limitate.
Perché un’interlocuzione possa essere attivata, è necessario presupporre negli interlocutori quella prerogativa che si può chiamare apertura, vale a dire la disponibilità piena e senza riserve a cambiare, a divenire e al divenire evolutivo; a rimettersi sempre in discussione come idee di fondo e come progetto di vita, a ripensare le proprie scelte, specie quelle fondamentali; a rimettere in discussione anche le cose considerate e prese come le più fisse, a cominciare da sé stesso; un convincimento profondo del valore del pluralismo e della divergenza. Di fronte ad un interlocutore che, in un modo o nell’altro, si rifiutasse di aprirsi per parti rilevanti del dialogo, il Pedagogista in linea di principio non potrebbe far nulla: in pratica, qualche cosa può fare per via indiretta, o come ricerca di spiragli d’apertura là dove sembri non esservene.
Si comprende che il Pedagogista stesso deve per primo dimostrare apertura, e testimoniarne la positività umana Sono sempre e comunque le idee per l’uomo (tutte), il viceversa non essendo accettabile nella Pedagogia d’oggi.


Intervento clinico, e non terapeutico, sul progetto di vita

L’interlocuzione va, in genere, incentrata sul “progetto di vita”, che c’è sempre, in qualunque persona umana. Certo, esso non deve essere rigidamente immutabile, e tante difficoltà nascono proprio quando il soggetto rimanga chiuso in esso, e incatenato ad esso, indipendentemente dalle sue contraddizioni od interne (ad esempio logiche) od esterne (ad esempio confutate dalla realtà dei fatti).
A parte questo, spesso vi sono in esso degli aspetti impliciti, o hidden, che come tali non evidenziano la contraddittorietà con la realtà o con i progetti di vita degli altri soggetti vicini, anche quando tale contraddittorietà sarebbe evidente. La coerenza, o comunque la compatibilità, tra progetti di vita dei contraenti qualunque sodalizio umano deve essere considerata condizione necessaria: vale per la coppia, la famiglia, la scuola, la formazione, l’associazionismo, la cooperazione, e via elencando.
Il Pedagogista ha un compito importante nell’esplicitare ciò che è implicito, cioè nel cambiare le attribuzioni e le proprietà di una sorta di hidden File. Si tratta di far emergere quegli aspetti di ogni singolo progetto di vita, spesso in tutto od in parte occulti o sottintesi, che collidono con la realtà o con i progetti di vita di altre persone vicine (es., tra Partner; tra genitori e figli, …).
Il progetto di vita è un fatto personale che diviene dialogico, per lo meno, nella ricerca di equilibrio tra sé e l'ambiente, tra “dentro” e “fuori”, tra “io” e “altro”,… Esso va inteso in senso dinamico: un po' come, a scuola, la programmazione rispetto al programma. Va prestata la massima attenzione nel distinguere ciò che è conscio, seppur sottinteso, non discusso, non affrontato, sottaciuto e che è competenza del Pedagogista, da ciò che è inconscio ed è per ciò stesso competenza di altre professionalità. Il Pedagogista opera nel conscio, e specialmente su quegli aspetti del progetto di vita i quali, pur consci, non vengono fatti oggetto di riflessione, di critica, di dialogo, di confronto e di negoziazione, in quanto dati per ovvii, scontati, sottintesi, pacificamente e tacitamente accettati da tutti.
Nelle problematiche familiari spesso si incontrano progetti di vita mai colti dai contraenti nella loro divergenza proprio in quanto nessuno di essi ha mai ritenuto di esplicitarli e metterli in discussione, dando per scontata la convergenza dell’altro: ma questo può avvenire (ed avviene) in tutti i sodalizi umani.
Un equivoco che non deve mai sussistere, e che si deve prevenire con ogni attenzione, riguarda il carattere culturale dell’interlocuzione pedagogica comunque intesa. L’intervento del Pedagogista non è mai una terapia, e il Pedagogista non va confuso in alcun modo con un terapeuta.
Quello che può fare il Pedagogista in alcuni casi è, semmai, essere di aiuto alla terapie: il che, per quanto osserveremo, è un aiuto al terapeuta propriamente detto, oppure a chi si deve accostare al terapeuta o deve seguire una terapia (non si deve parlare di proprio “paziente” neppure in questo caso). Tipici i casi del depresso che ha bisogno di un intervento culturale per accostarsi razionalmente a quella che non è altro che una malattia come un’altra; del ritorno alla vita quotidiana e ad ogni forma di relazionalità dopo interventi o patologie invalidanti; dell’opera di prevenzione in casi di situazioni potenzialmente patologiche da tenersi sotto controllo (ad esempio il diabete; o malattie che richiedono diete e regimi di vita particolari); della non piena fruizione del servizio sanitario fornito dal Ginecologo o dall’Andrologo, neppure nei casi nei quali esso potesse rendersi necessario, per ragioni di pregiudizi culturali; e via elencando.
Talvolta, si tratta di aiuto ad un congiunto, ad un familiare, ad una persona vicina ad un soggetto che ha difficoltà d’ordine sanitario o terapeutico, e che non sa né come deve aiutare quella persona sofferente, né come deve reimpostare il proprio equilibrio di vita di conseguenza.
Sono, questi ultimi, i casi nei quali il Pedagogista agisce largamente come un Didatta: casi nei quali egli può più facilmente mostrarsi come un uomo di studio e di cultura, lontano da ogni stereotipo del terapeuta, anche se opera in una struttura sanitaria od a latere di essa.
E' invece possibile, e legittimo, parlare di “clinica” e derivati, compreso l’aggettivo “clinico” che, a volte, designa una particolare figura del Pedagogista professionale. Nell'impiego di questo aggettivo, e del sostantivo corrispondente, si può ravvisare anche un lontano significato di tipo etimologico. In quel greco classico che era impiegato anche da Ippocrate e da Galeno, klinikoV era aggettivo riferito all'intervento sul lettuccio (kline) dove si trovava il paziente; come dire, un intervento propriamente “in situazione”. Nel dialogo educativo ricorrono evidentemente taluni elementi di metodo presenti proprio nel campo clinico : ad esempio il realismo, l'attenzione per il destinatario, la problematicità, la relazionalità diretta, la professionalità, la presenza della dottrina, la possibilità di considerare ogni forma di variabilità individuale, e la reciproca esclusione delle tipizzazioni “medie”, le quali ultime invece intervengono in procedimenti, anche pedagogici, di tipo statistico.
In effetti, a quest'ultimo riguardo, la statistica operazionale e la casistica clinica costituiscono due polarità opposte nella metodologia delle discipline umane, da quelle sanitarie a quelle educative, da quelle sociali a quelle psicologiche, e via elencando. Nell'un caso si tende alle tipizzazioni medie e generali. Nel secondo i casi particolari, con le loro prerogative uniche e le loro irripetibilità, irriducibilità, variabilità individuali, si riconducono a determinati ordini di casi generali, noti e studiati, per il tramite necessario del professionista con la sua competenza, perizia, cultura. Quest’ultimo processo richiama direttamente il procedimento logico che è stato studiato da Peirce sotto il nome di “abduzione”.


Le visioni in gioco

Nel dialogo, ciascuno dei due (o più) interlocutori, compreso il Pedagogista, mette in gioco quelle che potremmo chiamare le proprie visioni. Il termine però indica almeno due concetti differenti, per i quali si possono proporre, come termini tecnici, due sostantivi tedeschi.
Una cosa sono le Einsichten, cioè quelle “visioni” che sono presupposte all’esperienza e il cui possesso consente che l’esperienza abbia luogo. Queste non sono empiriche, ma precedono l’empiria, non potendosi più riproporre l’equivoco positivistico dell’“esperienza pura”. Sono strumenti concettuali auto-evidenti ed inconfutabili ma insieme necessari per il processo educativo (gli uomini sono uguali, cercare il meglio, evolvere, relazionarsi,...) .
Dalla Psicanalisi si può mutuare, a questo riguardo, la concettualità degli Archetipi.
Sono Einsichten, ancora, le immagini del maschile e del femminile che così fortemente hanno impregnato di loro stesse la cultura dei due-tre secoli trascorsi: il maschile come proiezione esterna, veloce, tendente al conseguimento subitaneo del risultato, su terreno altrui, e anche con sacrificio dell’altro; il femminile come proiezione interna, comprensiva, tendente al conseguimento del risultato a tempi lunghi, nel proprio terreno, anche con proprio sacrificio. Visioni che hanno una metafora nella Fisiologia degli apparati riproduttivi e in questo senso precedono l’esperienza specifica, ma che non hanno nulla a che vedere con i maschi e con le femmine reali come soggetti di cultura, se non per un’educazione a ciò mirata.
Altra cosa, quanto a ciò che chiameremmo sempre “visioni”, sono le visioni generali della realtà oggetto di studio e, nella fattispecie, di interlocuzione pedagogica. Quelle si chiamano Anschauungen. Viene da pensare alla Welt-anschauung, probabilmente il termine composto più noto e diffuso tra quelli che vi si possono formare; tuttavia, quest’ultimo designa più propriamente una visione filosofica, od ideologica, dell’universo mondo. A noi invece interessano piuttosto delle visioni dell’umanità, dell’essere uomo, delle caratteristiche intrinseche dell’uomo i quanto tale, che composto si renderebbe con Mensch-heit-anschauungen.
Tipico l’esempio, nei rapporti di coppia, del confronto tra Anschauungen diverse tra uno dei Partner che intende una vita di impegno esterno nel lavoro, nella cultura, nell’arte, nello sport e quant’altro, e l’altro che la intende come impegno interno nella casa, nella stabilità del rapporto e nei figli: questa diversità aveva una sua composizione canonica nella coppia nucleare, attraverso un’asimmetria di ruolo con divisione dei compiti rigida, indiscutibile, ed imposta da un’educazione a ciò mirata, la quale la passava come fosse “naturale”; oggi vanno ricercate altre possibili soluzioni, e questo è un impegno tipicamente pedagogico-professionale.
Queste, a differenza sostanziale dalle precedenti, sono risultato anche di esperienza, ed anzi continuamente rivedibili e evolvibili alla luce dell’esperienza come di qualunque altra attività umana.
Ciò che qui più conta, delle une e delle altre “visioni”, è che ciascuno degli interlocutori (Pedagogista compreso) apporti le proprie, e che esse divengano oggetto di interlocuzione oltreché condizioni necessarie per essa. Per meglio dire, condizioni necessarie sono l’esplicitazione piena e senza riserve delle une e delle altre visioni, e la disponibilità a metterle in discussione in modo aperto, altrettanto pieno e senza riserve.


Destinatario dell’esercizio del Pedagogista è la persona

Destinatario dell’aiuto pedagogico è il soggetto umano, inteso come soggetto di storia e di cultura, come sede di valori (non estrinseci, quindi), e nodo di comunicazione interpersonale complessa: vale a dire, con termine tecnico rigoroso, la persona. Il termine, di origine latina, è entrato nella Filosofia e nelle discipline dell’uomo nel secolo scorso: esso ha avuto un successo maggiore nell’ambito della Filosofia e della Pedagogia cattolica, ma da tempo è all’attenzione di pedagogisti laici.
Si può impiegare, alternativamente, il termine individuo quando s’intenda parlare dell’elemento di una popolazione avendo attenzione prioritaria per la popolazione; ma il Pedagogista esercita sull’interlocutore.
L’attenzione è richiesta soprattutto quando si parla di un “aiuto”, ad esempio, “alla famiglia”, “alla scuola”, “all’azienda”, “al sodalizio”, “alla società sportiva”, “alla coppia”, … Il pedagogista aiuta le singole persone, o le persone in gruppo, anche quando l’aiuto è riferito al loro essere all’interno di questi od altri sodalizi umani aventi rilevanza pedagogica. Si tratta, quindi, di una sineddoche: il tutto per le sue parti. Quando un Pedagogista è investito di un aiuto, poniamo, “alla coppia”, egli aiuta in realtà il sig. Mario e la sig.ra Maria ad affrontare problemi di ciascuno relativi al loro essere coppia, al loro relazionarsi reciprocamente in coppia.
Anche qui, il discorso è tutt’altro che puramente nominalistico: bisogna sempre chiedersi quale sia la persona che s’intende aiutare. Ad esempio (e sono casi frequenti e dei quali si ha ampia esperienza): quando si avvia una relazione di aiuto per un caso di coppia, è ben altro il discorso se si aiuta l’uno o l’altro Partner, e questo perfino entrambi hanno interpellato il Pedagogista; in un caso di genitorialità, è ben diverso il discorso se si è chiamati ad aiutare i genitori (o uno dei genitori) ovvero il figlio. I due Partner non sono caratterizzati dal medesimo insediamento umano e sociale, e lo stesso dicasi di genitori e figli. Le situazioni problematiche, in casi come questi, potrebbero essere le stesse e non esserle: ma questo non può dirsi per i problemi, e comunque non per la particolare relazione d’aiuto da attivarsi.


La dimensione metodologica, le risposte di metodo e non di merito

Chi chiede l’aiuto del Pedagogista può asserire di avere un “problema” dando a questo una valenza negativa. Un buon nucleo del lavoro del Pedagogista sta nell’aiutare l’interlocutore ad operare la transizione tra situazioni problematiche e problemi. Ogni vivente, come tale, è inseparabile dall'ambiente, con il quale ha uno scambio continuo ed insopprimibile di materia, energia ed informazione; e questo vale a più forte ragione sul piano culturale, cioè tra uomo e società. L'ambiente non è programmato per qualsiasi compatibilità con chi in esso insiste; per cui è perfettamente fisiologico che vi siano continue occasioni di crisi, discrepanza, squilibrio, contrasto, contraddizione, conflitto. Mentre tutti i viventi subiscono tali vicissitudini, l'uomo come soggetto di cultura e d'educazione è capace di viverle positivamente, costruttivamente, facendosene occasione e spinta di storia e d'evoluzione culturale.
Chiameremo le prime “situazioni problematiche”, mentre solo quelle di esse di fronte alle quali l'uomo assuma un atteggiamento costruttivo, positivo, si chiamano propriamente “problemi”, e sono aliquote limitatissime. Le situazioni problematiche sono nelle cose, mentre è l'uomo a porre i problemi. Il Pedagogista opererà per favorire questa transizione, cercando di renderne insieme la proficuità per l’evoluzione umana. Molto spesso, il problema è differente ed apparentemente distante dalla situazione problematica per la quale l’interlocutore si è rivolto al Pedagogista: tipico è il caso del genitore che gli si rivolge per problemi dei figli o con i figli, quando il problema è nel rapporto con l’altro genitore.
Il Pedagogista, in ogni caso, non ha soluzioni da offrire, ma ha il compito di aiutare l’interlocutore a cercarne di proprie. Non ha nessun tipo di risposte di merito da offrire, e non ne offre, salvo che riferendosi, eventualmente, in via strumentale a quanto è fuori del suo specifico: piuttosto, egli aiuta l’interlocutore anche a cercarsi le sue proprie e personali risposte di merito. Egli risponde, invece, a domande di metodo.
Si ritrova qui come il Pedagogista sia anche, ma essenzialmente, un metodologo.
Egli ha il compito di dialogare fino a che si giunga a degli imperativi ipotetici, con l’ipotesi nell’interlocutore (se vuoi... allora...), i quali abbiano il requisito necessario della controllabilità empirica. Ciò discende altresì dal fatto che non siamo terapeuti, né giuristi, e neppure sociologi quantitativi: per noi non esiste lo stato di normalità comunque considerato: né la “salute” contrapposta alla patologia, né la “legalità” contrapposta all'illegalità (l'unica “legalità” che consideriamo è la normatività metodologica), e neppure la rispondenza ad una media o moda cui, forse, potrebbe condurre un'assolutizzazione malintesa della metodica statistica. Questo vale, in particolare, per la coppia, i cui equilibri sono assolutamente contestuali e debbono essere stabiliti dai due contraenti. Ciò non toglie che, a fronte di divergenze insanabili tra Partner, si possa far riferimento o a norme di legge o a norme sanitarie o a consuetudini nell'ambiente che hanno forza di norme; od anche a quelle “regole sociali a cui nessuna unione può sottrarsi” . Sono riferimenti esterni, che il Pedagogista deve saper recepire, per poi riprocessare secondo propri principi, come si fa ovunque in Pedagogia.
Più precisamente, è sempre ipotetica (e fallibile) l'apodosi “allora...” (propriamente “allora potresti provare...”, “allora forse...”) oltre alla protasi “se...”. Dobbiamo quindi parlare di imperativi doppiamente ipotetici, nel senso che sono ipotetici sia la premessa, sia il nesso tra questa e la conseguenza.
Ciò marca una differenziazione essenziale rispetto agli epistemologi e ad altri filosofi normativi, ai quali peraltro ci accomuna l'interesse essenziale per la metodologia.
Non facendo riferimento interno ad alcun concetto di “normalità o di “legalità positiva”, non possiamo emettere giudizi, sentenze, prescrizioni o quant’altro possa ravvicinarvisi o somigliarvi. Possiamo, semmai, esprimere “diagnosi” in senso lato, etimologico, e proporre delle “indicazioni”.
A chi ci chieda “consigli” daremo piuttosto “suggerimenti” utili al dialogo. A chi insistesse a chiederci ciò che non possiamo dare, cercheremo il modo adeguato per rifiutarci, proponendo di seguitare l’interlocuzione con un “vogliamo parlarne ancora?”.
Chi si rivolge al Pedagogista, molto spesso, gli chiede la soluzione del proprio problema. Ciò è quanto egli non può e non deve fare, per ragioni intrinseche al suo ruolo e alla sua funzione. Tutto il suo lavoro dialogico deve consistere nell’aiutare l’interlocutore ad elaborare proprie possibili soluzioni.
In una casistica ampia e frequentissima, le situazioni problematiche per le quali gli interlocutori si rivolgono all’aiuto del Pedagogista non sono quelle che, razionalizzate, divengono problemi: spesso il problema è altrove, e anche questo aggiustamento di rotta e di Target è parte importante del dialogo pedagogico. esso può anche esser effettuato più volte, comunque tutte le volte che appare necessario, od anche solo opportuno.
Tipico è il caso dei genitori che ci si rivolgono per problemi dei figli (svogliati, indisciplinati, dallo scarso profitto scolastico, dalla socialità insoddisfacente, …) che rivelano ben presto al dialogo come quelli non siano che sintomi di un problema che è nella coppia genitoriale.
Oppure quello della coppia “chiusa su sé stessa” che brucia in un rapporto onnivoro ogni risorsa umana, e lamenta ogni sorta di problema esterno a sé: dagli insuccessi lavorativi alla carenza di socializzazione, dai fallimenti politici e culturali fino alla scarsa riuscita nello sport o nell’arte, e financo alle difficoltà con i figli.
Il Pedagogista non ha soluzioni da offrire, ma una processualità che tende ad aiutarne la ricerca. All’interlocutore che ne chiedesse (“allora dottore, mio figlio a quale corso lo iscrivo?”; “Mio marito / mia moglie, lo/la pianto o no?”, “cambio lavoro o resto dove sto”), l’unica risposta che egli può dare è, in definitiva, “continuiamo a parlarne”.
Ma, soprattutto, possiamo proporre al dialogo uno o più “pareri”, “opinioni”, “punti di vista”, tra i quali anche i nostri, ove non vi sia il rischio che l’interlocutore ne fraintenda la sostanza, cioè che li legga erroneamente come le sentenze o perizie dell’esperto. Sono ipotesi, tra le tante possibili e meritevoli d’attenzione e disamina, discutibili e possibili oggetto di dialogo, che è altra cosa dalla casuale giustapposizione di idee, pensieri, tesi, posizioni.
Per noi, l’aggettivo “discutibile” costituisce un apprezzamento metodologicamente positivo, e un buon indicatore che si sta rigorosamente operando in abito pedagogico; se ci capitasse di dire qualche cosa che presumerebbe d’essere “indiscutibile”, probabilmente non si tratterebbe di un contributo pedagogico.
Ne discende un sano e convinto elogio del dubbio, che si lega alla postulazione della piena apertura in tutti gli interlocutori perché l'interlocuzione possa avere successo. L'indicazione del dubbio sistematico è da considerarsi un carattere irrinunciabile per qualunque operare in ambito pedagogico
Capiamo anche come ci siano professionisti, che pure in certi aspetti ci assomigliano, i quali debbono però dare certezze: il medico (od il chirurgo) che prescrive una terapia comunque impegnativa, o dolorosa, o delle scelte drammatiche; il giudice che condanni “al di là di ogni ragionevole dubbio”; il comandante militare che durante la battaglia impartisce ordini strutturalmente indiscutibili; l'ingegnere che deve garantire che un ponte sul quale passeranno milioni di persone non crollerà… Senza discutere caso per caso dove vi sia certezza e dove essa sia una finzione, e se del caso perché, qui basta notare che nessuno di questi atti è un atto educativo.
Quali che siano l'opinione, il punto di vista, il parere, l'indicazione che il Pedagogista offre, l'offerta è rivolta alla prosecuzione del dialogo (o dell'interlocuzione). E nulla di più. Sarebbe bene far emergere nell'interlocuzione stessa il senso del limite umano dell'educatore in quanto tale, che è il limite di tutti noi. L'uomo non educa “nonostante” i suoi limiti: educa perché ne ha, ne è consapevole, e cerca di andarvi oltre.
L'educazione ha alla sua base l’imperfezione, la cagionevolezza, la limitatezza, la fallibilità dell'uomo, e tutto quanto lo allontana da qualsiasi ideale per collocarlo sulla terra: quella terra dove ha voluto essere collocato, non accettando le restrizioni dell'Eden. Si ricordi che Dio non ha maledetto per questa scelta né la donna né l'uomo, semmai il serpente tentatore; e per l'uomo e per la donna ha correttamente previsto le vicissitudini che avevano accettato di affrontare per voler essere simili a lui, essendoci riusciti: simili a Dio creatore, cioè creatori di storia, di cultura, di evoluzione.
La perfettibilità è l'altra faccia della medaglia rispetto all'imperfezione; se questa seconda è ontologica, la prima è deontologica. Come deontologico è l'anelito, o Sehnsucht, verso quel meglio che è sempre possibile e che non sarà mai il Bene assoluto (checché ciò significhi); e si apre al dialogo nel contesto della relazione d'aiuto proprio in questo senso.
Tutto ciò espone al pericolo di cadere in quello che, genericamente, si chiama “relativismo”.


La ricerca di ciò che è trasferibile interpersonalmente

Non si risponde a questa obiezione cercando una qualche forma di assolutismo; semmai, avendo una chiara consapevolezza del limite dell’educazione, che è poi un modo particolare, ed importante, di intendere il limite umano, dell’uomo e di tutto ciò che è umano.
A rigore, noi non cerchiamo né la “verità” né l’“oggettività”, ma puntiamo a qualche cosa di meno e di realistico: all’intersoggettività o, se si preferisce, alla trasferibilità intersoggettiva od interpersonale, nel senso di ciò che può essere rilevato da ciascuna persona, equivalentemente, nelle medesime condizioni.
La ricerca di tutto ciò può anche consistere nel “sedersi attorno ad un tavolo” a discutere, o nel fissare quei minimi di linguaggio comune senza dei quali è come non “sedervisi”. E chi non vi si siede, comunque, non può essere oggetto di intervento pedagogico, almeno in linea di principio: come chi è chiuso, con chi non presenta quella disponibilità di fondo a rimettersi in discussione che abbiamo stabilito di chiamare “apertura”.
Sono almeno quattro gli ordini di regole che il metodologo prescrive di tener sempre ben presenti, in questa ricerca come in qualsiasi altro tipo di ricerca umana: quelli della teoricità, della logica, della controllabilità con i fatti, della storicità. Ciò significa:

teoricità - che ogni discorso che si faccia, si cercherà di inquadrarlo e ricondurlo a contesti di pensiero più generali, onde farne comprendere le matrici, le radici, i quadri cultuali di riferimento; spesso così operando si hanno delle grosse sorprese;

logica - è la buona vecchia Logica classica, la più forte, quella aristotelica-scolastica; ad esempio le regole dell’identità, del terzo escluso, di non contraddittorietà, ma anche la deduzione coerente (chi fa un'affermazione, si deve assumere tutte le responsabilità delle relative conseguenze), e l’accettazione della erroneità (se qualche conseguenza non risulta accettabile, per qualsiasi motivo, va sottoposto a revisione senza riserve tutto il complesso delle premesse);

controllabilità - tra le conseguenze logiche di quanto si afferma ce ne sono moltissime (infinite) che rispondono a fatti che poi si può andare a vedere se siano come asserito e previsto, oppure no, e in che misura;

storicità - le idee, come tutte le creazioni umane, vanno contestualizzate nel particolare momento storico nel quale vengono espresse, e vanno quindi fatte oggetto di evoluzione e di divenire con il divenire del contesto stesso.

Un accorgimento per aiutare l'ottemperanza a questi ordini di regole sta nel richiamare l'attenzione, ogni volta che lo si ritiene opportuno, su dati di fatto trasferibili: date, età, quantità, giorni della settimana, prima e dopo; oppure su proprietà topologiche, dentro o fuori, connesso o sconnesso, annodato o snodato, …
Un altro accorgimento sta nell'invitare ad uscire dal vago, specie nelle espressioni consuete (“non sta bene”, “comportamento di un certo tipo”, “sì, è giusto, ma non il modo...”, l’elenco sarebbe interminabile ed è ben presente al Pedagogista esperto).
Un buon modo di dare sostanza pedagogica all'interlocuzione è proprio far vedere i limiti o, meglio, le non accettabilità, il carattere non scontato, di quanto l'interlocutore ci propone. O perché porta a sistemi di pensiero che egli non accetta, e forse paradossali, anche se da solo non se ne accorge; o perché porta a delle contraddizioni; o perché non risponde alla realtà dei fatti, o perché pretenderebbe di inchiodare l’evoluzione e la vita umana ad un’idea anziché impiegare l’idea per la vita umana e la sua evoluzione.
Nei quattro ordini di norme metodologiche prospettati, ecco rispettivamente altrettanti esempi di contraddittorietà, tutti tratti da casi esperiti:

teoricità - la signora che maledice una nuova unione che il marito ha intessuto, e il figlio che ne è nato, invocando maledizioni divine e morti sacrosante; e difende il proprio matrimonio e i propri figli con la motivazione (spesso la sola) che sono stati “benedetti da Dio”, da quello stesso Dio che ha predicato la nonviolenza e che è morto per l'umanità;

coerenza - la signora che sostiene un'incrollabile senso di fiducia e di stima verso il marito, ed insieme ritiene di poterlo contraddire nell'azione su questioni importanti come l'educazione dei figli, o la gestione della casa; e viceversa;

controllo - “io credo che i rapporti sessuali cosiddetti <<non protetti>> (sì, altro che!...) vengono meglio. Chissà, poi, perché tra di noi invece c'è quell'ansia e quello scarso abbandono che invece quando li facciamo <<protetti>> non si presentano mai.”;

storicità - il genitore che viene messo di fronte all’evoluzione dei tempi e delle norme di legge, nonché delle consuetudini e del comune sentire, e che oppone a queste la maggiore validità delle sue idee, sostenendo che proprio il fatto che le regole sociali cambiano dimostri quanto esse siano imperfette, mentre invece le sue proprie posizioni genitoriali sono perfette in quanto non cambiano (e viceversa).

Si esercitino per questo continui rimandi tra ipotesi e teorie, tra ipotesi e realtà dei fatti, tra ipotesi e ipotesi, tra ipotesi e storia di vita: questi non sono difficili ad operarsi, e non sono neppure difficili a portarsi al risultato voluto, cioè mettere in discussione le tesi dell'interlocutore al pari di qualsiasi altra tesi umana
Il controllo sistematico di quanto ipotizzato e proposto con fatti “trasferibili” serve a mantenere saldamente l’interlocuzione sul conscio e a non sconfinare sul “vissuto”, sull’Erlebnis, cosa che sarebbe scorretta e pericolosa: scorretta perché il Pedagogista non è abilitato a fare lo Psicologo; pericoloso, anzi pericolosissimo, perché il Pedagogista non ha la competenza per impiegare strumenti concettuali psicologici, psicoanalitici, psicoterapeutici, e soprattutto per tenerne sotto controllo i possibili, e tutt’altro che remoti, “effetti collaterali”.
A seconda degli interessi dell’interlocutore, e delle età del soggetto, si impiegheranno quei riferimenti di fatto che possono servire a far osservare all’interlocutore stesso il principio di realtà. Ci si può riferire alla scuola frequentata, o alle cose studiate, o ai corsi universitari, oppure ad eventi familiari (Prima Comunione, Cresima, viaggi impegnativi, Fidanzamenti, Matrimoni, Funerali); od anche a fatti meno importanti, ma che interessano l’interlocutore (se, ad esempio, è uno sportivo, i campionati e i relativi vincitori; se appassionato di musica leggera, il Festival di Sanremo, il Festivalbar, oppure certe canzoni che ne costituiscano una forte “colonna sonora” contestuale). Ogni ricorso a fatti trasferibili intersoggettivamente è ammesso, purché serva allo scopo.
Va sottolineato che si parla di ricerca dei fatti attraversati dall'interlocutore, e non del loro vissuto. Da cui discende per il Pedagogista il rischio di confusione con i mitici “fatti puri” dei positivisti. Ma questi non esistono, come ben esplicato dall’Epistemologia del ‘900 per non andare più indietro nel tempo.
Se anche esistessero, per noi sarebbero altra cosa.


Il ricorso alla Einfühlung e i limiti umani

Nell'esercitare l'I.P., ma anche altri interventi di aiuto dei Pedagogisti, un altro strumento concettuale ed operativo essenziale consiste nel pesante ricorso all'empatia o, meglio, a qualche cosa che vi assomiglia.
Si pensi all’Empaty-empatia come è stata trattata, ad esempio, da Carl Rogers. Questi, pur ricordato giustamente nella Storia della Pedagogia, non era un Pedagogista bensì uno Psicoterapeuta: questo impedisce un trasferimento rigido al pedagogico di quel Client Centered che era attribuzione di una Therapy . L'empatia sarebbe un'attività di “provare dentro” (non necessariamente “soffrire”) tratti essenziali della situazione problematica proposta dall'interlocutore o dagli interlocutori. Questa è una reazione che si attiva anche spontaneamente, in relazione all’abilità di coinvolgimento dell'interlocutore, e alla sensibilità, alla predisposizione, anche alle esperienze già fatte del coinvolto.
Secondo Erich Fromm “Ciò significa che non si guarda all'altra persona dall'esterno - essendo la persona l'<<oggetto>> [...] - ma che ci si pone nei panni dell'altra persona. Non si tratta di un rapporto dell'<<Io>> verso il <<Tu>>, da di una relazione caratterizzata dalla frase Io sono te (Tat Twam Asi).”
Noi, propriamente, pensiamo a qualche cosa di diverso: ad un atto intenzionale, profondamente voluto, studiato, che può avere delle tecniche, che si insegna e si impara, che si ricerca assieme all’altro, e dai cui limiti e dai cui rischi si impara a guardarsi sistematicamente e fin dal principio. Qui c'è, a ben vedere, un'altra differenza di fondo tra l'agire professionale del Pedagogista e quello di altre figure che potrebbe presentare delle somiglianze: il Pedagogista non ha il distacco clinico del Medico e neppure quello dello Psicologo o dello Psicoterapeuta; e si prende dentro le situazioni come non farebbe né un giurista né un operatore sociale.
In effetti, relativamente a questa modalità d'operare, si è proposto di impiegare (o di riprendere) preferenzialmente il termine Einfühlung. Il ricorso a termini tedeschi è coerente con l'alta vocazione pedagogica e filosofica di questa lingua che ci permette di rendere meglio concettualità sensibilmente differenti con termini che in quella lingua sono distinti anche nel caso di corrispondenza alla stessa parola in italiano o, ad esempio, in inglese . Esso evoca un contesto teorico e professionale differente (come già Einsicht anziché Insight, ad esempio).
. A volte, si cerca di considerare Einfühlung come la traduzione tedesca di “empatia” o dell'inglese Empathy, pur esistendo in tedesco il termine Empathie che ha la stessa grafia del corrispettivo francese; e tuttavia, indica qualche cosa di non sovrapponibile, più o meno un'immedesimazione piuttosto che non un “in-pati”, un etimologico “'en paqoV” , cioè semplicemente un “provare dentro” e null'altro; Fühlung, peraltro, indica una relazione di contatto, la quale quindi può benissimo postulare una qualche premessa volontaria nel contraente. Esso è dunque impiegabile allo scopo di indicare un procedimento intenzionale, e che può essere professionalmente coltivato. Non un rimanere interessato, magari anche passivamente, per coinvolgimento dall'esterno: bensì, un prendersi dentro progettualmente, intenzionalmente, anche emotivamente le situazioni problematiche sul tavolo, onde cercare di restituirle previa rielaborazione e travaglio personale come meglio risolubili per tutti.
Si tratta di una qualità che è stata a lungo ritenuta “femminile” in senso culturale, e che ha peraltro un'indubbia e chiara metafora nella fisiologia riproduttiva femminile, e niente di più.
Questo modo di operare, con l’assenza di ogni sorta di distacco clinico, unito a tutte le considerazioni circa il limite umano, la fallibilità, l’ipoteticità, l’elogio del dubbio sistematico, fa comprendere chiaramente anche uno dei limiti più stringenti nell'esercizio della nostra professionalità. Non è umanamente possibile neppure ipotizzare un dialogo pedagogico prolungato, per esempio dell'ordine dei mesi o degli anni a cadenze settimanali, come avviene nella terapia psicanalitica, o nella didattica scolastica e non.
Abbiamo indicato di alternare la narrazione del soggetto ai fatti trasferibili. Questo serve moltissimo, oltreché come norma metodologica verso ciò che è trasferibile intersoggettivamente, anche a ridurre il logorio umano nella Einfühlung, stemperandolo entro narrazioni che non ne richiedono, ed anzi possono dare un respiro senza perdere assolutamente di vista il filo del discorso ed in particolare il lavoro “per problemi” nella sua limnea metodologica più rigorosa. Il che non toglie nulla alla limitatezza di principio dell’aiuto pedagogico.
E' questo uno dei modi per rendersi conto nei fatti, e non solo per via di proclamazioni teoriche e ideologiche, della non onnipotenza dell'educazione, e di chi per essa opera. La perfettibilità è l’altra faccia dell’imperfezione in quella medaglia che è la Menschheit; ma indica anche, sul piano normativo o nomotetico, la deontologia della ricerca di quel “meglio” che è sempre possibile, e che è dell’uomo cercare e perseguire.
Il Pedagogista si consideri, quindi, uno degli elementi della complessa e variegata relazionalità umana, e lo ricordi sempre nel suo agire: una volta ammesso tutto ciò, il Pedagogista opererà quindi con la piena consapevolezza che il suo aiuto è limitato in modo forte e necessario, anche nel tempo.
Questa relazione dialogica è quindi pensata, nasce e si sviluppa per avere un seguito in altre sedi e con altri interlocutori. Prima ancora di cominciare la relazione d’aiuto, prima ancora di vedere l’interlocutore, il Pedagogista sa già perfettamente che il dialogo che dovrà cercare di instaurare sarà a termine, dovrò avere un seguito altrove: il come ed il quando, ovviamente, va stabilito dopo, ma questa caratteristica di fondo deve essergli chiara e senza riserve fin dall’inizio.
E qui vi sono, in sostanza, due possibilità di fondo, non mutuamente esclusive.
Una riguarda la constatata necessità di continuare il discorso con qualche altro specialista: uno Psicologo, un Medico, un Assistente Sociale, un Giurista, un Sociologo, un Terapeuta, od altro. E’ deontologico, per questo, da parte del Pedagogista, non solo assicurare un efficace reindirizzamento che sia più tranquillo e piano e a tempo giusto che sia possibile, ma anche fornire a questo ciò aiuto (come nel caso ricordato del cosiddetto aiuto alla terapia, ad esempio). Si tratta del reindirizzamento professionale.
L’altra, auspicabilmente più frequente, consiste nel propiziare il seguito della relazione dialogica nel contesto nel quale si sono rilevate le situazioni problematiche o con le persone con le quali esse si sono scatenate, o comunque con persone che possono esservi coinvolte positivamente. Il dialogo carente nella coppia, o nel lavoro, o nella famiglia, o nel sodalizio umano, il Pedagogista farà sì che possa riprendere con nuova e più efficace vivacità ed apertura. E’ questo il cosiddetto reindirizzamento canonico.
Il reindirizzamento, comunque, può avvenire nei confronti di chiunque, e di qualunque sede di relazionalità umana, suscettibile di qualche significato educativo per l’interlocutore.
In questo ricorso sistematico allo Screening e al Dépistage si legge bene lo specifico della professionalità del Pedagogista, anche con riguardo alla sua essenziale componente d’ordine metodologico. Si coglie altresì l’alta affinità che consente a lui, per sue ragioni intrinseche, di collaborare con altre figure professionali.

Alcuni ordini esemplari di campi d’intervento per il Pedagogista

Vedremo ora, in sintesi estrema e quasi schematica, alcuni esempi di problematiche che richiedono l'intervento pedagogico, nelle quali lo scrivente ha avuto modo di avere esperienza diretta di I.P., ovvero una adeguata conoscenza mediante l'operare di soggetti in stretta cooperazione, ad esempio in tesi di laurea, ricerche accademiche, attività diverse di volontariato, familiarità.

1) Una prima tematica che costituisce un ordine di problemi sui quali può essere richiesto l'aiuto del Pedagogista Professionale sotto la forma di interlocuzione pedagogica riguarda il modello di famiglia.
Scontiamo la riserva che si tratta di un modello storico, e che non si può parlare di una qualche famiglia “sempre esistita” se non in un senso assai vago e poco fruibilmente generico. Scontiamo anche le riserve che tendono ad attribuire carattere naturale ad una tra le più alte e significative costruzioni della cultura umana, e che in natura non esistono.
Nella storia, anche nella Storia dell'Educazione e della Pedagogia, si ritrovano diversi modelli di famiglia: quella greco-classica è diversa da quella romana, e quella medievale signorile è diversa da quella borghese-cittadina e da quella patriarcale contadina. La famiglia nucleare borghese (privata, riservata) è un fatto recente, e di vigenza relativamente breve, due o al massimo tre secoli, pur se la sua stabilità si è alimentata di pesanti falsificazioni educative e retoriche, come erano quelle che appunto le attribuivano caratteri ben più remoti, o naturali.
Generalmente parlando, si possono avere una famiglia patriarcale, una matriarcale, una nucleare otto-novecentesca, che non costituiscono un problema sociale o giuridico, che non danno vissuti patologici né alcun contraccolpo psicologico, che non causano alcunché di rilevante sul piano sanitario, né hanno rilevanza sociologica da richiedere interventi dei Servizi; ma che, tuttavia, non funzionano perché qualcuno dei componenti non è educato ad accettarle e a viverne positivamente le implicazioni relazionali e sul progetto di vita.
Ciò, anche per scompensi nell'educazione ricevuta in età di sviluppo.
Oggi, il paradigma nucleare è da tempo in crisi come lo sono un po' tutti i paradigmi dell'evo borghese dal quale stiamo uscendo: e questo richiede precisamente l'apporto del Pedagogista Professionale. A tenere in piedi la famiglia nucleare per un paio di secoli, nella sua funzionalità socio-economica, ha provveduto una pesante educazione a ciò mirante, tra l'altro ben distinta per genere e ruoli conseguenti. Per affrontare positivamente le situazioni problematiche che, generalmente parlando, insorgono nella contraddittorietà tra i residui dell'educazione precedente mirante alla famiglia nucleare e una realtà che la richiede sempre meno, e sempre più richiede altro, si comprende e si riscontra con i fatti la necessità di un intervento specifico proprio (ed appunto) in campo educativo.
L'aiuto pedagogico consiste, nella sostanza, nel puntare ad un paradigma alternativo, cioè a costruire quella che potremmo denominare la famiglia poli-nucleare.

2) Una seconda tematica, connessa alla prima, riguarda con le medesime avvertenze l'equilibrio di coppia e di Partnership.
Anche in questo caso, scontiamo le riserve critiche nei confronti di pretese a-storicità, o pretese naturalità, di certi modi di porre il partenariato nella coppia eterosessuale. Si tratta di una costruzione culturale, storica, storicamente evolventesi, e per la quale la natura costituisce il sostrato.
Un rapporto di coppia può essere squilibrato rispetto all’esterno, ad esempio chiuso, oppure rispetto all’interno, gravante in modo diseguale sulle spalle di uno dei due, senza per ciò presentare alcun elemento patologico di interesse né medico, né psicologico, né socio-assistenziale, né giuridico.
In diversi momenti storici, l'educazione puntava con forza e cogenza verso la costruzione dei due ruoli predeterminati per il rapporto di coppia. Oggi, è in crisi anche l'educazione ai due ruoli borghesi, il che pone di fronte alla situazioni problematiche conseguenti alla divaricazione tra l'educazione ricevuta (sia dal maschio che dalla femmina) per ricoprire quei ruoli, e la società che richiede ruoli sempre diversi e sempre più ampiamente contraddittorii e conflittuali.
Anche in questo caso l'aiuto pedagogico consiste, nella sostanza, nel puntare ad un paradigma alternativo, cioè a costruire quella che potremmo denominare la coppia ad intersezione, o “sperimentale”. Vale a dire, non una coppia di sovrapposizione dell'uno sull'altro, di scioglimento dell'uno nel rapporto a due, di asservimento dell'uno all'altro, e neppure di reciproca full Immersion: ma di condivisione di una parte delle vite di ciascuno, nel rispetto pieno della persona dell'altro che vale per la parte di ciascuna vita che rimane non condivisa.

3) Diversa, ma molto connessa per via pedagogiche, è la terza tematica che qui esemplificheremmo, quella relativa all'orientamento di studi e di vita. La precisazione duplice non dovrebbe essere necessaria, in linea di principio, ma lo diventa proprio quando se ne consideri la problematicità strettamente attuale, che vede la divaricazione dei due aspetti.
L'illusione nel merito che il corso di studi (superiore, universitario e post-) sia da solo, od in buona parte, pre-costitutivo di effettive chances di professione e di vita e che quindi il secondo orientamento sia inglobato nel primo è una delle eredità più pesanti, più insidiose ed insieme più evidentemente irrealistiche dell'educazione dell'evo trascorso. Errori nel merito sono purtroppo noti: scelte incongrue per parzialità di visione (andamento scolastico precedente, per lo più disciplinare, il che costituisce un elemento tutto sommato minimo di valutazione), per soggettività sovrapposte (per lo più da ambizioni dei genitori), per modelli subiti (in famiglia, e nell'ambiente), per pubblicità (mass media), sempre con scarsa o nulla considerazione delle attitudini di vita prima che non di quelle di studio.
Oggi, e dalla fine degli anni Sessanta, il Trend è chiaramente delineato, nel senso dello svuotamento di ogni valore professionalizzante degli studi secondario-superiori, e di gran parte dei corsi di laurea; e per il conferimento agli studi rimanenti di livello universitario di un carattere di condizione necessaria, alla quale seguono gli impegni e le selettività che contano. Vale anche per le professioni pedagogiche, si è visto.
Ciò significa che le scelte orientative, oltre a non predeterminare più alcunché, debbono seguire la via reciproca di considerazione delle attitudini professionali e di vita, e di calibrazione su di esse dei corsi di studi, unitamente alle dovute flessibilità, ad una continua rideterminazione delle rotte ottimali, alla necessaria apertura.
L'aiuto pedagogico in questi casi si può compendiare nel Transfer alla vita di quegli strumenti concettuali di pertinenza pedagogica (e didattico-generale) che vanno sotto il nome di programma e programmazione, ed altresì di quello di curriculum (per gli esperti: in senso “attivo” ) che sono nati e cresciuti nel contesto scolastico.

4) Tutta un'altra problematica scaturisce da ciò che definiremmo genericamente l'aiuto al paziente e al terapeuta attraverso la relazione d'aiuto pedagogica, la quale ha per lo più la forma dell'interlocuzione pedagogica. Potremmo parlare di “aiuto alla terapia”, con un’altra sineddoche: ma in realtà noi ci rivolgiamo alle persone umane come soggetti di cultura e relazionalità, appunto “interlocutori”.
Si fanno i conti anche in questo caso con eredità negative del passato: si tratta, per lo più, di eredità sotto la forma di pregiudizi e di ignoranza nello specifico della cultura sanitaria.
Vi sono, nel complesso, casistiche amplissime di terapie concepite od immaginate negativamente, in quanto tali o nelle implicazioni personali od in quelle sociali: in Neurologia e Psichiatria (in generale, a partire dalle cure delle forme di più semplici di depressione, e fin dalla relativa diagnostica), in Ginecologia dove la prevenzione è inadeguata e l'ignoranza è alta, in Oculistica dove persistono pregiudizi fin all'eventualità di impiego degli occhiali per non parlar d'altro, in Odontoiatria dove sembra ancora molto viva la memoria storica del “cavadenti” senza anestesia e del trapano a pedale, e via elencando. Rimangono troppe le donne che non conoscono il Ginecologo pur avendone bisogno, e magari avendo conosciuto più volte l’Ostetrico; e sono moltissimi i maschi che, pur avendone bisogno, non vanno dall’Andrologo. I pregiudizi sono molto vicini, e richiedono un intervento pedagogico specifico.
Ogni atto di Educazione sanitaria, nel contesto di Screening di massa o di campagne di informazione, richiede competenze strettamente pedagogiche, e il mancato ricorso a queste si avverte sia nella qualità del prodotto sia nell'inadeguatezza dei risultati.
Vi è poi l'aiuto in corrispondenza di interventi chirurgici rilevanti o per le implicazioni culturali, o per i rischi, o per i possibili esiti negativi.
E questo ci riconduce al problema, di evidente rilevanza specificamente pedagogica, del consenso informato,
In tutti questi casi, ed in altri ancora, il pedagogista interloquisce come operatore culturale, come studioso, che dialoga per far conoscere meglio e correttamente quanto è oggetto di visioni comunque distorte o disturbanti, riconducendo sul piano della razionalità le decisioni e lasciando all'emotività il campo suo proprio; in questo si vede, ancora una volta, la figura del pedagogista anche come metodologo. L'aiuto pedagogico è, secondo l'esperienza di chi scrive, per lo più un intervento dialogico di carattere didattico.

5) Ricordiamo, ancora, l'ordine di problemi sui quali può essere richiesto l'aiuto del Pedagogista Professionale come interlocutore per quanto attiene l'ambiente nella prevenzione sanitaria e in quello che potremmo chiamare il mantenimento dello “star bene” nell'accezione ampia che questa locuzione ha preso recentemente. Anche questo è un aiuto al terapeuta e al paziente come il precedente, e retoricamente un aiuto “alla terapia”: ma indiretto, in quanto l'oggetto dell'intervento non è il paziente e neppure il terapeuta, ma chi costituisce “ambiente di vita” per il paziente, o per il soggetto cagionevole o predisposto; va da sé che il termine “paziente” non è neppur esso pedagogico, e non va impiegato da noi in nessuna interlocuzione tranne che in quella con il terapeuta o con l'operatore sanitario terapista (= è paziente di qualcun altro, sia Medico Chirurgo, Odontoiatra, Psicoterapeuta od altro terapeuta non medico).
Anche qui, basteranno alcuni esempi fortemente significativi e peraltro di alta frequenza: soggetti depressi di carattere, il cui ambiente familiare e sociale deve essere messo in grado di minimizzare il ricorrere di condizioni per l'accesso; soggetti affetti da sindrome dissociativa o da conversione e da altre fattispecie che un tempo sarebbero rientrate sotto la dizione generica di isteria, il cui ambiente deve inoltre anche sapere come comportarsi nel manifestarsi di pantomime o crisi, e come alla uscita da queste; famiglie con comportamenti a rischio, che possono essere anche tutte le variatissime manifestazioni di disordine alimentazione, il fumo passivo, l'ipocinesi (problema grave e gravemente sottovalutato), carenze di relazionalità (anch'esso sottovalutato, e ancor più grave); famiglie di soggetti che debbono sottoporsi a regimi di vita attenti (ad esempio cardiopatici, diabetici,...); famiglie e ambienti di soggetti ai quali una rieducazione di tipo fisico va affiancata una rieducazione di tipo culturale (dai vari casi di necessità fisioterapica, a chi ha subito gravi incidenti ovvero mutilazioni).
L'aiuto pedagogico consiste, in una interlocuzione con tutti quanti sono comunque accessibili, e si rendono disponibili, in merito alla considerazione che l'ambiente (umano) in quanto tale educa. Si tratta quindi di sviluppare il senso della soggettività educativa di tutti gli interlocutori coinvolti comunque e a qualunque titolo, come consapevolezza necessaria sia per il soggetto sia per tutti gli altri, e di coltivare la relativa competenza nonché l'apertura.

6) Come esempio terminale di campo d’applicazione per la professionalità pedagogica indicheremmo tutto quello che è progettazione e direzione di un intervento culturale pubblico. Si pensi all’esercizio di musei, biblioteche, ludoteche, fonoteche, cineforum, mostre; oppure convegnistica; iniziative per anziani, ad esempio del tipo “Università della Terza Età”, od altre iniziative territoriali. Ma rientrano nella stessa tipologia interventi sui Mass Media; oppure corsi al livello degli enti locali: cicli di conferenze, corsi di cultura generale e di cultura locale, corsi di lingue, di informatica, viaggi, attività di artigianato, …
Vale anche in questi casi, in analogia metodologica con i precedenti, il deweyiano “si educa”. Si educa anche attraverso i saperi, le abilità, le competenze: e nono solo né prevalentemente a scuola. Anzi, c’è tutto uno sconfinato terreno di azione proprio in domini e fasce d’età non scolari, che richiede competenze specifiche e generali.
Non è, in effetti, questione di competenze disciplinari o sovra-disciplinari, e neppure solo di “cultura” genericamente intesa: non basta sapere per saper insegnare, né a scuola, né meno che meno in domini diversi da quelli scolastici propriamente detti. Anzi, in questi ultimi si pongono problemi di accesso, di interesse, di assiduità, di coinvolgimento e quant’altri, in termini differenti e più impegnativi che non nel dominio scolastico in senso stretto. Ad educare, ad insegnare, a comunicare, si insegna e si impara: e con specifica sottolineatura per quanto attiene proprio il dominio e le età non scolari.
In termini generali, diremmo che si tratta di superare l’educazione otto-novecentesca centrata sull’omologazione a modelli prefissati, per giungere ad una visione dell’educazione evolutiva ed antropologica che si compie anche attraverso la proposizione di esempi e la possibilità di esercitare concretamente la scelta.
E anche questa è, propriamente e direttamente, competenza pedagogica.


Parte II

A proposito dei rapporti tra la Pedagogia e la Psicologia
I due versanti del problema e del discorso

Sono essenzialmente due, secondo esperienza comune e secondo letteratura, i versanti nei quali il relazionamento tra Materia Pedagogica e Materia Psicologica ci si presentano nelle fattispecie di problematicità emergente. Ciò è detto senza alcuna pretesa di esaurire le problematiche inter-area, né di attingere ad una sorta di sistematicità complessiva, e neppure di creare improbabili gerarchie tra versanti problematici: si tratta solo di oggetti privilegiati d'attenzione da una prospettiva di ricerca ben precisa .
Il primo fa riferimento all'ambito della Psicologia della conoscenza.
Il secondo, a quello ben più comunemente noto e diffuso della Psicologia clinica, che è altresì l'ambito nel quale fioriscono abbondantemente fraintendimenti e costruzioni pseudo-scientifiche.
Nel primo caso, si tratta di una problematicità attinente ai fondamenti, alle metodologie e allo statuto epistemologico delle due Materie; nel secondo, di una problematicità relativa ad obiettivi e competenze, che ha maggiore riferimento con l'applicatività e con la richiesta sociale.
Ma andiamo con ordine.


Bruner come "Dopo Dewey", e il dopo Bruner nonché il dopo Piaget

A partire dalla seconda metà degli anni '50 si è registrata una svolta nei fondamenti e negli indirizzi pedagogici . L'opera di riferimento aveva titolo The Process of Education - A searching Discussion of School Education opening new Paths to learning and teaching . La riformulazione del titolo e del sottotitolo nella versione italiana in Dopo Dewey - Il processo di apprendimento nelle due culture veniva incontro ad esigenze oggettive di accettazione di una dottrina che non è mai stata metabolizzata in modo organico e piano dalla Pedagogia e dalla Filosofia italiane: queste, in effetti, hanno storie divergenti rispetto al resto del mondo avanzato a causa della pluridecennale egemonia destro-hegeliana. Ma essa suscitava delle aspettative evidentemente sproporzionate rispetto al potenziale innovativo di quella stessa dottrina.
In sé, già il solo parlare di “due culture” con una pretesa contrapposizione a Dewey presta il fianco alla semplice critica di ignorare la tecnica confondendola con la scienza. Era questa una delle conseguenze più evidentemente negative, storicamente falsificate, della teoretica neo-idealistica italiana; peraltro, una tale confusione permane diffusa nella cultura filosofica ed in quella pedagogica del nostro paese, non senza qualche appoggio su autori più recenti e di facile fama come Charles P. Snow .
“La tesi di Bruner è che il problema dell'apprendimento va posto nei termini di una ricerca che raccordi la struttura psicologica del soggetto con la struttura logica (o scientifica) dell'oggetto” : da cui discende l'individuazione (nuovamente) di due versanti per la ricerca pedagogica a venire.
Per quel che riguarda quello relativo alla cosiddetta "struttura (logica, scientifica) delle discipline", lo Stesso ha più il merito di aver posto un problema che non quello di aver offerto elementi utili alla sua soluzione. In sostanza, la sua è stata una delega ai disciplinaristi: a scienziati, a storici e studiosi di scienze umane, a matematici, a linguisti; ed era significativa già allora l'assenza di tecnici o tecnologi. Questo fermarsi alle soglie di un problema così centrale nella Pedagogia, ed operare su larga scala un transfer dal disciplinare al didattico all'educativo, costituisce una delle lacune di fondo per quel che riguarda la pedagogicità dell'elaborazione bruneriana.
Nel merito, si è avuto modo di notare nelle sedi citate come una valida via di soluzione possa essere integrata proprio da una ripresa del Pragmatismo-strumentalismo pedagogico deweyiano, in termini aggiornati alcune generazioni dopo, ed altresì alla luce delle osservazioni dello stesso Bruner circa l'evoluzione del lavoro e della tecnologia. Per tale via, anche problemi di pianificazione dell'insegnamento possono trovare delle risposte più congrue rispetto a quelle che si sono sviluppate nel contesto del brunerismo.
L'altro versante era appunto quello psicologico: lo potremmo sinteticamente denominare lo studio dei processi mentali d'apprendimento e delle loro dinamiche. Il che portava Bruner, che era psicologo di formazione, a misurarsi ed anche a scontrarsi con il grande paradigma di Psicologia cognitiva delle età dello sviluppo allora esistente: quello che faceva capo a Jean Piaget e alla sua scuola ginevrina .
Così operando, e pur prestando la massima attenzione a tutto il discorso piagettiano, osservava che “dati i suoi studi prevalentemente orientati all'epistemologia genetica, egli si è limitato a descrivere il processo di maturazione delle strutture mentali, finendo per trascurare i fattori che possono agevolare la crescita e il potenziamento dello sviluppo.” Ed invece secondo Bruner “la tesi conclusiva è che è possibile accelerare i processi di apprendimento e, dunque, che non è mai troppo presto per introdurre l'alunno nel mondo dell'intelligenza e del sapere.” E' per osservazioni come queste che Bruner viene visto in un'ottica pedagogica: potrebbe considerarsi, quanto meno, uno psicologo che propone una prospettiva pedagogica in alternativa ad una prospettiva psicologica. Letta in un contesto pedagogico, la conclusione del suo discorso secondo la quale “non si trova una spinta interna allo sviluppo senza una corrispondente spinta esterna, poiché, data la natura dell'uomo come specie, lo sviluppo dipende tanto dal nesso con gli amplificatori esterni delle capacità umane quanto da queste stesse capacità” appare condivisibile ed apprezzabile ma, insieme, risulta informata alla prevalenza intrinseca di una matrice leggibilmente psicologica.
Negli sviluppi più recenti della sua dottrina, Bruner indica come elementi forti di differenziazione dal sistema di pensiero piagettiano l'interazione intesa come disponibilità ad entrare in un contesto, e quindi disponibilità al "pericolo", al rischio per le proprie teorie: come dire, ad uno spirito più integralmente scientifico. La critica bruneriana consente di spostare l'attenzione all'ambiente nel quale l'educazione avviene, al contesto: che va rispettato, oltreché tenuto nel conto. In sintesi: Risk & Respect + Negotiation, con la solidarietà come condizione necessaria alla consistenza della triade .
Questa differenziazione tra la Psicologia cognitiva e la prospettiva pedagogica di quegli anni ha un'importanza notevole sia per la ricerca che per l'applicazione. Questo è un primo elemento nel richiamare l'attenzione sul quale il pedagogista ha un compito specifico.
Inoltre e soprattutto, ciò che non può sfuggire alla critica di un pedagogista sono le carenze sotto il profilo metodologico di talune ricerche empiriche, diffuse soprattutto nel campo scolastico e nelle età dello sviluppo, che dichiaratamente si richiamano al tronco bruneriano e che hanno da tempo pesanti ricadute soprattutto sull'educazione scolastica. Ci si riferisce ad un'insistenza quasi esclusivistica, unilaterale, riduzionistica su di un'epistemologia operazionistica: questa, a chi si occupi di metodologia in via essenziale come appunto il pedagogista, suggerisce indicazioni divergenti.
Non che si trascuri l'Operazionismo in quanto tale, che anzi esso costituisce un componente importante anche della ricerca educativa oltreché di quella psicologica: va piuttosto negato recisamente che esso possa esaurire il panorama di paradigmi epistemologici sia nell'uno che nell'altro settore. Anzi, va notata semmai la carenza di Sinn e di Bedeutung che affligge i risultati delle ricerche di un operazionista in Pedagogia come in Psicologia (od in Didattica, ad esempio) che intenda fermarsi ad essi come fossero auto-significanti, o quasi. Si è già avuto modo di rimarcare quanto lacunosa sia la ricerca psicologica quando si arresti al quantitativo, nei pareri ad esempio dello stesso Piaget e, in altro settore, di Alice Miller .
Vi sono, in sostanza, dei limiti nell'operazionalità e nel quantitativo sia in Psicologia che in Pedagogia; la loro individuazione, in un quadro metodologico rigoroso, concorre efficacemente a delineare lo specifico dominio del pedagogista.
Ma, al di là di questo, si possono individuare tra la Pedagogia e la Psicologia della conoscenza due linee direttrici differenti ed irriducibili, seppure convergenti all'uomo che rimane l'oggetto definito di studio di entrambe. Si può ipotizzare una sorta di complementarismo tra di esse, nel senso che l'una tende a studiare quanto più rigorosamente possibile gli stati ed i processi della conoscenza del soggetto umano, e l'altro i nessi tra questi ed ogni sorta di comunicazione interpersonale (diretta e mediata) che su di essi comunque intervenga e da essi sia a sua volta influenzata.
Categorie mentali e strumenti concettuali come il progetto di vita, quella che si chiama genericamente l'apertura (disponibilità a rimettersi in discussione e a ripensare e riformulare le proprie scelte), la relazionalità evolutiva, la coerenza logica e metodologica, l'evolvere, lo storicizzarsi, il propiziare il divenire, sono propri e specifici del pedagogista, e non sembrano riconducibili a quelle psicologiche. Il pedagogista nel suo agire instaura un dialogo, con uno o più interlocutori; ed il suo agire di empatia diviene umanamente compatibile a condizione che accetti la non onnipotenza dell'educazione, e che quindi il dia a tale dialogo seguiti esterni quando vi persista la problematicità.
A questo complementarismo se ne ispira un altro, nato nella Psicologia ma di interesse evidente per il pedagogista. Esso si concretizza nell'alternanza tra metodo cosiddetto "sperimentale" (quantitativo, operazionale) e metodo clinico, tra statistica e casistica. Sulla base delle definizioni proposte da Lightner Witner alla fine del secolo scorso, il "metodo clinico in psicologia" consiste "nell'utilizzare i risultati ottenuti esaminando numerosi soggetti, studiati l'uno dopo l'altro, per effettuare generalizzazioni suggerite dall'osservazioni delle loro attitudini e delle loro carenze" , A parte l'impiego metodologicamente discutibile del termine "generalizzazione", è acquisito che uno studio statistico tendente (per esempio) ad una ipotetica "media" o "norma" o "tendenza" va a scapito della variabilità e delle singolarità di ogni soggetto individuale (che per il pedagogista sono essenziali), e viceversa.
Ci vogliono comunque entrambe le dimensioni, almeno in Pedagogia: sia come metodologia della ricerca, istituzionalmente composita ; sia come applicatività: sia anche come prassi. Arduo sarebbe l'affermare che dalla sola statistica si possano ricavare immagini realistiche dell'educazione e della Pedagogia: senza la casistica non si entra nel nucleo della Pedagogia, foss'anche della Pedagogia sperimentale.
D'altronde, e parlando più in generale: come ha ampiamente argomentato Réné Thom, "una descrizione completa del mondo matematico, che è il mondo della pura quantità, deve infine introdurre considerazioni <<qualitative>>. Viceversa, per la maggior parte, le qualità [...] si prestano [...] alla costruzione di un campo quantitativo" . Il dualismo qualità-quantità è essenzialmente filosofico, non scientifico.
E' noto come vi sia tra gli studiosi della cultura umana la tendenza a ricercare una scientificità che abbia qualche cosa a che fare con le scienze della natura: lo stesso impiego del termine "scienza", là dove esso non venga precisato da aggettivi e locuzioni appropriate, lascia (o consente) un insidioso margine di equivocità. Chi abbia cultura adeguata in scienze della natura, peraltro, sa che ad esempio "La principale importanza della matematica è che essa fornisce un sistema universale di simboli, piuttosto che un mezzo per la valutazione quantitativa." . "Si afferma classicamente che il <<riduzionismo>>, cioè la modellizzazione di ogni fenomeno fisico mediante l'interazione di particelle elementari che lo comporrebbero, costituisce la base per ogni riduzione della qualità alla quantità. Se è vero che per questa via si è potuto rendere conto delle qualità <<secondarie>>, è pur vero che una matematizzazione spinta dei fenomeni elementari lascia pur sempre sussistere un'irritante diversità qualitativa dei fenomeni di base."
Il discorso sarebbe lungo. In sintesi, una operazionalizzazione al quantitativo non esaurisce neppure la scientificità di base, là dove cioè sia possibile una semplificazione estrema dei fenomeni, con una separazione di variabili molto elevata: neppure in fisica ed in chimica; insomma; e il padre dell'Operazionismo Percy W. Bridgman era un fisico, non lo si dimentichi. Si vede allora come divenga puramente velleitario parlarne in discipline complesse e dove la separazione di variabili sia impropria prima che impossibile, come ad esempio in Geologia, in Storia naturale, ed a maggior ragione in quei settori delle scienze della cultura umana che pure tendono, ragionevolmente e fondatamente, alla scientificità.
Andrebbe dunque criticato, seppur per certi aspetti compreso, chi cercasse nell'operazionismo spinto una maggiore scientificità nella propria ricerca, in particolar modo se si tratta di ricerca psicologica o pedagogica. E' (anche) qui che mostra la sua essenzialità il contributo del pedagogista: un contributo metodologico, innanzitutto, mirante a rendere rigoroso e coerente il discorso della scientificità e del ruolo del quantitativo e del qualitativo in quell'ambito; e un contributo di valorizzazione proprio della complessità, dell'interazione, della non separabilità tra l'interazione conoscitiva e quella educativa. Anche il pedagogista sperimentale mancherebbe parte essenziale del suo compito se, occupandosi di ricerca operazionalizzata, non ne vedesse e non ne teorizzasse i limiti, agendo ed insegnando ad agire di conseguenza .
Una rilevazione di Psicologia della conoscenza non è mai "pura": nel momento in cui comunque interagisce con l'educando, lo psicologo svolge una funzione educativa. E ciò vale anche in Didattica, anche per l'insegnante che compia valutazioni diagnostiche o formative. Piuttosto che puntare ad una mitica e contraddittoria "sterilizzazione" educativa di strumenti di rilevazione psicologica, il pedagogista indicherebbe in che modo ottimizzarne invece l'incidenza educativa, cioè la modificazione della cultura dell'educando nel senso evolutivo della programmazione.
Il che sarebbe, oltre a tutto, meglio rispondente alla scientificità.


Psicologia clinica e pedagogia professionale

Già nel ’93, nel corso di una relazione ad un convegno di Pedagogisti, avemmo modo di avanzare una sorta di provocazione, una provocazione dall'evidente “retrogusto” amaro: “L'Italiano un tempo era il popolo di poeti, santi e navigatori e via discorrendo; oggi è un popolo di 56 milioni di Commissari Tecnici della Nazionale di calcio, e di 56 milioni di pedagogisti” . Il convegno nel quale quella relazione venne tenuta era stato organizzato nei gg. 27-29/10/93, in un momento che avrebbe dovuto segnare la tanto attesa istituzione dell'Albo professionale dei Pedagogisti.
Quello fu uno dei non pochi convegni di associazioni di Pedagogisti professionali nei quali il testo della relazione viene richiesto, a me come ad altri relatori, per l’espressione di un volume di Atti che poi non vide la luce. Questa incuria è parte della grave carenza di letteratura del settore che affligge i laureati in Pedagogia / Scienze dell’Educazione nel muovere i primi passi nel mondo della professione.
L’iniziativa di legge non ebbe alcun seguito, nonostante il sostanziale accordo di quasi tutte le forze politiche allora esistenti, per le vicissitudini parlamentari del tempo: quella XI legislatura sarebbe durata poco, circa due anni (’92-’94) come la successiva (’94-’96), e i parlamentari di diedero altre priorità. Ma rimase la posizione di un problema: il soddisfacimento di un'esigenza a lungo disattesa. E' ben vero che grosse difficoltà vi erano state anche per la costituzione dell'albo professionale degli Psicologi; ma ciò era conseguenza dell'enorme disparità dottrinale, formativa ed organizzativa tra gli Psicologi, che sussiste per certi aspetti tutt’ora, e che non ha riscontro tra i pedagogisti professionali.
Il problema dell’esercizio professionale si pone anche nei riguardi degli Psicologi, spesso investiti di funzioni di consulenza e perizia pedagogica anche là dove esulerebbe dalle loro competenze dottrinali e dalle loro funzioni istituzionali. Non è un rilievo mosso né a questi né a quanti si trovano nelle stesse condizioni, siano essi Medici od Avvocati, Sociologi o Giornalisti, Insegnanti od Assistenti Sociali; è la constatazione di una vacatio talmente grave che non poteva non prestarsi ad una serie di supplenze, tanto necessarie ad affrontare con qualche positività i problemi quanto inadatte ad una sua presa in carico con la perizia e la proprietà necessarie.
Riemerge una sorta di complementarismo come quelli che si erano tratteggiati più sopra: la teoria acquista consistenza in modo leggibile, mentre per l'applicazione e l'empiria valgono discorsi che si sono avviati in altre sedi . In particolare la psicanalisi, intesa come “procedimento medico che si prefigge la terapia di determinate forme di stati nervosi (nevrosi) attraverso una tecnica psicologica” lascia aperto e visibile il campo di studio e d0’esercizio professionale del Pedagogista.
Una volta curato il vissuto e superati la nevrosi o lo stato patologico quale che sia, rimane tutto un altro lavoro da fare. Qui si richiede l’opera di un professionista dell’educazione, circa le cause contestuali (relazionali, ambientali, familiari, lavorative, politiche, culturali, ...) e soprattutto circa la proiezione nel futuro, che sia progettuale e che tenda ad educare alla prevenzione di nuovi accessi e al riformulare il progetto di vita e la comunicazione interpersonale in senso lato, in modo da far sì che predisposizioni eventuali divengano, anziché agenti patogeni, fattori di migliore congruità umana. E' il caso della consulenza familiare, che non riguarda solo i figli o la loro educazione o la loro relazionalità con i genitori; ma è anche il caso, ad esempio, delle depressioni di carattere nelle quali meglio si sviluppano divergenza e creatività; od anche di forme aggressive che per lo psicologo si “sublimano” in certe funzioni di utilità umana (dal chirurgo al piazzista) in modo spontaneo, mentre per il Pedagogista questo va costruito progettualmente nel dialogo con l'interlocutore e nell'interazione con altri interlocutori educativi, in un’esplicazione più ampia di quello che si chiama “orientamento”, un orientamento per la vita.
Per questo il dialogo educativo tra pedagogista e interlocutore diviene clinica, ed una clinica non psicologica o psicanalitica: un dialogo che abbia per oggetto il ripensamento e l'eventuale ricostruzione o ristrutturazione del progetto di vita, in tutte le sue concretizzazioni.
Come abbiamo argomentato più ampiamente altrove , la crisi di inutilizzazione di strati sempre più ampi del lavoro dipendente nel privato che si sta verificando negli anni '90 in seguito alle ristrutturazioni dal modello Ford al modello Toyota (Qualità Totale, fabbrica leggera, lean Production, minimizzazione del magazzino delle materie prime e di quello dei prodotti finiti, risoluzione di problemi dove si presentano, just in time, responsabilizzazione degli operatori, ...) è un grosso problema pedagogico, e per tale va posto ed affrontato.
L'osservazione che viene fatta comunemente quanto superficialmente, relativa al “patrimonio professionale umano” che potrebbe andar perduto, è parziale e largamente fuorviante. In realtà, si tratta di operare una transizione pedagogica a riconsiderare virtù quelle qualità di divergenza, immaginazione, creatività, intraprendenza, iniziativa che si erano educati i lavoratori a considerare vizio incompatibile con l'ideologia aziendale; e d'altra parte a riconsiderare vizio quelle qualità di conformismo, auto-adeguamento acritico, impersonalismo, passività, scioglimento nell'azienda che per decenni tutti sono stati educati a considerare invece come virtù. La si direbbe una “rieducazione”, se il termine non avesse intonazioni negative la cui origine dà di che riflettere: si tratta, comunque, di educazione continua.
Ricordiamo che Sigmund Freud trovò un terreno fertile (e, forse, anche più di questo) per sviluppare la sua teoria psicanalitica nel “Trattamento catartico”: una sorta di terapia ipno-suggestiva che prevedeva anche rievocazioni; e che lui stesso suggerì al non specialista Joseph Breuer di proseguire e pubblicare le sue ricerche. Ne sono testimoni gli Studien über Hysterie (1895), scritto storicamente cruciale a quattro mani.
Ci interessa molto notare il felice ed efficace paragone che Freud operò tra le “rievocazioni” breueriane e le sue “associazioni libere”, ricordando esplicitamente certi modi di dire di Leonardo da Vinci circa la pittura e circa la scultura. Nel caso dell’ipnosi suggestiva, si sarebbe trattato di procedere come per la pittura, “per via di porre”: le suggestioni del terapeuta si sovrappongono al sintomo patologico senza eliminarne le cause. Nel secondo caso, quello della Psicanalisi, ritenuto per ciò evolutivo, si sarebbe trattato, di procedere come nella scultura, “per via di torre”: di togliere, cioè, di far emergere quanto di patogeno viene portato al conscio e, per ciò stesso, viene levato dall'inconscio nel quale agiva indisturbato.
Il punto di vista pedagogico manifesta bene la sua differenza in quanto non entra in una dialettica chiusa tra il porre e il torre. In Pedagogia, occorre focalizzare l’attenzione su una dimensione diversa, sulla categoria del modificare evolutivamente.
Il discorso trova un pendant significativo se lo si ricollega a quello precedente sulla Psicologia della conoscenza, quando si compiano ricerche sperimentali psico-pedagogiche della conoscenza che in qualche modo arieggino l'Epistemologia Genetica di Jean Piaget (1896-1980). Alcune di esse si ispirano proprio a Bruner, o vengono considerate genericamente “bruneriane”, con o senza richiami espliciti a Bruner.
Da un punto di vista pedagogico, notiamo come sia infondata la pretesa che non pochi ricercatori avanzano di porne le condizioni come modelli di didattica o d'educazione. In effetti, valgono considerazioni analoghe. Va ricordato che Jean Piaget non era né un Pedagogista né un Di­datta (e neppure un insegnante), non ha mai preteso di esserlo e le sue ricerche non si sono mai collocate né nella materia educativa né in quella dell'insegnamento; semmai, le potremmo classificare, propriamente, entro le scienze dell'educazione. Tra le innumerevoli citazioni possibili, una ci sembra di quella chiarezza esclusiva che bene qualifica e rende trasferibile un messaggio che possa definirsi legittimamente scientifico: “Sono convinto che quello che noi abbiamo scoperto possa essere usato nel campo dell'educazione, andando oltre la teoria dell'apprendimento, per esempio, e suggerendo altri metodi d'apprendimento. Penso che ciò sia fondamentale. Io però non sono un pedagogista, e non ho indicazioni precise da dare agli educatori. Tutto quello che noi possiamo fare è fornir loro dei fatti. Penso inoltre che gli educatori possano scoprire molti nuovi metodi educativi.” .
Andrebbe osservato che ogni atto di ricognizione operato da un educatore (l'insegnante ne è solo un esempio) sulla base di conoscenza esistente nell'educando è, per ciò stesso, già da sé un atto educativo: anche per il solo fatto che l'educatore si pone di fronte all'educando, egli ha già iniziato ad educare; e il discorso è generale, riguarda anche il versante clinico. Vale a dire, più e diversamente che a porre o a torre (o ad un mitico rilevare “puro” che non esiste), a far evolvere. Il che non vale solo per qualsiasi rilevazione piagettiana o simil- o pseudo-piagettiana, che sia effettuata per mezzo di test o di colloqui clinici o comunque composita e temperata; vale anche per qualunque forma di accertamento, compresa quella in Didattica che va sotto il nome generico di “valutazione diagnostica” o “d'ingresso”, che sia fatta con strumenti docimologicamente avanzati o con accorgimenti consuetudinari nell’esperienza quotidiana degli insegnanti.
Sarebbe fin errato parlare di “interferenze” dell'educatore (o del didatta, o dell’insegnante), al momento rilevatore, sull'educando: sono atti educativi proprio perché ed in quanto “interferiscono”, “perturbano”, intervengono comunque sull’evoluzione dell’allievo-educando. Un'interazione conoscitiva quale che sia comporta sempre e comunque una perturbazione dell'oggetto di studio la quale ne rende così limitata la conoscibilità effettiva anche in linea di principio: è la sostanza del principio d'indeterminazione di Heisenberg, Questa legge della Fisica quantistica, come principio, è valido come strumento esplicativo a più forte ragione nelle Scienze Umane, pur essendone essenzialmente diverso, ed essendovi confrontabile solo in senso metaforico.
Ma poi, e soprattutto, va posta la dovuta attenzione sulla natura pedagogica e didattica dell'intervento dell'insegnante come di qualunque educatore, che lo rende in essenza diverso dall'intervento di uno Psicologo della conoscenza. Si tratta di un'osservazione analoga a quella che varrebbe per il Medico che compisse un visita o misurasse la pressione al paziente: egli ha sì bisogno di dati per procedere alla diagnosi, alla prognosi, alla terapia; ma è altrettanto importante notare che egli comincia già la terapia appena ha contatto con il paziente stesso: la prima medicina che il medico somministra, come ben noto, è sé stesso, il suo proprio intervento.
E' ben vero che nell’insegnamento, in una fase iniziale e in tante fasi intermedie, vi è un forte componente di necessità di conoscere il destinatario dell'intervento. Ma tale finalità cognitiva è funzionale allo stesso intervento didattico (od educativo) il quale, qui sta il punto, ha inizio proprio con tale primo accesso. Questo significa che già nella diagnosi vi sono un primo orientamento, un primo volgimento, un avviamento per strade opportune, almeno una delimitazione a grandi linee del campo, come si conviene a qualsiasi operatore dell'educazione e dell'insegnamento; e che operare così è bene e correttamente operare. L'argomento secondo il quale almeno tale prima fase dovrebbe essere asettica e non soggettiva, impersonale, non recare le conseguenze dell’agire del docente sul discente e con il discente, miticamente “pura”, non vale. Anche ammessa una simile possibilità, un po' come nella vana ricerca dei “fatti puri” positivistica e neo-positivistica, ciò la renderebbe inetta ed estranea ad un atto didattico od educativo, siano essi atti di ricerca ovvero atti di esercizio didattico, in quanto non mirerebbe alle finalità tipiche dell'uno o dell'altro campo di studio e d'azione dell'uomo.
Anche in questo caso la scarsa scientificità, o meglio una scientificità pretesa e malintesa, va di pari passo con la negazione delle valenze specificamente educative. Possono esistere finalità cognitive per il Rilevatore-Testista, unilateralmente inteso, forse; ma allora cadono finalità educative quali che siano, se non per l'educazione od auto-educazione di chi cura le rilevazioni.
L'Insegnante del resto, anche in quanto educatore, non accede allo stato psicologico-cognitivo (foss'anche per il tramite di uno Psicologo-Testista-Rilevatore) tanto per conoscerlo e studiarlo, quanto appunto per modificarlo in senso funzionale al perseguimento delle finalità culturali e di quelle educative che vengono poste dalla società alla sua professionalità in atto. Ne consegue che quelle che per uno Psicologo sarebbero (forse) delle perturbazioni, e come tali da minimizzarsi e da tararsi, per il Pedagogo ed il Didatta rappresentano l'essenza stessa dei loro interventi.
Ciò comporta, notiamo en passant, un recupero della direttività piena come parte essenziale della deontologia e della funzione professionale dell'educatore: un agire estrinseco e progettuale sull'educando mirato alla sua messa a regime con il processo storicamente in corso dell'evoluzione culturale della specie umana. Né questo può far correre alcun rischio di ripresa di un insegnamento autoritario, cosiddetto “cattedratico” (e detto malamente), al modo nel quale esso era inserito notoriamente in un'educazione non democratica, se si rimane in una prospettiva sanamente scientifica. In modalità di conoscenza, e d'esercizio della creatività umana, che possano dirsi scientifiche, ad ogni destinatario deve sempre e comunque essere assicurata la possibilità effettiva di controllare la validità ed i limiti di quanto gli viene proposto. “Scientifico” equivale a “logicamente coerente e controllabile con l’esperienza futura”, come è noto.
In tutto ciò, l’Epistemologia del ‘900 ha largamente dato ragione al Pragmatismo Classico quanto al rapporto tra conoscenza ed esperienza, e consente una visione della scienza meglio fruibile sul piano dell’educazione, della scuola, della politica (sia scolastica che generale), della vita sociale, oltreché indubbiamente più realistica di quanto non fossero le accennate teorie ottocentesche.
La proposta avanzata da Dewey per quella che egli chiama “esperienza riflessiva” si scandisce lungo gli “aspetti generali” che così lui tratteggia, in una delle sue opere più note: “a) perplessità, confusione, dubbio, dovuti al fatto che si è implicati in una situazione incompleta, il cui pieno carattere non è ancora determinato; b) una previsione congetturale, un'interpretazione azzardata degli elementi dati, in forza della quale si attribuisce ad essi la tendenza ad effettuare certe conseguenze; c) un esame attento (ispezione, investigazione, analisi) di ogni possibile considerazione atta a definire e chiarire il problema presente; una conseguente elaborazione delle ipotesi incerte per renderle più precise e più consistenti, in quanto suffragate da una quantità di fatti maggiore; e) decidere un comportamento in base all'ipotesi prospettata sotto forma di piano d'azione che si applica allo stato di cose esistente, fare concretamente qualcosa per provocare il risultato previsto, e perciò provare l'ipotesi.” .
Certo, l’attenzione di Dewey si appuntava in particolare sulla materia educativa: “sono le effettive attività dell'atto dell'educazione che mettono alla prova il valore dei risultati delle conclusioni scientifiche. [...] L'esperienza concreta dell'educazione costituisce la fonte primaria di ogni indagine e di ogni riflessione, perché pone i problemi, e collauda, modifica, conferma o smentisce le conclusioni della ricerca intellettuale.”
Tuttavia, il discorso è generale. Prima e propedeuticamente all'opera di Dewey, già Peirce e James avevano preso posizione in tal senso, come sintetizza Antonio Santucci: “Riproponendo nel 1905 la massima pragmatica per cui l'<<intero significato di un simbolo consiste nell'insieme dei modi generali di condotta razionale che deriverebbero dall'accettazione del simbolo in tutte le circostanze>>. Peirce si riferirà alla dottrina critica del senso comune e a quella scolastica del realismo.” ; ed ancora “molti problemi, su cui James sarebbe tornato negli scritti sull'universo pluralistico [...] s'erano già posti nelle prime formulazioni della massima pragmatica, per cui il significato delle asserzioni va cercato nelle loro conseguenze particolari e attive.” .
Il discorso ritroverà corpo filosofico, dopo l’effimera fiammata del Neo-positivismo Logico, con Il Razionalismo Critico, o Falsificazionismo, fin dagli anni ’30 del secolo scorso: ed è noto al grande pubblico più in questa sua versione che non in quella pragmatista. In effetti, è il primo e più noto Popper che si esprime in termini chiari e netti al riguardo: “Ora, secondo me, non esiste nulla di simile all’induzione. È pertanto logicamente inammissibile l’inferenza da asserzioni singolari <<verificate dall’esperienza>> (qualunque cosa ciò possa significare) a teorie. Dunque le teorie non sono mai verificabili empiricamente. […] io ammetterò certamente come empirico, o scientifico, soltanto un sistema che possa essere controllato dall’esperienza.” . E così via, per linee coerenti.
Va notato che la costruzione teoretica popperiana in materia epistemologica, che egli chiamerebbe semmai “Logica della ricerca”, ha poi trovato una sua trasposizione alla politica, e precisamente alla teoria della cosiddetta “Open Society” . Il requisito di “apertura” e democrazia in politica è lo stesso di scientificità ed evolutività in ricerca scientifica, e consiste nella possibilità di controllo illimitata e successiva all’avanzamento di ipotesi e teorie. Esso è metodologicamente equivalente a quello che i Pragmatisti individuarono come ruolo dell’“esperienza futura”. Così Kreuzer ne riassume il pensiero: “Non dobbiamo porci la domanda <<chi deve comandare?>>, quanto piuttosto la domanda - e cito - <<come possiamo organizzare le nostre istituzioni politiche in modo tale che governanti cattivi o incapaci (che noi cerchiamo di evitare, ma che tuttavia possono molto facilmente capitarci) arrechino il minor danno possibile e che noi possiamo rimuoverli senza spargimento di sangue?>>” .
Quel che conta, in politica come in scienza, in metodologia come in pedagogia, è l’esperienza che si ha ancora da fare, e che si farà proprio in seguito a ciò che si propone e si pone in essere in questi come in ogni altro campo umano suscettibile della dimensione empirica.
La possibilità di esperienza futura, illimitata e trasferibile intersoggettivamente, che può falsificare ma non verificare, costituisce la garanzia di scientificità ed, insieme, di democrazia: in una concettualità comprensiva, di congruità umana.
L’insegnante, più propriamente, è un interlocutore di una forma particolarissima del dialogo educativo, non potendosi mai dare un'educazione a senso unico: l'educatore è per ciò stesso educando, e viceversa.


Gli sviluppi correnti della formazione alle professionalità pedagogiche

La ricerca di base da un lato, e la pratica operatività quotidiana dall'altro, non esauriscono né il dominio della Pedagogia né la risposta ai problemi educativi della società. Il progressivo costituirsi di figure professionali di Pedagogista, differenziate come vedremo ma accomunate dal loro riferirsi sia alla teoria che alla prassi senza esaurirsi in nessuna di esse ma anzi integrando una via di completamento per entrambe, sta dimostrandolo fattualmente negli anni '90.
Sul piano della dottrina, poi, una delle lezioni che andrebbero colte con maggiore forza dalla pedagogia tedesca contemporanea riguarda proprio il tripartirsi dei livelli del discorso pedagogico: un livello teorico, quello degli studiosi di Pedagogia generale, per i quali l'interazione con l'esperienza educativa rimane imprescindibile; quello della prassi, che comunque è impensabile senza un rapporto con la teoria; e quello della mediazione empirica, applicata, esperienziale, che interagisce con entrambi ottimizzandone la comunicazione e il profitto evolutivo reciproco.
Il nodo problematico attuale sta proprio nell'imprescindibilità di questa dimensione intermedia, un'imprescindibilità sia di principio che pratico-operativa, nel contesto culturale italiano. Ciò in quanto in tale contesto si tenderebbe a ridurre il dominio educativo a due sole dimensioni: quella teorica, spesso più che altro filosofica e detta appunto in questi casi “teoretica”; e quella pratica, di operatività per lo più trasmissiva e ripetitiva di modelli prefissati.
Coerentemente con questa dottrina, con attenzione alla problematica sottesa, e in risposta ad una richiesta sociale sempre più chiara, si è progressivamente sostituito al “glorioso” corso di laurea in Pedagogia quello in Scienze dell'Educazione. Le prospettive scolastiche vi sono limitate all'insegnamento medio-superiore di Scienze Umane variamente accorpate (I indirizzo) e, probabilmente, a diverse funzioni dirigenziali, di consulenza e di supervisione professionale non ancora delineate legislativamente: esse non sono più quindi da considerarsi preponderanti, come invece avveniva per il corso preesistente.
Le professioni pedagogiche recenti sono individuate in modo particolare su due grandi filoni, corrispondenti al II e III indirizzo.
Per il II indirizzo detto “educatori professionali extra-scolastici” sembra di potersi indicare come figura professionale di riferimento quella del Pedagogista operante nei servizi pubblici o para-pubblici od in convenzione (enti locali, servizi sociali, servizio sanitario, sessuologia, consultori, famiglia, comunità terapeutiche, servizi all'infanzia, agli anziani, agli svantaggiati, accoglienza, case mandamentali e circondariali, convitti, ...) nonché nella libera professione. L'aggettivo “extra-scolastici” sembra più che altro un residuo di un passato nel quale la Pedagogia era sostanzialmente ristretta nella scuola, un passato che si augura in via di rapido superamento, e difatti è sparito nelle formulazioni della tabella XV degli insegnamenti per questo corso di laurea successive alle prime; mentre il termine “educatori” si ricollega al cambiamento di nome del corso di laurea, ed è da considerarsi improprio.
In effetti, quella del “Pedagogista” si configura come una professione differente da quella dell'educatore (pedagogo, aio, istitutore, assistente di comunità, ...), cioè quella di un operatore diplomato: essa si colloca appunto in una dimensione intermedia tra quella dello studioso di Pedagogia (teoria) e quella dell'operatore (prassi), che potremmo chiamare “applicata” od “empirica”.
Circa il III indirizzo detto “esperti nei processi di formazione”, si tratta di una figura professionale emergente soprattutto nel settore privato, industria e servizi, che è deputata a gestire professionalmente la risorsa-uomo (uomo come soggetto di cultura). Il che significa indubbiamente anche operare sulla formazione iniziale e continua, purché la performance professionale sia espletata a certi livelli e con certi requisiti differenzianti da un'attività didattica continuativa e regolare. Ma significa, essenzialmente, un farsi problema delle situazioni problematiche che insorgono nei settori predetti (specialmente privati, ma anche pubblici, là dove esistano comportamenti privatistici). Vengono in mente figure ravvicinabili immediatamente, come quelle dei responsabili e degli operatori professionali del patrimonio di professionalità costituito dagli occupati di un'azienda quale che sia (od anche in uno studio libero-professionale); dei responsabili dell'archivistica e della biblioteconomia, delle relazioni interne con gli occupati sotto il profilo della professionalità, della gestione dei processi di formazione continua e riqualificazione, della selezione iniziale e della supervisione sulle carriere e sugli sviluppi delle responsabilità e delle incombenze in certe posizioni. L'esistenza poi di una non trascurabile base umanistica può far ipotizzare anche professionalità del tipo dei servizi stampa (interni ed esterni), della multimedialità, delle comunicazioni esterne e di parte delle comunicazioni industriali, della documentazione storica aziendale, dell'immagine culturale e pubblica (ciò è a dire significativa dal lato educativo) dell'azienda stessa. Non si escludono quindi sviluppi nei settori delle P.R., dei rapporti diretti con il personale e relativa gestione, della pubblicistica aziendale, dei servizi stampa e comunicazione, dei servizi di ricerca e d'informazione, e via elencando.
Insomma, si tratta sempre di comunicazione inter-personale finalizzata all'evoluzione culturale, come da dottrina : con riguardo particolare per il mondo del lavoro nel III indirizzo, per le relazioni personali nel II indirizzo, e per quelle scolastiche nel I.
Qui è opportuno un ultimo cenno alla metodologia che costituisce componente essenziale della professionalità pedagogica comunque intesa e dovunque esercitata: si vede come la categoria mentale, lo strumento concettuale ed operativo, dell'“intersoggettivamente trasferibile” sia fondamentale in Pedagogia, quanto è marginale se non addirittura estraneo nella Psicanalisi e in larghi settori della Psicologia Clinica.


Parte III

La Pedagogia, disciplina “di mezzo”, e le professioni “di mezzo”

Presentazione: spunti per la riflessione

E’ sicuramente rilevante che la FIPed ci inviti, con il suo II Congresso Scientifico Nazionale, a centrare la nostra attenzione sulla mediazione . E’ questo un concetto esplicitamente presente nel tema del Congresso circa la mediazione familiare, cioè di una professionalità pedagogica emergente, della quale è riconosciuto esperto il Coordinatore della Regione ospitante, il collega ed amico Emanuele Esposito; e che caratterizza altre modalità d’esercizio della nostra comune professionalità, a Scuola come nell’Università, nella Giustizia come nei Servizi Socio-Sanitari, nell’intercultura come nel volontariato e nella cooperazione, e via elencando.
Non si tratta solo di un dato di fatto, emergente dall’esperienza e dalla realtà professionale, che pure sarebbe di estrema rilevanza: si tratta di un fondamento della Pedagogia stessa o, per lo meno, di un modo di intendere la Pedagogia che sia, insieme, adeguato e realistico ai tempi nostri, cioè alla transizione epocale corrente, e aperto all’applicatività professionale e al relativo esercizio.
Vorrei offrire, in queste prime pagine, alcuni spunti per la riflessione nel merito: spunti all’insegna della provvisorietà, della ricerca continua, del “Work in Progress” che mi augurerei fin d’ora venissero qualificati con l’aggettivo che meglio ne premierebbe l’obiettivo, vale a dire “discutibili”. Spererei di scrivere sempre cose “discutibili” con riferimento all’educazione; e, se mi capiterà in talune occasioni di scrivere qualche cosa di “non discutibile”, sarà probabilmente parlando d’altro, o di tempi diversi dal nostro.
Per questo carattere, rinuncio a rifinire l’opera, anche con il necessario labor limae, onde offrire il materiale con la dovuta tempestività all’attenzione, alla critica e (spero) alla discussione di tutti.

Sulla “dimensione di mezzo”

Il parlare della “dimensione di mezzo” per la Pedagogia, anche solo l’enunciarne l’esistenza oltre le dimensioni della Teoria e della Prassi, e il collocare su di essa la professione di Pedagogista e tutta una serie di altre professioni tra le quali quelle della scuola, ha delle conseguenze rilevanti sul piano generale. Vediamo, innanzitutto, di fornire alcuni spunti al dibattito relativamente a tre di esse.

a) La medierà della Pedagogia è compatibile con la visione che abbiamo oggi dell’educazione, propriamente in linea con l’etimo “condurre fuori da”. Lo è anche, volendo, con l’etimo alternativo di “nutrire”, considerato che è poi l’organismo a metabolizzare quanto gli viene somministrato, e lo fa iuxta propria principia; secondo i piani scritti nei propri progetti biochimici e macromolecolari. Un po’ meno, lo è con il “formare” e con lo stesso paradigma della Bildung; a meno che, nuovamente, non si intenda che la forma o la Bild siano e stiano nella persona stessa, e non siano in nessun caso d’origine né di provenienza estrinseca ad essa.

b) La mancanza della dimensione di mezzo rende ragione dell’assenza di Pedagogisti professionali. Consente l’esistenza solo di due ordini di figure professionali relativamente all’educazione, le quali corrispondono l’una alla sola Teoria e l’altra alla sola Prassi. I primi sono Pedagogisti accademici, detti anche “teoretici”, o sono mandarini - consiglieri del principe, comunque di “vertice”. Gli altri operano solo sul piano della Prassi, alla base: costituiscono un esercito di soldati senza quadri intermedi, soldati che si chiamano propriamente “educatori”, comunque aggettivati e fatti oggetti di successive parafrasi, per escogitare le quali la fantasia certo non fa difetto in Italia.

c) E’ di fondamentale importanza sociale e culturale la medietà della Pedagogia e di discipline affini, con la conseguente collocazione sulla dimensione di mezzo dei Pedagogisti professionali, come anche di altri professionisti “cugini”. Tra questi ultimi vi sono in particolare gli insegnanti e gli analoghi per le fasce dell’infanzia per le quali ancora qualcuno considera prematuro parlare di “scuole” e d’“insegnanti”. E’ proprio la medietà, infatti, a garantire, insieme, la scientificità e la democraticità del tutto, secondo quadri normativi che sono comuni all’Epistemologia in senso stretto (cioè alla filosofia della scienza in senso stretto) e alla teoria della Democrazie e della “società aperta”, secondo linee metodologiche che attraversano rigorosamente il Pragmatismo per approdare al Razionalismo Critico filosofico e politologico e al Razionalismo Critico - Problematicismo pedagogico.

Il notissimo saggio di John Dewey Democracy and Education (1916) è giustamente considerate un’opera fondamentale: fondamentale entro l’opera del grande pragmatista-strumentalista statunitense, fondamentale per la Pedagogia del Novecento, fondamentale per l’Attivismo “storico” europeo (il quale, pure, a quel tempo aveva già detto gran parte di quanto aveva da dire), e via elencando.
Dovremmo riflettere su quanto sia fondamentale essa per noi come professionisti, per la professione del Pedagogista.
Per certi visti, l’abbiamo già considerata per tale dal punto di vista storico, come chiara individuazione dell’origine della Pedagogia e della Filosofia assieme, e assieme a quella della professionalità relativa, con i Sofisti e Socrate . Notiamo che si trattò di una professionalità non rivolta all’infanzia né alla fanciullezza, e nemmeno alla scuola.
Come noto, quel saggio si rivolge criticamente avverso tutta una serie di dualismi: pensiero - esperienza studi intellettuali - studi pratici, cultura umanistico-letteraria - cultura scientifica, conoscere - fare, e via elencando. Sono dualismi, più che altro, di origine filosofica. Essi, in effetti, non esistono nella realtà sociale e culturale bensì costituiscono degli strumenti per schematizzare tale realtà, e per schematizzarla in modo poco profittevole sotto il profilo educativo, pedagogico, scolastico: anche questo Dewey lo illustra bene, individuandone talune radici nell’insegnamento di Platone
Con lo stesso spirito, consideriamo con attenta critica il dualismo Teoria-Prassi. Quei dualismi, ed innumerevoli altri, sono riconducibili agevolmente al dualismo Teoria - Prassi che è anch’esso filosofico. Verrebbe da richiamare il Gentile del Sommario di pedagogia come scienza filosofica del 1913-1914, quello cioè secondo il quale “la soluzione di questo problema pedagogico non avrebbe potuto esser data da una filosofia incapace di superare il dualismo di psicologia ed etica, poiché la pedagogia è psicologia per un verso ed etica per l'altro. E diciamo dualismo di psicologia ed etica, per usare i due termini che dal principio del secolo passato (da Herbart in poi) sono in campo in tutte le definizioni della pedagogia. Ma si può egualmente dire ogni dualismo, in cui si rappresenti in genere l'illustrata opposizione di quel che è e di quel che dev'essere: fatto e valore, casualità e ordine, natura e spirito, legge e norma spirituale, necessità e libertà, ecc. Viceversa, la soluzione è già data quando la filosofia abbia superato siffatti dualismi” A parte la non condivisione della sbrigativa e riduttiva critica allo Herbart, certo non si concluderebbe che “ c'è la filosofia, e s'impone il concetto che la pedagogia è la filosofia.”, anche se si potrebbe benissimo concordare che “non c'è più una psicologia e un'etica tra cui scegliere”.
Quel dualismo, e tutti gli altri ad esso riconducibili, va superato non nel senso di un’integrazione indifferenziata dei due termini; bensì nel senso che i piani del discorso, almeno per quel che riguarda la Pedagogia (e la professionalità relativa) sono tre, e non due. Tra i due piani esiste un piano “di mezzo” (appunto), che potremmo chiamare “dell’applicatività”, e che ad esempio viene chiamato Empirie dalla Systematische Pädagogik: è il piano su cui si esercita propriamente la Pedagogia professionale, e che consente la tenuta dell’intero quadro, su tre piani, del discorso pedagogico.
Vale l’analogo per dualismi che indicano la stessa polarità: rispettivamente prescrizione - descrizione, normativa - fattualità, principi - esperienza, valori - vissuto, dover essere - essere o sein - sollen, filosofia - storia, e via elencando. La Pedagogia richiede il piano di mezzo, e il Pedagogista professionale esercita prevalentemente su di esso, mediando (nei due versi) tra i due piani.

La Pedagogia professionale come mediazione, e il suo concreto esercizio

Ad esempio: che fumare faccia male e sia proibito da qualunque trattato o da qualunque luminare della Medicina è un tipo, particolare, di prescrizione; la corrispondente descrizione di fatto potrebbe essere una statistica circa il consumo di tabacco, oppure la semplice constatazione che certi soggetti (ad esempio nostri colleghi, o nostri studenti, o nostri interlocutori) fumano, o che vi è correlazione tra il fumo e certe malattie. Ebbene, va da sé che il Pedagogista non si può limitare né all’una dimensione, propria dei medici, né all’altra, propria dei sociologi: egli deve mediare tra le due pur partecipando d’entrambe e ad entrambe, onde rendere meglio applicabile la prescrizione teorica nella Prassi, e portare la Prassi sempre più vicina e meglio rispondente alla prescrizione teorica.
Oppure, una prescrizione può essere quella secondo la quale vi è, in un certo tratto di strada, per determinati veicoli in certe condizioni, un limite di velocità. Una descrizione può riguardare lo stato delle velocità tenute dai veicoli in quel particolare contesto, magari per constatare che quella prescrizione non è osservata, e quali siano le conseguenze di quella particolare inosservanza. Qui si inserisce il Pedagogista, che deve mediare tra i due termini cercando di colmare la discrepanza: il che, poi, metodologicamente si chiama porre un problema. In senso tecnico, per noi, il problema è una razionalizzazione di una situazione problematica, cioè di una contraddizione tra asserti stabiliti: gli uni sul piano della Teoria, gli altri sul piano della Prassi. Porre un problema significa reagire positivamente, costruttivamente al divario e alla contraddizione constatati, per cercare di risolverli.
Notiamo, dal punto di vista dottrinale, come questa delineazione del terzo piano anziché della sintesi tra i due, e questa rigorosa definizione del problema distinto dalla situazione problematica, non siano presenti nel Pragmatismo “classico” né nello Strumentalismo di Dewey, bensì nel Neo-pragmatismo attuale.
La Pedagoga, e il Pedagogista, partecipano sia della Teoria che della Prassi: e già qui c’è una prima peculiarità, rispetto alle distinzioni che in altri campi giustamente si operano: si pensi a quelle tra Filosofo della Scienza (o Logico della Ricerca) e Storico della Scienza, alle polemiche tra Popper e Kuhn, a tanti discorsi di Lakatos e di Feyerabend diventati da tempo dei “classici”.
Ma soprattutto, quando abbia la necessaria cognizione sia della Teoria che della Prassi, è proprio quello il momento nel quale il Pedagogista inizia ad agire per tale e nel suo specifico. Lo specifico del Pedagogista è in tutto quanto è educazione: negli esempi portati, educazione a non fumare e a non correre oltre i limiti, come in generale ad attenersi alle norme sanitarie, stradali e a tutto quanto viene normativamente dalla Teoria; ma anche nel verso reciproco, a portare al livello della Teoria quanto nella Prassi la riguarda problematicamente, ad esempio indicando la via della revisione delle norme del codice della strada che sono inattuabili (perché inattuali, o perché non osservabili, o perché non controllabili, …) e propiziando l’evolversi della normativa sanitaria in modo da renderla sempre più umanamente congrua ed applicabile, considerato che la si applica a soggetti di cultura e non ad animali d’allevamento o a vegetali di coltivazione agricola.
Una Pedagogia che agisca sul piano della Teoria in via esclusiva, o prevalente, o comunque subordinata, una Pedagogia come scienza normativa, è possibile: è altra cosa rispetto a ciò che si intende oggi , e inadatta a consentire un positivo soddisfacimento del grande bisogno di Pedagogia che cresce nella società odierna in divenire, anche perché non consente e non fonda la corrispondente professionalità.
E del resto: abbiamo sotto gli occhi da anni una casistica impressionante di campagne di “educazione pubblica” i cui obiettivi sono non solo condivisibili, ma fin scontati. Pensiamo all’anti-droga, all’anti-alcool, all’anti-AIDS, all’anti-fumo, contro le stragi del venerdì e del sabato sera: gli esempi sarebbero infiniti. L’informazione, cioè la descrizione, l’informazione sulla Prassi, è stata enorme, è da dubitare che vi siano cose meglio note di queste evidenze scientifiche e sociali. Le prescrizioni sono chiarissime, inequivocabili, bombardano in ogni momento l’utente-ascoltatore-spettatore-destinatario. E pure, l’AIDS galoppa e la prevenzione è disapplicata,. I nostri giovani seguitano ad ammazzarsi sempre agli stessi modi i venerdì e i sabati sera, la gente si avvelena di alcool, tabacco, droghe naturali e di sintesi; e, purtroppo, anche su questo si potrebbe continuare a lungo l’esemplificazione.
E’ l’educazione, come oggi la si intende, che è mancata: si sente perfettamente che è mancata la mano dei Pedagogisti. I quali non si limitano all’attenzione per la Teoria normativa da un lato (pur con divisibilissima), e all’attenzione per la realtà “da correggere” dall’altra. Manca proprio questo: la mediazione , l’agire “di mezzo”.
Comprendiamo meglio, allora, perché fosse coerente con il Neo-Idealismo della destra hegeliana italiana, sia nella versione organica al Fascismo di Giovanni Gentile, sia nella visione anti-democratica seppur non fascista di Benedetto Croce, il negare qualunque professionalità a tutte le funzioni educative: a cominciare da quelle scolastiche. Si comincia a considerare che “chi sa, sa anche insegnare” per ciò stesso; vi si appone la necessità di una cultura unilaterale e zoppa (cosiddetta “umanistica”, appunto detta male) e condotta in modo acritico, replicativo, omologativo; si aggiunge una aspecifica “esperienza” che altro non è che la conta dei servizi con il calendario alla mano; e si sottrae così anche per questa via (come per altre) ogni e qualsivoglia possibilità di mediare la Teoria con la Prassi, cioè anche di potere così mettere in discussione i dettami di fondo che vengono dal “centro” mediante i riscontri negativi nella Prassi, e mediante le specificità di chi tra la Teoria e la Prassi sarebbe chiamato ad operare. Non sfugge a nessuno questo disegno essenzialmente totalitario e tirannico, anche se spesso si è portati a dimenticarsene, o a non darvi la necessaria importanza, o a non prestarvi la dovuta attenzione.
Il ridurre la materia pedagogica a Teoria da un lato e Prassi dall'altro, oltre a tutto in violazione della dottrina corrente, porterebbe in effetti a tagliar fuori la necessaria mediazione, questo in generale; il che, nello specifico, significherebbe rendere indiscutibile la teoria, e di pura esecuzione la Prassi. Si tratta di una necessità sempre esistita, ma che diviene più chiara oggi, di fronte al mutare dei problemi pedagogici esistenti (e pressanti), e di fronte alle insidie cui proprio in educazione è esposta la persona umana la quale non abbia l'aiuto dello specialista a ciò preposto.
Si capisce: quello scolastico è un caso particolare di un problema assai più generale, che ha molteplici concretizzazioni.
Ad esempio, la medicalizzazione dei servizi socio-sanitari è un caso evidente di assunzione acritica di principi educativi (generali!) che vorrebbe trovare solo esecutori sul piano della Prassi, e che tenderebbe ad escludere quella mediazione che condurrebbe alla critica.
Modelli medici che si trasferiscono alla Prassi senza che nessuno faccia neppure da filtro hanno già dimostrato ampiamente il limite di fondo di carattere generale: dalle varie terapie poi risultate fonti di malattie iatrogeniche, alle mode delle diete, da tecniche diagnostiche poi rivelatesi improprie e dannose alla propaganda di stili di vita presto espulsi dopo aver fatto tutto il male che potevano, gli esempi sarebbero innumerevoli.
Ma degli esempi di ulteriore significato li troviamo nel settore dello sport di massimo livello. Sarebbe facile parlare di “pratiche proibite”, più o meno rientranti nella dizione (sempre un po' incerta) di Doping: pratiche, comunque, nocive alla salute (specie a tempi più lunghi) per ottenere Performances artificialmente superiori alle possibilità umane soggettive. Ma non si tratta solo di questo: fosse solo questo, probabilmente basterebbe la critica interna ai teorici, purché svolta in un contesto internazionale e “aperto”. Lo si è ben visto negli anni ’90, con l'apertura del Paesi dell'Est al resto d'Europa e del mondo.
Comunque, già in tutto ciò la presenza e l’azione dei Pedagogisti non sono state volute, neppure nei casi di età dello sviluppo.
Esistono, poi, in questo settore parecchie pratiche che, pur essendo perfettamente lecite sul piano medico e sul piano dei regolamenti sportivi, per un Pedagogista solleverebbero parecchi ordini di critiche, fin a risultare anti-deontologiche.
Ci si riferisce, a caso esemplare, agli atleti bambini in generale, e agli atleti mantenuti bambini in particolare, anche quando ciò venga fatto con pratiche “lecite” nei sensi detti. Ad esempio, con diete non condivisibili e pur naturali, dell'ordine del migliaio di calorie al giorno in età di sviluppo e in corso di vite intensamente atletiche, che danno per risultato quelle figure orribilmente efebiche, a-sessuate, con solo i muscoli “che servono”, magrissime e corte come nel caso della Ginnastica Artistica, o magrissime e lunghe come nel caso del nuoto. Le Olimpiadi di Atlanta (1996, oltre a tutto “del centenario”) hanno dato un riscontro “internamente” positivo a queste pratiche; e, mentre i più soffermavano la loro attenzione critica sulla “adolescente anagrafica” che compiva vittoriosamente il volteggio al cavallo decisivo pur avendo una caviglia disastrata, nessuno o quasi segnalava che il suo corpo modellato e cresciuto sullo sport non sarebbe diventato mai quello di tutte le sue compagne che non fanno sport a quel livello, mentre quella caviglia si sarebbe aggiustata in breve.
Si trattava di persone umane “cresciute per vincere”: per vincere le gare, non la vita.
All’interno di quegli ambienti, i Pedagogisti non c'erano, non li hanno voluti e non li avrebbero accettati mai. Come non ci saranno mai dove gli allenamenti superano come investimento umano la sola relazionalità, o il solo studio (od entrambi insieme!) in età di sviluppo; o dove la strumentalizzazione dell'equilibrio psico-fisico sia analoga a quella dei cavalli purosangue, fatti per un solo scopo a scapito dell'integralità. “Educatori” sì, ce ne saranno e come! E quali! Cioè, degli operatori pratici, chiamati e qualificati e investiti esclusivamente di tradurre in atto ciò che il teorico (coerentemente, dal suo punto di vista) ha suggerito.
Chi, invece, potesse fare effettivamente da mediazione, anche mettendo in discussione gli obiettivi, rompendo ogni dualismo tra fini e mezzi, alla luce di considerazioni di congruità umana e di piena consapevolezza di tutte le conseguenze e di tutte le implicazioni, non viene ammesso né in quella sede né in altre analoghe.


Sulla “discutibilità”

E’ possibile parlare di Pedagogia in modo “non discutibile”?
Storicamente, la risposta è sì. Non si tratta certo dell’unico modo di parlare di Pedagogia, ma è un modo che ha avuto, ed ha, diverse concretizzazioni.
E’, ad esempio, il modo di parlarne come di una disciplina normativa, o prescrittiva. Si tratta di un concezione, a ben vedere, riduttiva, e che lascia tutto lo spazio per una sua ancillarità: la Pedagogia come una dépendance dell’Etica, o della Morale, dalla Politica o dall’ideologia, ad esempio. Comunque, della Teoria. Le regole sono prefissate e fissate esternamente, la Pedagogia è una sorta di codifica-translitterazione di quelle regole in termini educativi; una traduzione della Filosofia (ad esempio…) in linguaggio educativo, ad esempio scolastico.
Nel campo d’applicazione che per i decenni immediatamente precedenti veniva considerato largamente prevalente: si stabiliscono le funzioni generali cui la scuola deve adempiere; e poi si traduce il tutto in termini di programmi e di “istruzioni per l’uso” da parte del personale della scuola e poi degli allievi, con l’insegnante che esercita la Prassi, conseguentemente a quella Teoria, sugli allievi.
Si tratta di quel modo di considerare la scuola che è stato riformato nel nostro paese a partire dagli anni ’70 (leggi 118 e 820/71, 477/73 e Decreti Delegati, cosiddetta “mini”-riforma della Scuola Media 1977-81, riforma della Scuola Elementare 1981-90, riforma della Scuola dell’Infanzia 1987-91, e talune riforme dell’Università), e del quale si coglie una sostanza importante con l’introduzione della Didattica secondo Programmazione non contrapposta al Programma ma che consente di leggere meglio il Programma e la sua funzione.
E’ anche il modo di considerarla che Giampaolo Dossena ha preso di mira nel suo libello dal titolo Abbasso la pedagogia (Garzanti, Milano 1993), contrapponendo il gioco ad una sorta di educazione per imposizione di idee e stereotipi.
Rispondeva a tutto ciò l’educazione borghese, cosiddetta “tradizionale”, che consisteva essenzialmente nell’omologare l’educando a determinati “modelli” prefissati, indiscussi ed indiscutibili, impiegando qualunque strumento l’educatore ritenesse utile allo scopo. Sono cose che abbiamo discusso ampiamente, in particolare in Educazione 2000 (Pellegrini, Cosenza 1993) prima ancora di concepire quella propositività in materia professionale che si è recentemente concretizzata in Pedagogia della vita quotidiana (Pellegrini, Cosenza 2001).
In una visione uni-direzionale dell’educazione, dall’alto al basso, si capisce come vi possano essere molti educatori: esecutori passivi e supini delle decisioni pre-stabilite, delle norme pre-scritte, magari rispettati, onorati, fatti oggetto di qualche riguardo in quanto rappresentanti “in basso” di quel potere che dall’alto promana. In questa visione, ad esempio, l’insegnante è “vestale dell’ordine stabilito” (“del sistema”, si sarebbe detto dal Sessantotto a qualche anno dopo), piuttosto che non “della classe media”, come qualcuno ha proposto qualche decennio or sono, con una strumentazione sociologica non fatta oggetto, a sua volta, della necessaria mediazione.
In una Pedagogia normativa, l’educando non viene educato a scegliere secondo propri principi, ma semmai ad attenersi a scelte già pre-stabilite in conseguenza di criteri pre-fissati. Non si può parlare di “orientamento”, si parla piuttosto di una “retta via” (una, ed una sola) che è virtù imboccare quanto prima sia possibile, e seguire senza esitazioni e senza deviazioni. “Retta” significa “diritta” ma anche “giusta”. In quest’ottica, il dubbio non è virtù: virtù è la sicurezza, la certezza, l’incrollabile adesione; e la ricerca di alternative è un vizio grave, come la divergenza, che va guarito con tutti i mezzi e, se non è possibile, va condannato come eresia e in qualche modo “bruciato”, arso perché non si propaghi come fosse un’infezione.
Si comincia con un semplice “mangia perché è buono” incuranti della semplice evidenza che “de gustibus non est disputandum”. Si comincia facendo figurare come un gioco regole imposte (le bambole vestite da monaca di Gertrude, poi “Monaca di Monza”), e non regole che in tanto sono tali in quanto sono di interesse comune, per bambini innocenti e che non possono capirlo: tutte le regole riassumibili nell’istanza genitoriale “fai e diventa ciò che io voglio, fammi fare bella figura di fronte agli altri come se ti avessi plasmato quale oggetto di mia personale opera; da grande capirai e farai altrettanto con i tuoi figli-educandi”. E si arriva , in modo abbastanza diretto ed in fondo semplice, a pensare che gli studi, il lavoro, la stessa vita di coppia e di famiglia debbano seguire vie prestabilite, che gli stessi genitori considerano precedenti e superiori a loro stessi.
Troppa teoria pedagogica si è nutrita di sé stessa, astrattamente, senza un riguardo adeguato per la Prassi ed in particolare per i riscontri negativi che ne poteva ricavare per evolversi sul piano scientifico. Sarebbe già molto se il Pedagogista Professionale fosse chiamato a garantire questo, anche come metodologo.
Ma il Pedagogista professionale è chiamato (anche) a fare qualche cosa di più, e di maggiormente qualificato. Nella dialettica chiusa tra Teoria e Prassi (o meglio, tra teorico e pratici) non esiste la critica. L'unica critica che può esistervi è, semmai, quella della non funzionalità: ma la storia e la letteratura pedagogica ci insegnano in modo adeguato che un progetto educativo autoritario che sia ben elaborato dai teorici e da questi controllato con gli strumenti adatti, e che trovi i pratici disposti ad attuarlo in quanto tali, può avere successo, e di fatto spesso ne ha di terribilmente totale.
E' possibile formare negli uomini delle figure omologate anche in un senso umanamente incongruo, ma secondo interessi che hanno una giustificazione teorica. E' possibile formare la Hitler-Jugend come il bambino-teledipendente, la guardia rossa come il bambino di Spock, la madre latina come il suddito fedele, l'angelo del focolare come il tengo-famiglia, il balilla come il pioniere, la marine come il khmer rosso, il consumatore come l'ideologizzato di fabbrica, ...
Ciò, proprio quando manchi chi possa muovere, per investitura socio-culturale, la critica dall'interno e nello specifico del “fare pedagogia” in termini di congruità umana, cioè appunto di quel Pedagogista professionale che si trova nella posizione di medietà. E' colui che può introdurre considerazioni attinenti alla messa in discussione dei fini in quanto tali, e non solo di come i fini possano essere perseguiti e con quali mezzi, mettendo in discussione altresì una determinazione prefissata dei fini affidata ai teorici, e una pura e semplice assunzione e messa in atto del tutto da parte dei pratici.
Il Pedagogista, in questo senso, è garanzia di equilibrio umano, di congruità: è garanzia di democrazia.
In tutti i casi nei quali il progetto educativo si è realizzato attraverso una pre-determinazione dei fini e delle linee generali, dei modelli, da parte dei teorici, e una messa in atto da parte dei pratici, i risultati hanno potuto essere positivi ed anche brillanti alla luce della Teoria, ma è mancata la critica alla luce di altre considerazioni umane altrettanto fondamentali.
La discutibilità potrebbe giocare per la Pedagogia (e per quella professionale in particolare) un ruolo analogo a quello che gioca la falsificabilità nella conoscenza scientifica, e la controllabilità nella democrazia e nella società aperta. Ci riferiamo, esattamente, a quell’inquadramento teorico e metodologico e a quella corrente di pensiero che ha origine nel Pragmatismo statunitense “classico” e poi si è sviluppata nella Pedagogia europea dei primissimi decenni dello stesso secolo attraverso l’Attivismo propriamente detto, o “storico”, il movimento delle Scuole Nuove, l’Educazione Progressiva


Sulla ricerca continua

Il che ci porta direttamente alla metodologia della ricerca che diviene componente essenziale sia della Pedagogia professionale, che della Pedagogia tout court, deweyianamente “senza aggettivi”. Il Pedagogista è, anche, un metodologo.
Contrapposta all’idea di una normativa che si cala dall’alto, e senza alcuna legittimazione né alcuna giustificazione razionale, vi è l’idea della ricerca continua. Non più “il meglio è nemico del bene”, quasi che fosse possibile nelle cose umane un bene assoluto, in nome del quale ogni altra potenzialità e risorsa umana viene sottomessa, compressa oppure asservita e consumata; bensì “il bene è nemico del meglio”, motto nel retro-frontespizio proprio di Educazione 2000, come monito a che nessuno ostacoli, in nome di un preteso “bene” o “Bene” assoluto, quella ricerca continua di un meglio relativo, storico, contestuale, che è sempre possibile, e il cui perseguimento dovremmo imparare a considerare come deontologicamente umano.
Anche in questo vi è una sostanziale convergenza chiara tra l’Epistemologia del ‘900, e il Pragmatismo “classico”, in particolare nella sua versione strumentalistica. Una teoria è scientifica (in senso stretto), un sistema politico o sociale è democratico ed aperto, un modo di pensare è evolutivo, solo se si svolge “per problemi” mediante l’avanzamento di ipotesi che consentono il controllo fattuale con l’esperienza futura sulle conseguenze logiche che ne derivano.
Ecco una delle tante possibili citazioni di Dario Antiseri, nell’ambito della Logica della Ricerca secondo il Razionalismo Critico (o Falsificazionismo): “Un problema, dalla prospettiva logica, è sempre una contraddizione tra asserti stabiliti (tra due teorie, o tra una teoria e un asserto che, per quel che ne sappiamo, descrive un fatto). Psicologicamente, un problema si manifesta nelle esperienze di meraviglia e di sorpresa. […] La meraviglia e la sorpresa sono i vestiti psicologici di quel fatto logico che è la contraddizione tra asserti stabiliti: tra il sapere che si pensava di avere e i fatti che accadono.” . Al problema seguono le fasi delle teorie e delle critiche.
E’ largamente analoga, al riguardo, la proposta avanzata da Dewey di quella che egli chiama “esperienza riflessiva” i cui “aspetti generali” sono “a) perplessità, confusione, dubbio, dovuti al fatto che si è implicati in una situazione incompleta, il cui pieno carattere non è ancora determinato; b) una previsione congetturale, un'interpretazione azzardata degli elementi dati, in forza della quale si attribuisce ad essi la tendenza ad effettuare certe conseguenze; c) un esame attento (ispezione, investigazione, analisi) di ogni possibile considerazione atta a definire e chiarire il problema presente; una conseguente elaborazione delle ipotesi incerte per renderle più precise e più consistenti, in quanto suffragate da una quantità di fatti maggiore; e) decidere un comportamento in base all'ipotesi prospettata sotto forma di piano d'azione che si applica allo stato di cose esistente, fare concretamente qualcosa per provocare il risultato previsto, e perciò provare l'ipotesi.” .
In entrambe le prospettive, il “problema” acquista una funzione essenziale nell’evoluzione della conoscenza e della vita umana: è, insomma, un dato positivo. Ma, rispetto a queste posizioni, sono almeno due le modifiche che si propongono oggi.
Una riguarda la distinzione precisa che va instaurata tra la situazione di squilibrio, contraddizione, conflitto, difficoltà, che chiameremmo piuttosto “situazione problematica”, e il “problema” propriamente detto. Di mezzo ci sta la decisione umana, la quale non solo non è automatica né meccanica, ma è altamente selettiva: solo poche situazioni problematiche diventano problemi, un'esigua minoranza. Chiameremo allora “problema” la razionalizzazione di una situazione problematica, vale a dire la reazione positiva, costruttiva, dell’uomo che intende superare quanto egli incontra fisiologicamente, ordinariamente, comunemente di non armonico nella sua interazione con l’ambiente.
La seconda ammonisce che la reazione umana nel porre il problema non ha in sé alcuna garanzia di successo, come sarebbe per una lettura ingenuamente ottimistica di questi messaggi, confusi con asserzioni semplicistiche di un qualche oscuro ed ingenuo positivista ottocentesco. Al contrario, “le teorie sono frutto di creatività” (Logica della ricerca e società aperta, citata, pag. 5), cioè creazioni umane: tutto quanto si ipotizza e si elabora nel tentativo di risolvere il problema è imperfetto e fallibile, come ogni fatto umano.


Sull’insegnamento come mediazione.

Le idee che proporremo qui sinteticamente sulla mediazione scolastica non sono sovrapponibili a quelle sulle quali si è discusso su "Pedagogisti on Line" in questi ultimissimi tempi: ma non per questo sono contraddittorie, od incompatibili.
Si tratta, in buona sostanza, di rifiutare l’immagine dell’insegnante come di un soggetto che operi la Prassi sull’allievo; e di assumere l’idea alternativa esclusiva, secondo la quale è l’allievo che opera la Prassi dell’apprendimento su sé stesso, con l’aiuto dell’insegnante, il quale media tra Teoria e Prassi, prescrizioni e realtà, generalità e contesto,. La programmazione curricolare. La mediazione è nei due sensi.
L’apprendimento non è opera dell’insegnante. Non per questo si parla di “matetica”, semmai si parla di Didattica come scienza in senso stretto, nello stesso senso delle scienze naturali, e di quelle scienze della cultura che possono riconoscersi nelle medesime norme metodologiche. E’ scienza in quanto è pensabile come una sequenza di tentativi di risolvere problemi (nel senso detto) mediante l’avanzamento di ipotesi controllabili con l’esperienza che ne segue: controllabili, appunto, sugli allievi.
Negli anni ’90, dopo l’attuazione (con gravi disparità da regione a regione) del cosiddetto p.p.a., cioè del piano pluriennale d’aggiornamento conseguente ai Programmi 1985 della Scuola Elementare, furono sollevate delle polemiche coordinate, in particolare da parte del corpo degli Ispettori Tecnici, di non aver fornito agli insegnanti un adeguato apparato di strumenti pratico-operativi.
Ed invece, lo spirito del p.p.a., e prima dei programmi ’85, e prima ancora della commissione Fassino - Laeng operativa tra l’81 e l’83, era proprio reciproco: quello di consentire l’evolvere della professionalità docente, ed insieme dell’intera Scuola Elementare, proprio fornendo ai maestri quegli strumenti concettuali innovativi che ad essi erano mancati a causa di una formazione iniziale rimasta quella che aveva voluto Gentile nel ‘23, cioè solo culturale, neo-idealisticamente non professionale, prendendo decisamente e dichiaratamente le distanze dalla preesistente Scuola Normale, cioè scuola di metodo.
I ritocchi del ’52 ben poco avevano potuto fare in tal senso. La risposta si attendeva già allora da tempo, e si sarebbe attesa ancora parecchio, con la formazione universitaria completa, prevista fin dalla 477/73 e poi più volte riconfermata come principio, ma poi effettivamente partita solo nel 1998/99.
La questione non è puramente accademica. Certo, il p.p.a. può aver avuto le sue pecche nei principi come nell’attuazione, e a questo secondo riguardo chiunque abbia avuto esperienza in più regioni e in più settori disciplinari (come lo scrivente) può testimoniare dell’estrema disuguaglianza ad entrambi i riguardi sia come svolgimento sia come esiti pratici.
Tuttavia, qui è in gioco ben di più, e più ancora che non una questione di puro potere tra Ispettori ed operatori degli allora IRRSAE (Istituti con i quali gli Ispettori peraltro hanno collaborato organicamente, anche riguardo allo stesso p.p.a.). Qui è in gioco ben altro.
Se all’insegnante intendiamo fornire strumenti concettuali (ad esempio epistemologici, didattico-generali, linguistici, espressivi, relazionali: insomma pedagogici e di scienze dell’educazione), allora possiamo pensare all’insegnante come ad un mediatore tra una Teoria sulla quale anche gli Ispettori hanno le loro responsabilità, e degli allievi i quali sono chiamati ad esercitare la Prassi dell’apprendimento su di loro stesi, con l’aiuto di insegnanti meglio attrezzati alla bisogna.
Se, invece, pensiamo agli Ispettori (o a chi per essi) che forniscono agli insegnanti essenzialmente gli strumenti operativi, allora gli insegnanti si ridefiniscono propriamente come operatori pratici: operatori della Prassi sugli allievi che, a quel punto, diventano la materia prima di questa Prassi: di una Prassi, comunque, altrui.
Nel primo caso possiamo pensare anche ad un verso reciproco, ad un interscambio continuo tra il Piano della Teoria (in questo caso, Programmi, Ispettori, Ministero, IRRSAE od IRRE, legislazione, normativa, e tutto quanto è pre-scritto), e il piano della Prassi (la Didattica in aula e in situazione, l’apprendimento degli allievi, la realtà degli studenti, delle famiglie, del territorio e tutto quanto è contestuale) in una sana ottica di programmazione curricolare, di collegialità, di democrazia scolastica.
Nel secondo, no. Si può parlare solo di un verso, di un processo unilaterale, irreversibili, dall’alto al basso, dal prescritto all’attuato, dalla Norma alla Prassi, senza alcun ritorno. E’ un procedere tirannico, culturalmente oppressivo, rispetto al quale l’unica virtù del docente è l’attenersi quanto più fedelmente, supinamente, rigidamente, meccanicamente gli sia possibile alle prescrizioni: e per questo può essere premiato. La Teoria non può mutare per istanze provenienti dal basso, e non può essere quindi né scientifica, né democratica.
Anche in questo caso, l’insegnante come “figura di mezzo”è garanzia di rispetto della persona nell’allievo, di istituzioni democratiche (non solo scolastiche), ed insieme di un’evoluzione della scuola e della cultura scolastica analoga a quella di tutti i settori di studio e d’applicazione umana che possano dirsi, a rigore, scientifici.


Parte IV

Casi clinici, consulenze ed interventi on-line, supervisione

Una lezione di Pedagogia nella squadra di calcio dei più piccoli
Quella che segue non è la cronaca di una singola esperienza, bensì una realistica rielaborazione di una pluralità di esperienza coerenti, come oggetto, metodo e insegnamento

****

Una società di calcio, nell’ambito di un’intensissima promozione della pratica sportiva in tutte le categorie giovanili, spinge lodevolmente il suo intento fino ad anticipare la già tenera categoria dei cosiddetti “pulcini”, cioè dei fanciulli fino ad 8 anni d’età. Distinguendola esplicitamente da quella categoria, istituiscono una categoria inferiore dei bambini a partire dai 5-6 anni: qualche difficoltà nasce per trovare una denominazione e, dopo una certa permanenza del termine proposto degli “ovetti”, cioè di come il bambino può riconoscere immediatamente la fase precedente a quella del pulcino, si opta per la dizione di “primi calci”, meno impegnativa e, in qualche modo, richiamante i “primi passi” sia metaforici che realistici nella vita del bambino..
L’iniziativa trova qualche altra società solidale nel territorio, il che consente parecchie partite nel primo anno d’attività, e l’anno dopo un vero e proprio “campionato locale” ufficioso. Ovviamente, l’impostazione sia degli allenamenti che delle partite è stata sempre, esclusivamente e indiscutibilmente, ludica: gli allenamenti sono sedute di puro gioco, nel semplice rispetto delle regole basilari e nel dispendio delle energie dei bambini attentamente misurato e scevro da ogni eccesso, e le partite sono arbitrate dagli allenatori più esperti e sensibili, con una tacita previsione di un continuo turnover di tutti i bambini disponibili del tutto indipendentemente dalle qualità dimostrate e dall’esperienza maturata, e senza alcuna attenzione per il risultato in termini di reti messe a segno, comunque abbondante, e stemperato alla fine da un certo numero di calci di rigore fatti tirare a tutti i bambini presenti.
L’iniziativa è ben gestita socialmente, con frequenti raduni attorno a tavolate imbandite con alimenti sani e thè a volontà, e vale ad avvicinare bene i bambini allo spirito sportivo e ad un certo impegno atletico senza alcun agonismo e semmai con tutti i vantaggi dello spirito di squadra.
Ovviamente, ne è parte una previsione di periodici incontri con i genitori: questi trovano una discreta frequenza.
E qui nascono gli unici problemi: che sono, come noto, anche le occasioni più attese per la riflessione pedagogica.

****

Una delle prime riunioni d’incontro con i genitori. La sala è gremita. Al tavolo della presidenza siedono un rappresentante della società, i due allenatori delle giovanili, e l’allenatore capo della prima squadra, un po’ discosto, con l’aria di chi è lì più per ascoltare e sovrintendere che non per parlare.
Il dirigente spende poche parole, per lo più in dialetto: riconferma l’impegno della società anche per le categorie più tenere dei futuri calciatori, e che questo servizio viene reso senza attendersi alcun ritorno in termini di agonistica: la società è paga di aver propagandato lo sport del calcio, nel quale crede, e non chiede altro che vedere dei bambini giocare, divertirsi, stare insieme con il dovuto cameratismo.
Prendono poi la parola i due giovani allenatori delle squadre “minori” per età, i quali descrivono con dovizie di particolari e senza tecnicismi il buon lavoro fatto, i progetti ragionevolmente fondati sull’esperienza compiuta, e il loro compiacimento per lo spirito giusto che ha animato la partecipazione dei bambini a questa iniziativa; una partecipazione che, oltre a tutto, è stata assai nutrita, assidua, ed è in evidente intensificazione.
A quel punto, e senza neppure aspettare che i due giovani tecnici completino la loro esposizione, intervengono alcuni genitori: quelli che non hanno mai fatto mistero di vedere nei loro figli dei futuri campioni, e di puntare a questo e solo a questo. Sono quegli stessi che partecipano alle partitine non con lo spirito festoso del gioco comune, ma con un atteggiamento da “tifoso” autentico, stimolando così un agonismo esasperato con un tifo che sarebbe stato appropriato solo in uno stadio delle serie maggiori.
Le domande sono parecchie, ma si possono ricondurre essenzialmente a due tipologie di fondo: “Mio figlio mi dice che non avete fatto alcuna preparazione atletica, né in palestra prima di entrare nel campo, né in campo prima del lavoro con il pallone. Come mai? Quando pensate di provvedere?”; e “Questi bambini giocano senza schemi. Perché non glieli insegnate? Quando prevedete di correggere questo gioco disordinato?”.
Il rappresentante della società ribadisce la scelta per una finalità esclusivamente ludica e, semmai, di promozione; ma non ha molto da dire. E’ soprattutto uno dei finanziatori e degli organizzatori della cosa, in cui crede, ma non è in grado di argomentare più oltre quella che è stata una scelta convinta, ma istintiva, d’amore per lo sport e per i bambini, mai fatta oggetto di inutili approfondimenti razionali.
I due allenatori sono preparatissimi su come si fanno giocare i bambini, su come si coltiva un valido spirito di squadra, sul ruolo che può avere un calcio adeguatamente semplificato nel perseguimento di questi scopi, sui limiti del corpo di un bambino: sono validissimi tecnici e lo confermano, ma non sono in grado di rispondere “da politici” a questi interrogativi. Li definirebbero fuori luogo, ma evidentemente capiscono che debbono astenersi dal farlo: lo adombrano appena, ma quei genitori non sembrano darsene ragione, ed insistono, rincarano la dose. Secondo loro, a 5-6 anni dovrebbero seguire una formazione assolutamente analoga a quella che, correttamente, si pratica solo ad età più avanzate, e solo per quanti abbiano effettivamente qualche mira pe4r il futuro agonistico.
E’ il momento dell’Allenatore Capo, il “Mister” della prima squadra, quella dei grandi, che praticano l’agonismo vero, quello del campionato maggiore: colui che ha lanciato anche alcuni promettenti agonisti.
Le sue parole sono pacate ma molto ferme, ben studiate e misurate nei toni e nella scelta dei termini, un po’ tecnici e un po’ di linguaggio comune: “Vedano, signori: le più recenti scuole di pensiero sull’avviamento precoce dei bambini al calcio suggeriscono di seguire un approccio diverso, l’approccio si-tua-zio-na-le. Per-pro-ble-mi.”
La sala, che fino a poco prima era animata di continue interruzioni, è in silenzio assoluto: non si sente né un volar di mosche, né un respiro concitato di chi si contiene a fatica. Tutti stanno ascoltando avidamente.
“I calciatori debbono proporsi di completarsi anche dal lato della preparazione atletica, e di una preparazione atletica molto accorata e specifica per il gioco del calcio; così come hanno nel loro futuro non lontano anche l’acquisizione di schemi di gioco e di tecniche e tattiche adatte a ciascuna fascia d’età. Ma a questo debbono essere fatti arrivare, e prima debbono avvertire chiara la necessità di arrivarvi. Per fare ciò, occorre creare le si-tua-zio-ni adeguate. Ed è quello che si può e si deve fare a queste età, e che i miei giovani collaboratori stanno facendo, devo dire, con grande competenza e professionalità oltreché con passione e sensibilità verso lo specifico infantile.”
Nessuno si immaginava una simile procedura. Quei pochi che non vedevano solo l’occasione di gioco di squadra, pensavano alla formazione precoce di un campione “finito” anche a 6 anni, che avrebbe dovuto solo crescere di conseguenza. L’allenatore capo proseguì, con il medesimo tono calmo e fermo di chi conosce bene il suo mestiere ed intende affermare la sua competenza.
“I bambini, giocando, si trovano sempre in situazioni tali da comprendere che ci vorrà un ordine nella loro disposizione in campo. Nei primi mesi ed anni, durante le prime partite, dove arriva un pallone, tutti tranne i due portieri accorrono spontaneamente e senza pensare: ma ben presto si accorgono che questa non è la strategia più efficace, in quanto alcuni di coloro che accorrono non hanno la materiale possibilità di intervenire ed anzi si ostacolano a vicenda, mentre le altre zone del campo restano scoperte.
Ben presto, anche con le adeguate suggestioni dei loro tecnici, comprendono la necessità di disporsi in modo più ordinato, con l’accordo che solo alcuni tra di loro inseguano il pallone, o il portatore di palla, a seconda di dove esso si trovi: non sono schemi di gioco e non devono esserlo. Non-an-co-ra. Ma su quella base sarà non solo facile insegnare loro gli schemi, e insegnare a rispettarli perché ne hanno capito la necessità e lo scopo; ma anche faranno della tecnica e della tattica di gioco un elemento importante per qualificare ulteriormente lo spirito di squadra.
Anche la preparazione atletica, che tutti siamo d’accordo nel considerare un adempimento necessario, ed importantissimo, nella formazione del calciatore, viene con la situazionalità, con la motivazione che la renderà meglio accetta e consentirà di svolgerla più a fondo e con la piena collaborazione convinta dei giocatori a tempo debito.
Adesso, i bambini tendono a dare tutto quello che hanno ad ogni azione. Corrono anche da una parte all’altra del campo alla caccia di palloni spesso vaganti. Con la conseguenza che arrivano “con il fiatone”, senza il necessario spunto per prevalere, per portare l’azione al compimento dovuto; oppure calciano troppo debolmente, od ancora non riescono a saltare alto come vorrebbero per raggiungere di petto o di testa i palloni più alti.
Tutte queste, e le altre che loro possono facilmente immaginare, costituiscono altrettante situazioni nelle quali matura nei bambini la necessità di essere meglio attrezzati sul piano fisico. I tecnici sanno che questo dovrà venire più avanti, e più avanti verrà. Colgono la situazione per motivare, per sensibilizzare, i bambini, perché capiscano la necessità, l’opportunità di questa prospettiva. Una prospettiva che, a quel punto, gli stessi bambini si augurano. E difatti, come tutti vediamo e constatiamo con piacere, hanno trasmesso tale anelito anche a loro genitori.”
Con il che, oltre a dare a tutti una grande lezione sia di Pedagogia Generale che di Metodologia Didattica, l’Allenatore Capo aveva dato anche una grande lezione di Retorica, volgendo a gratificazione per i genitori quella che sarebbe potuto essere una contraddizione o una critica, pur necessaria e dovuta.
Ecco come si può manifestare, in senso proprio e pieno, la competenza pedagogica. Sia riguardo ai bambini, che riguardo agli adulti.

Il caso di due cuori, tre bambini e una dacia

Annamaria è una collega non ancora quarantenne: esercita la libera professione di Commercialista, ed è docente a contratto presso l’Università. Professionista impeccabile, come docente è assai volonterosa e sempre disponibile: a differenza di molti altri contrattisti esterni, che impiegano la loro qualifica solo per meglio spendersi nella professione e all’Università danno il meno possibile, essa ha invece sempre dato molto all’Università e agli studenti, in particolare curando la relazione di un numero molto elevato di tesi di laurea, tutte peraltro seguite con la massima attenzione e caratterizzate da un grande ed apprezzato rigore.
Una delle regole di fondo che sembra essersi data fin dal principio è consistita nel tenere sempre nettamente distinta la sua vita professionale da quella privata. E’ stato questo che le ha consentito di mantenere un elevato livello di professionalità, sia nell’Università che nella libera professione, nonostante le non facili traversie familiari cui è andata incontro negli ultimi dieci anni.
Essa si è sposata verso i trent’anni, dopo una lunga relazione, con un uomo di circa quarantacinque. Da quel che ha lasciato trapelare, quell’uomo aveva fin dal principio incarnato per lei una figura essenzialmente paterna: era stato suo docente durante i corsi universitari, poi l’aveva presa a fare tirocinio nel suo ufficio di libero professionista fino all’esame di stato, e successivamente l’aveva cooptata come collaboratrice a pieno titolo in quell’ufficio, molto ben avviato e carico di lavoro. Ella ne era rimasta colpita fin dal principio, e l’ha seguito in tutto. Impossibile farsi dire quando sia iniziata anche la loro relazione sentimentale, così fortemente intrecciata alla relazione maestro-allieva e alla collaborazione professionale tra un professionista affermato e una professionista in formazione. Per lei, il sentimento verso di lui deve essere nato quasi subito, e sembra non essere cambiato da quand’era studentessa fino a dopo il matrimonio; di lui e dei suoi sentimenti, invece, nulla si conosce. Lei, peraltro, è molto femminile, di una notevole avvenenza che gli anni non scalfiscono, molto intelligente ed insieme sensibile.
Subito dopo il matrimonio ne ha avuto due figli; e quasi in immediata successione (siamo verso i trentatrè- trentaquattro anni di lei) si cominciano ad avvertire dei segnali di crisi della coppia. Lei stessa, per solito assai riservata, si lascia sfuggire sempre più spesso frasi del tipo “C’è una donna che sta comportandosi scorrettamente con mio marito.”, oppure “Qualcuna vuole prendersi il mio uomo.”. Nessuna parola riguarda il comportamento di lui, quelle parole che vengono profferite hanno per oggetto sempre “l’altra” e il comportamento di lei. Il matrimonio non dura più di un’altro anno: poco dopo i trentaquattro anni, lei va via di casa con i due bambini, e se ne torna provvisoriamente a vivere con i suoi genitori, in una casa del paese di cui è originaria, vicino alla città dove aveva studiato e, poi, aveva vissuto e lavorato con il suo primo uomo.
Qui conosce un altro uomo, più giovane di lei, e conosce un’altra forma d’innamoramento, un sentimento profondamente diverso. Da allieva-figlia-subordinata diviene partner materna: guida il suo nuovo uomo verso una sistemazione professionale, e dalla relazione nasce un terzo figlio.
Inizialmente, i due vivono con i genitori di lei. Poi, è lei stessa a porre e ad affrontare il problema del “metter su casa” con il nuovo compagno. Le disponibilità economiche non sono cospicue, anzi il processo di avviamento del nuovo studio professionale richiede molte risorse: ma c’è un terreno di sua proprietà poco fuori il paese; ed è possibile sostenere la spesa di una casa prefabbricata di origine russa, che pare adeguata alle necessità.
La dacia! Ecco la soluzione. E’ lei che la sceglie, la ordina, ne cura la posa in opera.
E per qualche tempo la si sente gioiosamente riferire prima il progetto, poi la costruzione, e quindi il trasferimento con il nuovo compagno e i tre figli nella nuova dimora. A quel punto, ha trentott’anni.

****

La collaborazione con l’Università continua, e del resto l’Università stessa non potrebbe fare a meno di lei senza gravi contrattempi, in quanto lei si era sempre spesa molto nella collaborazione, assumendosi oneri che, di solito, i contrattisti esterni tendono ad evitare. Continua, con qualche problema: nulla di particolarmente nuovo, la collaborazione con l’Università è sempre stata problematica in qualche misura, per lei come per tutti. Ma può sembrare che, stavolta, lei accusi quei problemi in modo visibile, a differenza di quanto ha sempre fatto.
Anche il nuovo ufficio, in società con il nuovo compagno, stenta e decollare. Il lavoro c’è, e nel ricco Nord Est i Commercialisti esperti hanno di che vivere assai bene: ma l’avviamento richiede tempi e sacrifici, non del tutto compatibili con la gestione di problemi personali e familiari di evidente cospicuità.
Insomma, è un anno circa che Annamaria non è più lei. Quel fare sorridente e sicuro, che dà da solo la sicurezza che tutti i problemi siano risolubili senza difficoltà, sembra essersi spento. E’ spesso cupa, a volte fin irritabile. A guardarla bene, la sua femminile avvenenza sembra appannata. Anzi, è visibilmente oscurata. Non è l’età, di certo: l’età non le fa alcun torto. Lei sarà avvenente anche a cinquanta, anche a sessant’anni, ne siamo tutti certi.
Sarà per i problemi dell’avviamento dell’ufficio. Oppure per quelli accademici. L’Università non si comporta verso di lei con la dovuta riconoscenza, con il rispetto che avrebbe meritato.
La voce che gira tra colleghi si accontenta di simili spiegazioni. Anche se, a ben vedere, non spiegano niente: per una donna come lei, avviare uno studio professionale con un nuovo compagno non deve essere un problema, come non lo era il rimanere nello stesso studio con l’uomo amato che si era messo con un’altra. E quanto all’Università, la scarsa riconoscenza, la totale mancanza di rispetto, ci sono sempre state. Anzi, era proprio di fronte a questi modi di agire che lei esaltava la sua femminilità, insieme salda e comprensiva, di chi si assume le difficoltà altrui e restituisce possibilità di soluzione.
No, non dev’essere per questi motivi che Annamaria ha così vistosamente cambiato il suo modo di presentarsi e di apparire. C’è di sicuro qualche cos’altro.

****

Ci vuole l’occasione per un’interlocuzione che appaia casuale, ma che assicuri il tempo necessario. E occasioni del genere, prima o poi, la collaborazione con l’Università ne offre. Capita con qualche frequenza che un pomeriggio venga interamente riservato ad impegni accademici, per esempio ad esami, e che poi invece tutto si chiuda in un paio d’ore.
Non rimane che essere lì, e dimostrarsi disponibile all’ascolto. Sarà lei stessa ad aprirsi e a chiedere quel dialogo di cui ha bisogno, e da lungo tempo.
Infatti…
“Annamaria, ti vedo un po’ stanca.”
“Mah, sai, veramente la stanchezza c’entra poco. Ho sempre lavorato duro, e questo non mi ha mai dato problemi.” L’inizio è adeguato, Annamaria ripercorre volentieri le tappe del suo impegno lavorativo, nella libera professione come nell’Università, con qualche punta di orgoglio e senza esporre alcuna difficoltà né passata né presente. Le offro qualche spunto sulla sua collaborazione con l’Università, ma questo serve solo a confermare ciò che si era già capito: che per lei le difficoltà nei rapporti con l’Università, che indubbiamente ci sono, non costituiscono neppure esse un vero problema come non ne hanno costituito mai.
Le chiedo dei ragguagli sull’ufficio, sulla libera professione; le offro dei cenni alla libera professione di Pedagogista, assai meno remunerativa rispetto a quella del Commercialista. Si parla anche dell’Ordinamento: la sua professione ha un Ordine professionale e un Albo cui si accede con l’esame di stato, quella di Pedagogista non è ancora ordinata, si lavora solo con riconoscimento del CNEN, e con certificazione delle associazioni di categoria.
Il lavoro, nei due versanti, diviene una sorta di supporto: il dialogo è ben avviato, prima o poi prenderà lei stessa la via risolutiva. Occorre darle qualche aiuto a porre correttamente il problema. Non sarebbe difficile, ma lei di “certe cose” non ha mai parlato.
Così parto dai tre figli, di cui lei ha sempre palato volentieri. Non è mai difficile farla parlare di loro: si comporta convintamente e felicemente come “mamma-chioccia”, passa con loro tutto il tempo libero che ha, li segue passo passo, conosce i dettagli dei loro studi elementari e, dell’ultimo, intende ritardare l’accesso alla Scuola Materna. La sera, sta con loro finché non si addormentano. Qualche volta si addormenta assieme a loro. Quando il compagno non c’è, se li prende spesso e volentieri nel lettone. Anche quando c’è. E questo avviene spesso….
Sì, oramai c’eravamo.
“Lui ha mai fatto dei problema per i due figli non suoi?”. La domanda era retorica, lei non avrebbe mai intrecciato una nuova relazione che fosse incompatibile con la sua propria genitorialità: ma occorreva che fosse lei a dirlo. “No, mai! Lui è affettuosissimo con entrambi, li ha accettati fin dal principio, e mi aiuta molto a tirarli su bene. Non può essere loro padre, ma ha sempre inteso nostro figlio come un loro fratello… insomma, è contento di questi bambini. Gioca con loro, è affettuoso. Fanno parte anche della sua vita, oltre che della mia.” “Non ne dubitavo. E la loro presenza è costante.”. Era così, bisognava lasciarle dire in che modo quella presenza potesse divenire problematica, se entrambi i Partner ne erano contenti. “E riesci a gestire bene tre figli piccoli, e un Partner giovane e innamorato…”. Il verbo scelto, “gestire”, è sufficientemente comprensivo: “Sì. I tempi per noi li troviamo. I tempi per noi ci sono. Ci sarebbero.”.
Ecco, oramai c’eravamo. Basta darle l’ultimo aiuto: “Ci sarebbero, dici: però….” E la guardo. Fissa. I suoi occhi cambiano espressione. Sembrano in effetti più distesi, come quando appare una liberazione tanto attesa.
“Ci sarebbero, ci sono. Come ci sono sempre stati. Ma in lui qualche cosa non va più da qualche tempo. Io credo che sia sempre innamorato di me, che lo sia come i primissimi tempi. Forse anche di più. Ma qualche cosa non va. Non so che cosa. Questo mi toglie da tempo ogni serenità. Come sarà mai possibile….”.
“Da qualche tempo, dici. Prova a pensare da quanto. O da quando.”
Il suo tono di voce è un po’ imbarazzato, ma solo all’inizio; poi si scioglie: “I primi tempi che siamo andati a vivere nella nuova casa sembrava anche per lui una conquista. Era innamorato più che mai, di me, dei bambini, di tutto.”. “Anche della dacia” azzardo. “Sì, anche della dacia. Ma poi qualche cosa si dev’essere rotto. Ora che ci penso, della dacia non parla mai. E agli inizi aveva condiviso con me quel progetto, se n’era appassionato come me, abbiano discusso insieme la scelta, l’allestimento, i dettagli…” e si distrasse un po’ divagando sui dettagli costruttivi e sull’arredamento della dacia. Ma doveva rimanere lì il discorso, perché lì c’era la possibilità di porre finalmente il problema. “La casa dei tuoi era una casa d’epoca, no?”. “Oh sì! Era un casolare di campagna parzialmente restaurato. Molto tipico. Magari un po’ scomodo.”. “Sì. E aveva dei muri interni molto spessi, e degli spazi ampi, no?”. “Certamente. I muri erano in parte fin di pietra, larghi così” e allargò di parecchio le mani ad indicare uno spessore inimmaginabile “e poi c’era tutto lo spazio che si voleva!”. “Tanto, da poter avere al momento dovuto tutta la riservatezza necessaria.” Volutamente impiegai il termine “riservatezza” in luogo di “intimità”, tanto non era necessario. Lei ormai aveva il bisogno di parlarne: “Sì, è così. I bambini avevano tutto lo spazio che volevano, e anche se c’erano pure i miei genitori, avevamo i nostri spazi. E ancora ne avanzava.”. Bastano poco parole interlocutorie, per aiutarla fino in fondo: “Invece, nella nuova dacia…”. “E’ bellissima, sai? Molto più confortevole. Però… però sì, gli spazi sono quelli che sono. Sono ripartiti in modo molto razionale, sai? Non manca niente.” “Proprio niente?” “Niente, ma dobbiamo chiudere la porta, e i bambini non hanno spazi a sufficienza dentro, tendono ad invadere tutta la casa.” “Anche la camera vostra, quindi.” “Ad iniziare dalla camera nostra. Tanto che, anche quando chiudiamo la porta, mi pare sempre di averli lì.” “Del resto, i muri interni non sono quelli della casa dei tuoi, no?”
Tacque solo un attimo. Doveva solo convincersi di aver capito, e aveva capito da un pezzo.
“Capisci, ora, perché lui accusa delle difficoltà?”.
“Hai ragione. E io che fin alzo la voce anche quando abbiamo chiuso la porta, per essere certa che i bambini ci sono. che sono sempre lì. Per sentirmeli ancora vicini. Che gli parlo di loro anche dopo averli fatti addormentare. Lui se li sente come se fossero ancora e sempre con noi. E’ proprio da allora, da poco dopo esserci trasferiti in quella dacia, che qualche cosa ha cominciato a non funzionare più tra di noi.”

****

Annamaria non ebbe difficoltà a ristabilire un equilibrio tra Partnership e maternità, anche nelle ristrette dimensioni di una dacia e dei suoi sottili muri divisori interni.
La rivedemmo ben presto tutti con l’aspetto di femminile avvenenza, e di rassicurante fermezza, con i quali l’avevamo conosciuta. E fu di grande aiuto in taluni nuovi problemi che si posero all’Università con la riforma dei tutoli accademici in vigore a partire dal 2001.


Il problema del "supervisore" per i Pedagogisti professionali

Generalità
Gli psicoterapeuti, anche grazie alla loro organizzazione in scuole e correnti per lo più verticistiche e piramidali, per ragioni storiche che rimandano ai “padri fondatori” di ciascuna corrente come gli stessi Freud,. Jung e Adler, si sono dati da tempo una organizzazione che consenta a ciascun professionista di contare su un aiuto che sia in qualche modo “al di sopra” (up) rispetto a lui (down), od anche che sia collegiale e tendenzialmente paritario.
Su questo, con riferimento all’applicabilità o meno di questo o di quel metodo per la Pedagogia professionale, si è avuto a più riprese negli ultimi anni un serrato e ricco dibattito, senza alcuna conclusione che non fosse aperta e problematica.
In sostanza, e dato che il Pedagogista per professione “aiuta”, chi aiuta il Pedagogista? Colui che pratica la relazione d'aiuto, da chi può avere aiuto? Non dimentichiamoci che “malattie professionali” come lo Stress (propriamente detto) e il Burnout colpiscono anche i Pedagogisti ,
La relazione d’aiuto in generale, e la relazione d’aiuto pedagogica in particolare , pone dei problemi specifici, essenzialmente diversi rispetto a quelli che pone la Psicoterapia, proprio per il suo carattere di alternatività esclusiva con qualsiasi forma di relazione terapeutica. Il che pone anche il problema della supervisione in termini più complessi, e ancora dottrinalmente non definiti, ma non meno pressanti come necessità sociale e professionale.
Potremmo fissare dei “no”, abbastanza facilmente: una figura di riferimento per i Pedagogisti professionali, clinici, sarebbe improponibile come ristabilimento di una “fisiologia” come elemento omeostatico, non esistendo una Fisiologia di riferimento interna alla professione in quanto essa non esiste né può esistere all’interno della Pedagogia,. La Pedagogia ha indubbiamente bisogno anche di riferirsi ad una Fisiologia, e ad una Legalità positiva: ma queste le mutua dall’esterno: come dire che, per compiti a ciò inerenti, il Pedagogista si riferirebbe ad un altro professionista di diversa cultura. L’unica “legalità” interna al Pedagogista è quella di metodo, delle norme epistemologiche della ricerca continua, per problemi.
Questo lascerebbe pensare che, essendo la “legalità” o “fisiologia” in senso stretto da riferirsi all’interlocutore (cliente, utente, assistito in altre professioni), un modello Up-Down per l’equivalente della supervisione in Pedagogia professionale non sembrerebbe proponibile. Tuttavia, ciò detto, sembra potersi ipotizzare ugualmente una figura di “collega di riferimento”, magari di “maestro”, che possa fungere da istanza ulteriore e diversa per l'interlocuzione senza alcun bisogno che essa possa o debba dirsi “superiore”, o “d'appello”.
Non è disponibile letteratura né elaborazione propositiva che consenta di andare molto oltre sul piano dell’enunciazione dottrinale. Sembra allora opportuno portare una testimonianza, quella dello scrivente, come possibile contributo positivo ad affrontare questa problematica (ed anzi, prima ancora, a porla correttamente come problema).
Allo scrivente, più che altro nella sua veste di docente universitario con il quale si sono formati fino alla tesi di laurea e agli esami di ammissione agli albi interni delle associazioni di categoria, molti degli attuali pedagogisti, non sono mancate le richieste da parte di allievi (specie del Veneto e del Friuli, ma non solo) per qualche forma di aiuto che potesse prendere il luogo della supervisione, sia nell'esercizio della loro professione che nell'avviamento ad esso.
Riferirò, qui di seguito due casi che mi sembrano particolarmente significativi anche per gli interrogativi che suscitano, e chiuderò con alcune riflessioni di carattere assolutamente generale.


Il caso della Pedagogista “schiacciata”
Due coniugi con una sola figlia piccola (6-7 anni) diagnosticata con problemi neurologici di qualche rilevanza, accusano alcune difficoltà conseguenti.
Queste non si ascrivono alla gestione della malattia della figlia: al contrario, tutte le evidenze concordano nel rapportare come questa sia ben curata da strutture specialistiche di assoluto prestigio e di riconosciuta perizia. Bensì, riguardano la gestione del ménage familiare in presenza di tale non lieve problema. Correttamente si rivolgono ad una Pedagogista: questa è professionista preparata, ma forse troppo dativa, o troppo sicura di sé.
E’ ben noto, e l’abbiamo scritto in tutta la letteratura espressa sul tema, che il Pedagogista professionale in relazione d’aiuto sotto forma d’interlocuzione pedagogica agisce di Einfühlung, vale a dire di una forma di “prendersi dentro la situazione problematica proposta dall’interlocutore, progettualmente e volontariamente, onde tentare di restituirla in un modo che possa essere per l’interlocutore stesso meglio risolubile.” . Il che implica, come in una gravidanza, che quando arriva il tempo giusto, la cosa va esteriorizzata. Anche perché se il Pedagogista così non facesse, andrebbe fisiologicamente incontro ad un logorio ben presto insopportabile, qualitativamente diverso della sindrome di Burnout anche se simile e più grave: da cui discende la norma relativa al reindirizzamento.
Ebbene quella professionista ignorò tale norma procedurale ineludibile, sia perché gratificata dalle attenzioni di quei due genitori, sia perché portata (scorrettamente, dal punto di vista deontologico) ad assumere il ruolo di una sorta di controparte degli Psicoterapeuti i quali, pur con le indiscutibili qualità, presentavano i loro inevitabili limiti umani. Va detto che essa era reduce da un fallimento negli studi psicologici tentati dopo la laurea in Pedagogia, in quanto questo potrebbe non essere estraneo alle motivazioni di questo comportamento professionalmente non corretto.
Ricevetti più telefonate da questa collega angosciata dall’eccesso di carico che quei genitori tendevano a riversare su di lei, in misura crescente. Il che si è manifestato anche nel fallimento di una serie di tentativi di operare il doveroso reindirizzamento professionale effettuati.
Credetti di tentare una via nuova: suggerii alla collega di effettuare un nuovo tentativo di reindirizzamento professionale, questa volta verso un medico psichiatra di un’importante struttura universitaria; e aggiunsi di improntare il successivo, imminente colloquio con quei genitori introducendo la figura mia che avrebbe anche potuto chiamare (a fini divulgativi) “supervisore”. In sostanza, ella doveva dire, con le parole e il metodo che la ormai prolungata frequentazione con quei genitori aveva potuto maturare, che “il suo supervisore” le aveva prospettato i rischi, già evidenti, di una relazione d’aiuto che si fosse prolungata ulteriormente, e aveva indicato precisamente il reindirizzamento non più differibile verso un Medico Psichiatra ben preciso appartenente ad una prestigiosa struttura universitaria. Si trattava di una persona che io effettivamente conoscevo e stimavo, e con la quale potevo all’occorrenza parlare.
I contatti non professionali ma di Stand-by tra i genitori e la Pedagogista sarebbero stati mantenuti, come sperimentato, attraverso cartoline o SMS.
La fanciulla ebbe le cure del caso, e la Pedagogista rimase come figura di riferimento, pronta a rientrare in azione alle successive necessità ma ormai liberata dal sovraccarico che l’aveva già schiacciata impedendole di svolgere la sua funzione professionale.


Il caso del padre sbagliato
Un (altro) Medico Psichiatra mi riferì un caso capitatogli nella libera professione, di un paziente in una crisi evidentemente acuta dopo alcuni colloqui con un’altra mia collega. Si trattava di un depresso reattivo non grave, di poco più di quarant’anni, sposato con prole e di dignitosa sistemazione sociale e lavorativa, il quale si era rivolto alla collega per dei problemi di rapporto di coppia, e ne era uscito affranto e disorientato a causa del ricorso da questa operato, con insistenza pesante, allo strumento concettuale del padre psicanalitico e del rapporto edipico irrisolto.
In realtà, quel soggetto aveva dei problemi di quel tipo: ma essi si ponevano in termini molto diversi da come quella collega sciaguratamente li aveva delineati, impiegando maldestramente strumenti concettuali non suoi propri, psicanalitici e per giunta terapeutici.
La cosa, peraltro, era chiara: egli aveva parole sempre di pesante critica verso il suo padre biologico ed anagrafico: da questo la collega trasse la semplicistica conclusione che egli doveva assolutamente e a qualunque costo “recuperare” quella figura, altrimenti non avrebbe potuto che peggiorare la sua situazione con sua moglie…
Ma le cose non stavano così. Il padre anagrafico e biologico era stato assente da casa e dalla famiglia, perché in carcere e per altri motivi, per larga parte delle età dello sviluppo di quel soggetto. La figura del padre, la figura maschile di riferimento, quel soggetto l’aveva avuta in uno zio, nel fratello maggiore della madre: persona a quanto pare eccellente, a suo volta buon marito e buon padre, e che comunque a quel ruolo ha adempiuto in maniera compiuta e con pieno successo.
Di ciò che non costituiva un problema, anzi era una delle poche certezze esistenziali del soggetto, quella collega sprovveduta e disinvolta aveva fatto l’origine di una valanga di problemi, che si accresceva indefinitamente man mano che la riprendeva da un colloquio interlocutorio all’altro.
Lo Psichiatra, dopo un adeguato chiarimento presso di me, ebbe gli strumenti per porre fine a questo inutile calvario, e per cercare altrove i problemi che sussistevano in quel paziente.
A quel punto, avvicinai io la collega. La quale comprese lo sbaglio di persona, ma resisteva a comprendere che l’errore più grave commesso era consistito nell’impiegare strumenti psicanalitici: non tanto in quanto non propri, ma essenzialmente in quanto un Pedagogista non è preparato ad affrontarne eventuali effetti collaterali, come nella fattispecie.
Provai a portarle la metafora della valanga, che rotolando si ingrandisce e s’aggrava inarrestabilmente, ma non servì.
Allora mi venne in mente una seconda metafora: quella della reazione nucleare a catena. Se si riesce a “moderarla”, cioè a farla avvenire con estrema lentezza prelevandone il calore e tenendo confinate le radiazioni, se ne possono trarre applicazioni civili (le centrali elettronucleari, ad esempio); ma se no, è la bomba atomica. Non capì, perché non conosceva la Fisica Nucleare, ma soprattutto non capì che per tenere sotto controllo un simile processo occorre un’elevatissima competenza assolutamente specifica. E non è detto che ci si riesca, come insegnano non solo Chernobyl, ma l’innumerevole serie di tragedie di apparati nucleari sia militari che civili che solo in parte sono note al grande pubblico. Niente, non serviva.
Fu a quel punto che mi ricordai della sua passione per la letteratura e il teatro, e le chiesi: “E l’apprendista stregone, ti dice niente?”. Il maldestro personaggio di Goethe, per no faticare a pulire i locali, riuscì ad addestrare la scopa e il secchio a farlo da soli, ma non seppe arrestarli ad opera finita: e i tentativi di affrontarli con l’accetta servirono solo a moltiplicare le scope e i secchi; finché solo il ritorno dello Stregone esperto pose fine ad un processo senza fine e di pericolosità indefinitamente crescente.
Perfino Walt Disney riuscì a trarne un cartone animato, con un interpretazione di Topolino.
Tacque a lungo. La vidi immediatamente cambiare espressione, farsi insieme più dimessa e più distesa. E questa espressione mutata le rimase fin quando, dopo una conversazione su altri argomenti, la salutai.
Non mi risulta che quella collega abbia più fatto ricorso a strumenti psicanalitici o psicoterapeutici.


La reciprocità
Avrei altri casi da riferire, ma forse i due esempi portati, con le premesse fatte, possono dare un’idea adeguata di una siffatta istituenda figura professionale della famiglia pedagogica.
Aggiungo solo un dato: che il carattere bi-direzionale di ogni intervento educativo mi ha consentito anche di avere, a mia volta, più volte richiesto interlocuzione a miei allievi, che stimavo e dei quali conoscevo la perizia, per problemi che avevo io nel mio esercizio professionale.
Una “supervisione virtualmente reciproca” sembrerebbe essere una via da esplorare, alla luce della dottrina esistente. Come sempre, sarà l’esperienza futura a darci un’idea della validità e dei limiti di tale idea.


La crisi della famiglia nucleare, e i casi di Novi Ligure e di Cogne

Qui di seguito, si riportano i quattro brevi scritti sul caso dell’eccidio di Novi Ligure (o “caso di Omar ed Erika”) che sono partiti dall’E-Group www.pedagogistionline.it <http://www.pedagogistionline.it>, e poi sono stati riprodotti in parecchi siti diversi.


Carissimi tutti,

1. A suo tempo, quando il caso esplose, cercai di stimolare le nostre potenzialità di intervento sociale chiedendovi una espressione professionale sull’eccidio di Novi Ligure, Omar e Erika.
Ne ottenni risultati limitati, ancorché apprezzabili in loro stessi. Non fui l’unico ad esperire tentativi del genere, né a non risultare complessivamente soddisfatto dal risultato acquisito.
Insomma, cari colleghi: abbiamo qualche cosa da dire su questo problema, di specifico per la nostra professione, e di positivamente impiegabile da parte della Magistratura, dei familiari, dei cittadini, insomma della società nel suo complesso e nelle sue varie istanze?
I tre periti incaricati dalla Magistratura hanno espresso una relazione molto sostanziosa e che, a quanto anticipa e sintetizza la stampa (con espunzioni testuali) è di notevole interesse. Sono tre illustri docenti, tre luminari delle loro professioni e delle loro scienze, che indubbiamente conoscono la realtà oggetto di perizia ben di più e meglio di ciascuno di noi, e che hanno avuto tutte quelle possibilità di interazione con i due e con l’ambiente che certamente nessuno di noi ha.
Ma, da qui a contrapporre ad una perizia di 394 pagine molto ricche un assenteismo quasi totale ce ne corre.
E’ chiaro che i casi analoghi, sui quali si potrebbero sollevare analoghe osservazioni, sono innumerevoli.
Non ho visto un solo parere di un pedagogista richiesto su un quotidiano, un periodico, un programma radio o televisivo, e vi prego di illuminarmi su quanto mi fosse eventualmente sfuggito. Ma, se fosse successo con quell’ampiezza e quell’aspettativa che si sono apposte su altre professioni, avremm0o avuto qualche cosa di non banale da dire?
Pensiamoci bene, un’altra volta, prima di lamentarci che non abbiamo visibilità, che la nostra professione non ha il riconoscimento che merita e che sarebbe necessario, e di vantare ruoli diversi da quello, esecutivo e subordinato, pratico e non dirigenziale, di “educatore”, comunque aggettivato o qualificato con perifrasi.

2. A mio avviso, ciò su cui un pedagogista può appuntare la sua attenzione specifica, professionale ed originale, in casi come quello di Novi Ligure (che non sono necessariamente cruenti), è l’istituzione della famiglia propriamente detta “nucleare”: paradigma familiare di altri tempi, e non più storicamente adeguato da parecchi decenni: da cui, tra l’altro, l’evanescenza della figura paterna in essa.
Non “la famiglia” è in crisi oggi, ma un modo particolare di intendere la famiglia.
Il che ha ripercussioni sempre più gravi, e sempre meno sottacibili, innanzitutto sull’educazione dei figli; ma anche, e non secondariamente, sui ruoli di genere, sulla capacità di far fronte a problemi professionali, economici e sociali, sui rapporti interculturali, e via elencando.
Sono, queste, tutte problematiche alle quali quel particolarissimo paradigma di famiglia ha provveduto egregiamente da quando è nato: cioè da fine ‘700 - primi ‘800, con significativi precedenti in Inghilterra circa un secolo prima. Eccettuato, ovviamente, l’ultimo ordine, che non si poneva (o meglio, si negava in nome del paradigma corrispondente in politica, il Nazionalismo).
E tutte problematiche alle quali esso è stato sempre meno adeguato a far fronte, in tutta evidenza, quando ha cominciato ad andare in crisi quel sistema di pensiero, d’educazione, d’organizzazione socio-culturale che ha avuto origine con le rivoluzioni borghesi di fine ‘700: vale a dire, a partire dagli anni ’60, più o meno, del secolo XX.
Non ritorno su queste concettualità, e sugli strumenti relativi, in quanto mi ci sono soffermato più e più volte anche su queste pagine telematiche, e sui miei ultimi volumi più significativi in tal senso e che conoscete: Educazione 2000 (1993), Un’introduzione allo studio dell’educazione (1996), Pedagogia della vita quotidiana (2001).
Ad ogni modo, ho posto una domanda precisa a tutti voi: “ abbiamo qualche cosa da dire su questo problema, di specifico per la nostra professione, e di positivamente impiegabile da parte della Magistratura, dei familiari, dei cittadini, insomma della società nel suo complesso e nelle sue varie istanze?”.
Risposte se ne possono dedurre da tutto questo. Ma, comprenderete, non mi sottraggo. La risposta al prossimo scritto.

3. Rispondo, ovviamente, in modo schematico, senza poter essere sintetico come vorrei.
Innanzitutto: sì. Credo che abbiamo qualche cosa di specificamente nostro, e di non banale, da dire. Possiamo fornire una relazione d’aiuto pedagogica in casi come quello di Novi Ligure, quando e se ci venga richiesto.
Quella di Erika, in particolare, non era “una famiglia normale”, come qualcuno ha scritto: ordinata, seria, socialmente pregiata. No, era una famiglia fuori dal tempo: come ce ne sono tante altre.
Vado per punti, dichiarandomi fin d’ora disponibile nel modo più pieno a sviluppare quanto interessasse maggiormente.
Suggerire, nei limiti del possibile, una transizione graduale verso una famiglia poli-nucleare, e la coppia verso un paradigma “ad intersezione” (e non più “a sovrapposizione”).
La madre recuperi il suo stato di “donna intera”: innanzitutto, nei suoi rapporti con il coniuge-Partner, tenendo ben presente che entrambi sono “persone” prima che non marito-moglie e padre-madre. Ma anche nei riguardi del lavoro, della cultura, dell’insediamento sociale.
I compiti tra i genitori vanno ripartiti in modo tendenzialmente paritario, per lo meno per quanto riguarda la casa, l’educazione dei figli e il loro accudimento.
Le scelte di vita siano comuni e di comune accordo per quanto è compatibile tra i due progetti di vita; e siano discusse esplicitamente, ed esplicitamente accettate da entrambi in tutte le loro conseguenze: a cominciare proprio dalla genitorialità e, prima, dal matrimonio.
L’esperimento e l’esercizio della sessualità sia realizzazione di entrambi, e non strumento per ottenere qualche cosa dall’altro, o per “tenerlo” o per fargli sortire esiti positivi per la famiglia.
Soprattutto, nessuno “si realizza” nei figli e nella famiglia. I figli sono persone e quindi fini, non sono strumenti di nessuno (neppure del genitore o della genitrice) e per nessun fine, foss’anche il più nobile e condivisibile.
Nessuno spazio né appiglio va dato, insomma, a qualsivoglia visione strumentale di qualunque persona nella famiglia, come in nessuna entità sociale.
Ricordiamo ci sempre che si educano le persone (anche in famiglia), e non il marito o la moglie, il padre o la madre, il figlio o la figlia… ci ammoniva in materia Demolins oltre un secolo fa.
Osservate che per Erika il sesso aveva una sua strumentalità, a quel che ci dicono, verso un maschio che avrebbe così agito come lei desiderava.
E che in entrambe le persone c’erano grossi problemi di riconoscimento dell’identità del padre e della sua figura.

4. Ci rendiamo conto di quanto abbiamo da fare, proprio come pedagogisti e anche senza che si abbiano fatti della gravità di quello di Novi Ligure, in situazioni problematiche che possono avere fattispecie molto consuete e quasi scontate?
Eccovi qualche esempio.

· Una persona, maschio o femmina, che si sposa “per sistemarsi” (o locuzione equivalente).
· Una persona, maschio o femmina, che si sposa “perché gli anni passano (o locuzione equivalente)
· Una persona, maschio o femmina, che si sposa “perché ha trovato un buon partito” (o locuzione equivalente).
· Una persona, maschio o femmina, che si sposa “perché è nell’ordine naturale delle cose” (o locuzione equivalente), o semplicemente “perché è naturale”.
· Una persona, maschio o femmina, che diventa padre o madre “perché ci si sposa per questo” (o locuzione equivalente).
· Una persona, maschio o femmina, che diventa padre o madre “perché è nell’ordine naturale delle cose” (o locuzione equivalente), o più semplicemente “perché è naturale”.
· Il matrimonio e la Partnership quando siano frutto di una convergenza di progetti di vita solo apparente, dissimulata, non considerata, che cela delle pesanti contraddizioni essenziali.
· Idem per quel che riguarda la paternità e la maternità.

Per la mia esperienza, molto del lavoro che potremmo essere chiamati a fare per la coppia e la famiglia consiste, essenzialmente, nell’aiutare i due Partner-contraenti, od essi con i figli, a discutere proprio i rispettivi progetti di vita esplicitando quelle parti che possono essere tra loro contraddittorie, e che rimangono tali in quanto date per scontate, ovvie, sottintese, o “naturali”, e quindi mai discusse.
Gli strumenti concettuali che siamo chiamati ad impiegare hanno origini remote e origini molto prossime. Si parte dal dialogo socratico, dall’ironia e la maieutica. E si arriva fino all’oggi: problemi come razionalizzazioni di situazioni problematiche, coerenza logica e metodologica, esercizio normato di creatività umana, controllabilità fattuale, criticità, senso della storia, confronto tra visioni, pareri, punti di vista, discutibilità, sano beneficio del dubbio…
E così torniamo al punto di partenza: sono cose sulle quali i frequentatori di queste pagine hanno potuto leggere parecchio; fra l’altro, ricordo i contributi al I e alo II Congresso scientifico della FIPed, che sono stati messi in rete.
Ma il discorso continua, Come la ricerca. La professione. La vita.
Professionalmente vostro


Franco Blezza


Casi ed interventi on Line

Generalità

Quella che segue è una raccolta di un certo numero di interventi dello scrivente nell’E-Group, cioè nel gruppo di assemblea elettronica, denominato “Pedagogisti on Line”, parte dei gruppi di Yahoo, cui corrisponde un sito (www.pedagogistionline.it <http://www.pedagogistionline.it>). Questo gruppo è nato nell’estate del 1999, ed ha ospitato per anni la voce di centinaia di Pedagogisti, od aspiranti tali, e anche di altri professionisti interessati a quella dimensione. Al suo interno, vi è stato anche un servizio di consulenza “on Line”, alla quale lo scrivente ha prestato qualche apporto. Nel 2001 è anche uscito, nello stesso ambito, un bimestrale anch’esso “on-Line” . Responsabile e animatore di tutto è il dott. Alessandro Prisciandaro, Pedagogista libero professionista con studio a Palermo.
Ai lettori non sfuggano i limiti di questi interventi ed in particolare delle consulenze prestate: limiti che non stanno solo né tanto nella comunicazione a distanza, che ovviamente non consente di cogliere tutte le evidenze che invece si coglierebbero nella piena comunicazione interpersonale “in presenza”, ma anche nella necessità di rispondere in sintesi estrema, di privilegiare ciò che può essere di interesse e di fruibilità generale, di limitare all’indispensabile il ricorso a terminologia specialistica e l’evocazione di autori, tecniche, strumenti concettuali che non siano di pubblico dominio.
Credo che, con tutto ciò e con i limiti che invece si debbono a chi scrive, quanto si raccoglie sia ugualmente utile a delineare lo specifico del Pedagogista e del suo intervento.
Preciso che ho mantenuto esattamente testuale quanto è passato per la rete, salvo solo l’espunzione di tutte le note di servizio, e delle ripetizioni non necessarie, la correzione di qualche refuso ortografico (e neppure di tutti….). Se non riporto un seguito, è perché non c’è stato: che fosse necessario, o meno; che fossi stato esauriente, o no.
Anche se quanto è in rete non si può considerare riservato, aggiungo che ho deliberatamente soppresso qualunque coordinata, anche temporale, che non fosse essenziale alla comprensione del caso ma che potesse comunque contribuire, anche in poco o pochissimo, a rendere riconoscibili le persone che interloquiscono. Ovviamente, con le firme, sono soppressi spesso i saluti e gli altri convenevoli di apertura o di chiusura.
L’intento era avviare un dibattito, e gettare alcune basi per un effettivo aiuto pedagogico, che non si poteva certo esaurire in poche righe telematiche. Oltre a questo, cerchiamo di ricordarci sempre che, in questo contesto, “discutibile” è un aggettivo elogiativo, che rende il senso più elevato di un discorso pedagogico in senso stretto e proprio.
Spero di aver sempre scritto cose “discutibili”. Ribadisco che se, in qualche parte, qualche cosa da me scritta non fosse “discutibile”, probabilmente in quel punto non avrei parlato di Pedagogia.


Gli “otto punti” del coordinatore, e qualche puntualizzazione doverosa

Nel pieno del dibattito e della consulenza on Line, il coordinatore Alesando Prisciandaro, tenuto conto di quanto era emerso da alcuni interventi (e citando esplicitamente anche quelli dello scrivente) ritenne di fissare “otto punti” come quadro di riferimento metodologico specifico per questa consulenza:

“Io credo che sia presto per auto-porci dei limiti o degli steccati. Nella relazione d'aiuto le competenze che si mettono in campo sono quelle che si possiedono.
Mi sembra (ed è per questo che ho stimolato la nascita di questo gruppo Off-ML) che ci stiamo comportando onestamente nei confronti dell'utenza:
1.. diciamo sempre chi siamo con chiarezza;
2.. siamo sempre in campo con la sofferenza altrui;
3.. abbiamo un curriculum di studi che è sempre in progress;
4.. accettiamo con umiltà il confronto con altri pedagogisti;
5.. siamo "dubbiosi" e quindi attenti e consapevoli delle responsabilità del nostro operare;
6.. le persone che si rivolgono a noi sanno chi siamo;
7.. nelle persone non esistono confini delimitanti le aree che noi, professionisti, usiamo per comodità di comunicazione e studio;
8.. abbiamo accettato di sperimentarci on-line, credo che siamo anche disponibili ad un confronto pubblico:
Perché non pensare, tra un anno, alla possibilità di un convegno sulla relazione d'aiuto a sfondo pedagogico?

Buona riflessione”

E quella che segue è la risposta del sottoscritto.


Caro Alex, carissimi tutti,

gli “otto punti” che tu delinei mi sembrano largamente condivisibili, così come l'auspicio di poterci prima o poi confrontare proprio sullo specifico della relazione d'aiuto pedagogica. Come è noto, la locuzione l'hanno introdotto taluni psicologi clinici, ed avevano i loro motivi per introdurla. Quando è stata mutuata dagli Assistenti Sociali, è da pensare che abbiano avuto dei motivi parzialmente differenti da quelli che abbiamo avuto, in un tempo successivo ancora, noi pedagogisti.

La mia esperienza, prima che non considerazioni di principio, mi porta alla necessità di predicare dei limiti e delle preclusioni nell'esercizio professionale pedagogico: e penso esattamente alla terapia. Io credo che noi non siamo dei terapeuti, e dobbiamo escludere dal nostro agire non solo tutto ciò che è terapia, ma anche ogni possibilità, o rischio, che il nostro interlocutore individui il proprio terapeuta in noi anziché in altre figure che possono esserlo propriamente, per cultura e preparazione oltreché per status professionale legislativamente sancito.

Nulla da obiettare a che il pedagogista impieghi strumenti concettuali psicologici (o sociologici, filosofici, giuridici, ...). E ci mancherebbe! Personalmente, il carattere composito della nostra cultura, e la nostra capacità di assumere da Input differenziati per volgere a fini educativi contributi essenziali di altri saperi, l'ho sempre segnalato come uno dei punti di forza della pedagogia.

Avrei, invece, molto da obiettare se qualcuno consigliasse al proprio interlocutore degli strumenti psicoterapeutici. E questo, prima che non per ragioni di principio e per ragioni giuridiche, che pur sussistono entrambe, perché il Pedagogista in quanto tale non ha la preparazione che gli consente di tener sotto controllo tutte le variabili, e tutti gli effetti collaterali, cui il ricorso a siffatti strumenti potrebbe dar luogo.

Vi sognereste mai di consigliare un farmaco? Spero di no. Ebbene, il far ricorso a certi strumenti psicoterapeutici può essere ancora più pericoloso. Non sarà per nulla, che per formare un psicoterapeuta, o un medico neurologo o psichiatra, sono richiesti tanti anni di studio e di formazione specifici, e prove di abilitazione ripetute dopo lauree specifiche anch'esse. No?

Facciamo dunque i pedagogisti, consapevoli dei nostri limiti (che ci sono) come delle nostre potenzialità (che ci sono anch'esse, e sono tante). Avremo ben più lavoro di quello che possiamo effettivamente espletare.

Con lo spirito di colleganza di sempre

Franco Blezza


Il caso della mamma-maestra

“Sono una mamma insegnante elementare che per il problema che ha da esporvi dovrebbe già avere strumenti sufficienti per una sua risoluzione, tuttavia sento la necessità di una risposta e di un supporto ben più competente.

Ho un bimbo di 7 anni e mezzo che nel corso dei primo ciclo elementare ha dimostrato più volte forse interesse per gli oggetti altrui: matite, giochini, cose comunque recuperabili a scuola.

Vagliate la possibilità di un errore involontario, quella di uno scambio di oggetti tra compagni ed infine quella del desiderio di avere cose che gli sembravano forse più carine delle sue, mi sono resa conto che da un po' questa saltuaria tendenza sta scemando. Mi chiedo: c' è da sperare che il decorso sia questo e che tutto rientri nella normalità?

C'è da aggiungere che ha sempre restituito, anche spontaneamente, quanto sottratto salvo quando, con un'insegnante in particolare, ha difeso a denti stretti la sua innocenza nonostante pesanti ricatti. Per questo ora mi trovo a cozzare con questa collega che insiste nel definire un bugiardo il mio bambino. A queste bugie infantili do una mia spiegazione, mi piacerebbe conoscere il Vs. parere anche su questo. GRAZIE

Mamma-Maestra> mi sono resa conto che da un po' questa saltuaria tendenza sta scemando. Mi chiedo: c' è da sperare che il decorso sia questo e che tutto rientri nella normalità?

La speranza sembra saldamente fondata, a quel che si può evincere. La madre non ha motivi per sollevare ipotesi drammatiche o problematicità tali da richiedere interventi eccezionali. Quel che ci vuole, invece, è un sano intervento educativo quotidiano anche nei riguardi del rispetto di ciò che è personale altrui.
Non mi affiderei ad un qualche ipotetico "decorso spontaneo", invece, neppure di fronte a molto di meno.


Mamma-Maestra> C'è da aggiungere che ha sempre restituito, anche spontaneamente, quanto sottratto salvo quando, con un'insegnante in particolare, ha difeso a denti stretti la sua innocenza nonostante pesanti ricatti. Per questo ora mi trovo a cozzare con questa collega che insiste nel definire un bugiardo il mio bambino. A queste bugie infantili do una mia spiegazione, mi piacerebbe conoscere il Vs. parere anche su questo.

Chi di noi non avrebbe cercato di difendersi, a quell'età, anche in modo così ingenuo? Si tratterà di parlargli per capire fino a che punto il concetto di "personale" sia presente a lui, e sino a che punto invece sia da formarsi. Ma, ripeto, fin qui non c'è nulla che non stia entro l'educativo familiare quotidiano.

Invece, i rapporti di questa mamma-maestra con la collega potrebbero meritare un po' di maggiore attenzione. Se vorrà fornire qualche elemento allo specifico riguardo, potremo cercare di aiutarla anche in ciò.

E' solo un contributo alla discussione. Cordiale colleganza a tutti!

Franco Blezza


Il caso del fanciullo irrequieto

“ho un bambino di 9 anni molto intelligente ma anche irrequietissimo: a scuola non si impegna perché non convoglia nello studio le sue energie;a casa è in continua competizione con la sorella di 4 anni; è irascibile e ha mille paure (buio, animali ecc.) noi non sappiamo più come incoraggiarlo ad avere fiducia in sé e prendersi le sue responsabilità:E' come se avesse solo voglia di giocare scansando ogni tipo di fatica.”


Cara signora,

il convogliare le risorse, od almeno la parte necessaria delle proprie risorse umane, nello studio e nell'attività scolastica in generale, non è un comportamento spontaneo o “naturale”. Lo si può conseguire, oltreché grazie alle qualità dei docenti (che comunque non bastano), attraverso un adeguato esempio dei genitori di valorizzazione della cultura, della conoscenza, delle attività intellettuali, nonché un adeguato impiego di quello che noi pedagogisti e didatti chiamiamo il "rinforzo", vale a dire tutto ciò che premia, sul piano materiale o morale, il buon risultato ottenuto.

Certo, se gli viene offerta tranquillamente l'alternativa tra giocare ed impegnarsi, sarà difficile che da solo si orienti allo studio, e nella misura adeguata.

Spesso la competizione con il fratello (in questo caso la sorella) di minore età deriva dal senso di aver perduto qualche cosa dai genitori, o anche solo da uno di essi, con l'arrivo di questo, a volte perfino a partire dall'attesa. Non so se vi siano stati nel Suo caso di questo fattori, ma io indagherei anche in quella direzione.

Quell'angoscia che Lei descrive, sia pure in modo molto sintetico, sembra molto quella di chi non sa esattamente che cosa gli sia richiesto di fare: un fanciullo sveglio ed intelligente, che si aspetterebbe elogi e rimproveri, premi e punizioni, toni dolci e toni aspri, dei sì e dei no chiari e tondi, a seconda se ciò che fa viene approvato oppure no; e che forse non riceve segnali comprensibili né in un senso né nell'altro. Anche non essere disapprovato quando lo si meriterebbe, o addirittura mai, è angosciante; esattamente come essere approvato, o disapprovato, senza poter individuare chiaramente un nesso con la bontà o meno di ciò che si è compiuto.

Infine, che mi dice di Suo marito?


“Gent. Dr. Blezza

ho gradito molto il Suo interessamento e ciò che mi ha risposto riguardo il rinforzo è proprio ciò che io e le insegnanti (bravissime) stiamo cercando d attuare.Però Daniele (mio figlio) è disarmante perché nonostante tutto: elogi, rimproveri, punizioni, a volte niente ecc. li per lì sembra aver recepito ma poi prosegue dritto noncurante delle conseguenze materiali e morali del suo comportamento.

Non è vero che gli si fa scegliere se studiare o meno; spesso gli si parla delle conseguenze future dell'ignoranza (premetto che io ero molto brava e che ho un diploma di laurea in interpretariato). Devo dire che siamo arrivati ad un punto in cui spesso perdiamo la pazienza e non va bene, ma creda che la vita è impossibile quando lui mette piede in casa poiché immediatamente comincia il conflitto con la sorella, i capricci ecc.

Mio marito dal canto suo (non per discolparlo) torna tardi fa il tipografo e non è che mostri tanto interesse per la scuola le altre attività, le festicciole in quanto (questo è ciò che credo) è cresciuto in una famiglia molto ignorante con 5 figli, ha dovuto lavorare presto per mandare avanti tutto e i suoi non si sono mai interessati alla cultura, alla vita sociale alle amicizie. Perciò come poteva lui crescere con una concezione della vita diversa?A detta delle insegnanti questo può essere uno dei motivi di comportamento aggressivo ed estremamente infantile di mio figlio e anche cercando di fargli capire che dovrebbe cambiare, mio marito non si rende conto di ciò che sto cercando di spiegargli. Io mi sento sola in questo sovrumano lavoro interiore che devo affrontare, e preoccupata per i disagi di Daniele.

Per ciò che concerne la sorella il nostro comportamento non è cambiato da quando lei è nata: semmai sono cambiate alcune esigenze, ma come confermano anche le sue maestre lui soffre molto di gelosia.

Che altro possiamo fare se non aumentare le lodi, incoraggiarlo,sostenerlo?

Grazie”


Gentile signora,

in uno scritto relativamente sintetico mi sembra che sia riuscita a rendere adeguatamente il senso delle difficoltà nelle quali si trova Lei assieme a Suo figlio. In effetti, ritrovo qualche cosa che è tutt'altro che infrequente nel nord industrializzato e danaroso, quanto insensibile alla cultura: spesso è proprio il padre a testimoniare efficacemente questo comportamento, ma altre volte (mi creda) lo è la madre, o lo sono entrambi. Altre volte ancora, lo sono alcuni parenti di riferimento forte: i nonni, ad esempio, o qualche zio.

Che Lei perda la pazienza qualche volta è perfettamente umano, e non deve sentirsene in colpa: educhiamo proprio in quanto siamo esseri umani, cioè imperfetti, fragili, cagionevoli: i computer non educano. L'altra faccia dell'imperfezione è la perfettibilità, è il "meglio" che si ricerca e si persegue, e si dovrebbe imparare a considerare tutto ciò deontologico.

Ma se dal padre, anche involontariamente, arriva un messaggio che sembrerebbe molto chiaro, secondo il quale lo studio e la cultura, la scuola e la conoscenza non immediatamente utilizzabile e monetizzabile, non hanno niente a che vedere con questo "meglio", ma costituiscono sostanzialmente una perdita di tempo, una parentesi, un'attesa di altre cose e diverse occupazioni, penso che Lei da sola difficilmente potrà fare meglio di quanto abbia fatto finora, anzi che seguiterà ad "avvitarsi" in questa situazione irrisolta, per poi andare incontro a problemi accresciuti quando si avvicinerà la fine dell'istruzione obbligatoria.

Fra l'altro, una certa dose di gelosia verso un secondogenito (in generale) va messa nel conto e di per sé non richiederebbe che una serie di aggiustamenti continui quanto limitati. Ma non sarà che il sesso della sorellina ha anch'esso un suo ruolo?

In sostanza: pur comprendendo ed apprezzando il potente investimento sul lavoro che Suo marito fa per il bene della famiglia, e coerentemente con una storia personale e familiare che merita ogni rispetto e stima, ci vogliono da parte di lui una parola e un comportamento che possano avviare nel fanciullo un minimo di ripensamento. Che so, un po' di riflessione su che cosa avrebbe potuto diventare se avesse potuto studiare, magari un apprezzamento per qualche acquisizione culturale del figlio che a lui è stata negata (basta una frase in inglese, o un interessante episodio di storia, veda un po' Lei). Da sola, e con il padre che tiene (giustamente, comprensibilmente, anche lodevolmente) la sua posizione e la sua testimonianza, dubito che potrà fare molto di più e di meglio di quello che già fa.

Con molta stima, mi confermo al Suo ascolto

prof. Franco Blezza

“Gentile Dr.Blezza

tutto ciò che mi risponde è vero ma lo stato di cose non credo possa cambiare più di tanto: mio marito non cambierà nonostante si sforzi, mi hanno consigliato di rivolgermi ad uno specialista per farmi aiutare ma economicamente non è una spesa che posso sostenere. L'insegnante è preoccupata perché alla fine della 3^ elem. lui ha raggiunto i suoi obiettivi ma ha un enorme problema di concentrazione e mi ha tassativamente detto che quest'estate dovrò farlo studiare con il timer promettendogli ricompense se finisse il suo lavoro entro il tempo assegnatogli in quanto alle medie o già in 4^ incontrerebbe difficoltà insormontabili.

Lei che ne pensa?

Io veramente penso che la situazione non sia tanto risolvibile e che Daniele è così e lo sarà sempre anche nel lavoro ecc. a meno che ad un certo punto la sua maturità non lo porti a rendersi conto della sua responsabilità.

LA RINGRAZIO COME SEMPRE”


Gentile signora,

nessuno chiede a Suo marito di cambiare, semmai di non presentare il suo modo di vivere come se fosse l'unico (od il migliore) possibile, e di manifestare apertura e disponibilità verso quella cultura di base che ai suoi tempi era indubbiamente meno necessaria di quanto non sia oggi, e di quanto non sarà a maggior ragione domani. Un po' di beneficio del dubbio, e meno di quella assertività assoluta, apodittica, di quella sicumera mal riposta, che certi comportamenti trasmettono e che non è poi detto che sua voluta fino in fondo, come non è detto che ne siano voluti tutti gli effetti, anche quelli più evidentemente negativi.

Questo è un discorso che riguarda voi due come coppia, prima che non come genitori. Lo tenga sempre presente.

Ovviamente, non ho gli elementi che può avere un o una insegnante di Suo figlio: se ha conseguito gli obiettivi posti, ciò significa che merita quell'attenzione e quella riflessione sull'educazione che gli si impartisce, specialmente con il comportamento, con la testimonianza personale. Probabilmente Suo marito non sarà testimone di concentrazione nello studio: ma di un'applicazione diligente, impegnata, seria, magari totale nel lavoro, penso di sì; e ci vuole molto a trasferire questa testimonianza allo studio, che è per Suo figlio ciò che è il lavoro di tipografo per Suo marito?

Non capisco da che “specialista” voglia farlo seguire, e poi “seguire” in che modo. Forse gli potrebbe anche bastare un bravo studente (meglio se di sesso maschile), anche di scuola superiore, con il quale esercitarsi ad un atteggiamento costruttivo e apprezzativo verso lo studio, la cultura, un buono sviluppo di sé come soggetto di conoscenza, ed anche adempiere ai compiti assegnati dall'insegnante. Ma parlo a distanza, non vorrei azzardare troppo con i pochi elementi che ho.

Può darsi che “la maturità” corregga da sola certe distorsioni, e glielo auguro. Ma non crede che andrebbe aiutata? Non si sentirebbe più sicura?

Comunque, non credo proprio che la situazione “non sia tanto risolvibile”. Abbiamo solo ipotesi: ma io penso che una soluzione vi sia.

Se quella forma d'aiuto meno dispendiosa e più soft che Le suggerisco è attuabile, se ha a portata di mano la persona adatta, e soprattutto se questo intervento può trovare almeno la neutralità del padre, meglio se un “appoggio esterno”, perché non provarci?

E poi, ovviamente, se crede mi ricontatti. Con molta solidarietà umana e genitoriale


Franco Blezza

Il caso di un bambino primogenito

“Ho due bambini, uno di 30 mesi e l'altra di 10, sono a casa in questo periodo perché usufruisco della maternità facoltativa fino all'anno della seconda figlia, il primo intanto sta andando al nido già da quando aveva 12 mesi. ora, dopo questa premessa, il mio problema è questo: c'è Xxxxx, il più grande che è un bambino dolcissimo, molto affettuoso, vivace, intelligente ma con il quale non riesco a non perdere la pazienza. cerco di essere "educativa", provo a spiegargli le cose in modo semplice, provo in tutti i modi di venirgli incontro, ma a volte sia a me che al papà scappa proprio la pazienza e così si finisce a urlargli contro e a sgridarlo. è che lui fa mille richieste al minuto, e anche se abbastanza autonomo, piange per un nonnulla: se non riesce a spostare la sedia, se si rompe un gioco, se non lo trova, insomma ogni scusa è buona per piangere e pretendere tutte le attenzioni per lui. ed era così anche da neonato, ha sempre voluto stare a stretto contatto corporeo con me, si sveglia tutt'ora la notte per bere il latte, anche se ora lo beve e si riaddormenta da solo, ma fino a qualche mese fa si svegliava anche due volte per notte e mi voleva accanto finché non si riaddormentava.

Da qualche tempo ha iniziato anche ad avere paura dei cani e dei gatti, cosa che non ha imparato da noi che li tocchiamo tranquillamente... insomma, visto che anche la piccola ora sta passando un periodo che vuole stare sempre in braccio, e che in casa sono sempre sola, alla fine mi ritrovo con tutte e due che piangono per un motivo o l'altro, ma il primo ad essere consolato è sempre il più grande perché le sue urla sono le più strazianti. inutile poi cercare di spiegargli le cose, tipo "aspetta un momento prendo Yyyyy e vengo da te" lui vuole tutto e subito... così alla fine o si urla o non capisce. poi però arrivano i sensi di colpa e mi sembra di sbagliare tutto, di essere io la causa delle sue paure, dei suoi pianti. mio marito minimizza ma io non sono tranquilla, cosa devo fare?

Grazie.”


Gentile signora,

da quanto descrive, non sembrano esservi problemi di particolare entità, semmai una doverosa attenzione e uno spirito critico e auto-critico lodevoli, che si vorrebbero in tutti i genitori. Anche sui rimproveri e sulle arrabbiature, che comunque sembrano essere fenomeni contenuti sia come entità che come intensità, sarei meno auto-colpevolizzante: il nostro amare, e il nostro essere educatori, è inscindibile dal nostro essere soggetti umani, e quindi imperfetti, fallibili, cagionevoli. L'altra faccia della medaglia dell'imperfezione è la perfettibilità: la ricerca di quel “meglio” che è sempre possibile, e che è dovere umano cercare e perseguire, proprio come Lei sta facendo.

Il nido può aiutare, e spero solo che sia colto fino in fondo come opportunità: qualche genitore lo riduce al minimo, tende ad annichilirlo, a svuotarne il significato educativo e socializzante. Spero cioè che ci vada lo stesso, e per un numero di ore al giorno adeguato, anche se Lei è in congedo. Se vedo un punto critico nelle Sue parole, è nella tendenza a risolvere un po' tutto “nelle braccia della mamma”: a me sembrerebbe proprio che tante azioni di Xxxxx tendano a questa particolare fuga dalla realtà, e che il fenomeno comincerebbe ad emergere anche nella femmina. Che cosa sia il “troppo” nel tenere in braccio un bambino non lo si può dire in assoluto: dipende da quanto è necessario per una sua sicura conquista della realtà, e quanto invece diventa sostanzialmente un ostacolo per questa conquista.

Ora il latte lo beve da solo, e bene: non c'è alcun bisogno che svegli i genitori (o solo la madre?). Lo prenda come paradigma: per quanto possibile, alle sue richieste cerchi di insegnargli a fare da solo, a provvedere per conto suo, o crei le condizioni perché lo possa fare, senza la mediazione di queste braccia, confortanti ma non maturanti.

Non sarebbe possibile che almeno una parte del congedo facoltativo lo prendesse il padre? E, più in generale, il padre che ne dice? Le braccia del padre, che ruolo hanno?

Per qualunque cosa, siamo qui. Con molta stima


prof. Franco Blezza

Il caso della “mamma preoccupata”

“Vi scrivo per chiedere un parere su un problema riguardante mio figlio di 10 anni che ho scoperto aver sottratto degli oggetti ai suoi amici o compagni di classe e inoltre alcune volte mi ha raccontato delle bugie alle quali ho creduto. Uno dei bambini a cui ha rubato gli oggetti è il figlio della mia migliore amica, e ha rubato anche a una delle mie sorelle.

Vi descrivo il quadro anamnestico: ho 42 anni, sono sposata dal 1987 ed ho 2 figli maschi di 10 anni e di 19 mesi. Sono casalinga. Provengo da una famiglia composta da 3 sorelle e 1 fratello, i miei genitori si erano separati a causa dell’alcolismo di mio padre che faceva il commerciante. Mio padre era molto severo, non mi picchiava mai, ma bastava un suo sguardo per farmi paura; mia madre , che proveniva da una famiglia molto povera e numerosa, era succube di mio padre e delle sue sorelle. L’atteggiamento di mio padre nei miei confronti era di giudizio molto severo e difficilmente mi lodava. A scuola riuscivo bene. Mi ha trasmesso però molti valori ed ha stimolato il mio interesse verso la scienza, la natura e il rispetto della diversità del prossimo. L’atteggiamento di mia madre era di vittimismo, lei non era capace di dire di no agli altri e quando sentiva qualche rimprovero non aveva il coraggio di difendermi e forse io credo, non riusciva ad esporre il mio punto di vista a mio padre; però lei ci ha insegnato ad apprezzare la lettura, il canto e le cose creative. Insomma lei si sentiva sempre inferiore a mio padre.

Nella famiglia di mio marito suo padre era un carabiniere ed ha 83 anni, la madre è casalinga e ne ha 82. La madre proveniva da una famiglia dove c’erano persone che avevano studiato e piuttosto benestanti. Dopo aver sposato suo marito si era accorta che lui, che proveniva da una famiglia benestante del sud, di origini contadine, non amava molto il ballo, lo stare in compagnia, insomma lui era molto spartano anche nel modo di ragionare. Lui sostiene che è meglio frequentare le persone istruite perché c’è sempre qualcosa da imparare da loro. Sua madre va d’accordo con tutti ma osserva attentamente l’etichetta e la forma che usano le persone nei suoi riguardi.

Alcune volte entrambi i coniugi, hanno trovato una netta differenza tra nord e sud, non sentendosi sempre a loro agio in questa realtà. La caratteristica che distingue entrambe le famiglie è l’onestà.

Mio figlio ha un carattere molto vivace, ha sempre avuto da noi genitori molti stimoli, specialmente nei primi tre anni di vita, non segue molto le regole e a scuola non riesce nello scritto ma solo nelle materie orali. Non si ammala quasi mai e ci ha fatto molto spaventare quando aveva quattro anni, perché ha ingerito una notevole quantità di vino e di pasticche di lievito di birra andando in coma etilico. Socializza con tutti e non porta odio o rancore a nessuno. A scuola è stato additato dalle sue insegnanti come un bambino da curare a livello psichiatrico, perché non riesce a concludere le verifiche scritte; questo è successo perché io ho commesso l’errore di farlo visitare nell’ASL di zona che ha diagnosticato una leggera iperattività e lo comunicato alle sue insegnanti che lo hanno subito inquadrato e che hanno scaricato su noi genitori le difficoltà di nostro figlio, e hanno fatto molto poco per poterlo aiutare.

Mio marito è convinto che il bambino non riesca bene a scuola perché non viene stimolato a sufficienza dalle insegnanti che sono di stampo tradizionale, ed è convinto che comunque il bambino abbia bisogno di regole imposte con una certa rigidità.

Io invece penso che il bambino, che nei primi tre anni di vita, è rimasto con la nonna materna che gli ha dato poche regole ma gli ha insegnato a ragionare, abbia bisogno di regole ma non di rigide imposizioni, altrimenti si chiude in se stesso perché non si sente capito.

Comunque per le scuole medie abbiamo provveduto ad iscriverlo in una scuola privata dove l’individuo viene indirizzato al metodo di studio a lui più congeniale, valorizzando le qualità positive che lui possiede. Ha un amico del cuore e non è mai solo, alcune volte io mi rendo conto che il nostro nervosismo è stato causato da quella diagnosi che ci ha fatto mettere in discussione come metodo educativo da parte dei componenti della nostra famiglia, specialmente quella di mio marito che ci ha fatto sentire incapaci di crescere un figlio nel modo più adatto, Il loro atteggiamento è stato di critica, forse anche perché glielo abbiamo permesso a causa della nostra insicurezza, ma adesso grazie a un libro di Edoardo Giusti sull’autostima che ho appena letto, sto vedendo chiaramente in me stessa intorno a me, e sto cercando di coinvolgere indirettamente anche mio marito il quale da solo, non si sottoporrebbe mai ad un’analisi a causa della convinzioni errate. Per questo naviga nel dubbio e nell’insicurezza.

Vi chiedo se potete darmi qualche consiglio anche per mio marito o segnalarmi qualche pubblicazione da poter acquistare e che mi aiuti a coinvolgerlo almeno a parole, perché lui non vuole leggere libri di psicologia.

Confido in una vostra risposta e ringrazio anticipatamente.


Una mamma preoccupata”

Gentile signora,

la Sua lettera è ricca di stimoli, e sarebbero parecchi gli argomenti sui quali dialogherei volentieri con Lei professionalmente.

Comunque, Lei ci interpella per un parere sul problema, e giustamente (per dei pedagogisti) dice "parere" e non "giudizio" o "prescrizione". Credo qualche suggerimento di poterglielo dare.

Innanzitutto, io non escluderei che il comportamento del primogenito avesse qualche relazione con la nascita del secondogenito la quale, non di rado, induce a richiamare l'attenzione con tutti i mezzi da parte di chi può sentire che essa è in qualche misura diminuita. Sono cose note, ma non per questo da darsi per scontate, neppure in negativo. Nella Sua missiva non vi è alcun cenno a che cosa sia cambiato negli ultimi due-tre anni, e pure sembra difficile che non sia cambiato nulla.

Lei ha parlato con Suo figlio preannunciandogli la venuta del fratellino, durante la gravidanza, e poi in questi suoi 19 mesi di vita (al di là delle solite frasi di prammatica, rituali quanto vuote), magari coinvolgendolo, facendolo sentire ancora oggetto d'attenzione, come e anche più di prima, proprio per questa nuova presenza? Otto anni di differenza non sono pochi: neppure per Lei stessa, che può aver affrontato questa seconda gravidanza, e questa seconda maternità, in modo tutto particolare.

E ha parlato con lui di questi atti? Pensa di eludere il problema? A me sembra che questo suo “non seguir molto le regole” che lei nota nel profitto scolastico abbia qualche legame con il sovraccarico di disciplina e di imposizioni assurde, nonché di comportamenti criticabili, che Lei stessa ha subito nella Sua educazione, come anche Suo marito. Di regole c'è bisogno irrinunciabile, e Lei stessa lo nota, ne ha bisogno Suo figlio come tutti: si tratta indubbiamente di ripensarle, di rivedere tante assurdità e tante ingiustizie del tempo passato, nonché di riattualizzarle; ma non certo di ridurne l'importanza né la presenza. Vale per le regole d'ortografia, di grammatica o di sintassi negli scritti a scuola (o per quelle matematiche), come per le regole della convivenza civile.

Questa domanda ne porta direttamente delle altre, analoghe, riferite al padre. Come e quanto il padre ha parlato con il figlio delle regole, quelle scolastiche e quelle della convivenza civile, nonché delle inosservanze, nei compiti scritti come nel rispetto delle proprietà altrui?

In terzo luogo, da quello che ci racconta dei due nonni maschi, e dello stesso padre, non sembra che la potente asimmetria educativa tra i sessi di quella generazione sia stata gran che superata nella generazione successiva. A quei tempi era una sorta di "obbligo", fortemente determinato dall'educazione, al di là delle vicissitudini personali: il padre simbolo dell'autorità e della severità, la madre che si scioglie in casa e nei rapporti con i figli. Oggi possiamo e dobbiamo pensarla diversamente, e cioè che si è genitori in due, in tutto e per tutto.

Per l'oggi, ed ancor più per il domani, c'è bisogno di tutte e due i genitori i quali si dividano i compiti con i figli in modo tendenzialmente paritario: i compiti di cura, e soprattutto quelli educativi, compreso il dovere di incarnare e di rappresentare (entrambi) l'autorità e le regole, e sempre entrambi la cura e l'attenzione quotidiane. Vale per il primo, e vale anche per il secondo. Sì, anche adesso. Valeva anche prima, quando aveva 6 o 3 mesi.

Quindi, Le suggerirei di parlare di più con Suo marito delle scelte educative di Loro figli e dei comportamenti genitoriali conseguenti, e di coinvolgerlo con il dialogo nel modo più pieno ed essenziale che sia Loro possibile. Dubito che dei libri di psicologia, per quanto ben scritti, servirebbero a qualche cosa, anche se Suo marito fosse disposto a leggerli: può molto ma molto di più il contatto e la cura diretti con i figli, a 10 anni ed anche a 19 mesi (se non soprattutto). Parlino tra di Loro, e vedano a quali ristrutturazioni la Loro vita può essere fatta oggetto perché lui sia un interlocutore educativo più essenziale e meno squilibrato per entrambi i figli.

Probabilmente, in due sarete meglio “attrezzati” ad affrontare i rapporti familiari e quelli educativi considerando “il dubbio e l'insicurezza” non come difetti, ma come modi più congrui di agire umano.
Per il resto, siamo qui. Con i saluti più cordiali

prof. Franco Blezza

Il caso del figlio d’amici aggressivo

“Io e mio marito siamo soliti incontrarci, una sera alla settimana, con dei nostri amici che hanno un figlio di 31 mesi che presenta spesso degli atteggiamenti aggressivi nei confronti di nostra figlia che ne ha 22..

La mamma interviene spesso bloccando il bambino prima che possa aggredire nostra figlia, anche se a volte è riuscito a tirarle i capelli (molto tempo fa), o a spingerla facendola cadere; inoltre le ruba continuamente i giochi, e lei, le prime volte reagiva urlando, ma ore sembra essersi rassegnata alle sue prepotenze. Ultimamente, non reagisce anche con altri bambini della sua stessa età, ad esempio quando qualcuno le ruba i giochi. Nel caso in cui qualche bambino la aggredisce si mostra terrorizzata e poi dice di aver paura del bimbo. Aggiungo che prima la bambina non era così, aveva anzi uno spiccato senso del possesso sia dei suoi giochi che di quelli degli altri, tranne quando si trovava in presenza del figlio dei nostri amici.

La bambina comunque è serena e non ha mai avuto problemi a mangiare o dormire. Parla molto bene rispetto agli altri bambini della sua età e ha avuto uno sviluppo motorio molto precoce.

Passa molto tempo con me, in quanto io sono insegnante, e durante la mia assenza è affidata ai nonni paterni che abitano sotto casa mia. E’ molto legata a me ed è anche molto affettuosa.

Le chiediamo se il comportamento di questo bambino ha influenzato o potrà influenzare negativamente la formazione del carattere di nostra figlia, e, se è il caso di continuare a frequentare questi nostri amici.

Ringraziando anticipatamente, confido in una sua risposta e porgo distinti saluti”


Gentile signora

la bambina, riferisce Lei stessa, è serena, e non ha mai avuto problemi a mangiare o dormire. La sua precocità sembra che riguardi anche la capacità di interagire con l'ambiente sociale e relazionale: e di questo penso che dovrebbe sentirsi legittimamente orgogliosa.

In quanto Lei racconta, non vedo nulla di sostanzialmente differente da quello che succede quotidianamente e continuamente, dalla seconda infanzia fino all'adultità ed oltre, nei rapporti di ordinario cameratismo dovunque essi si instaurino: dispetti, sgambetti, inutili cattiverie, spintoni, furtarelli, e magari parole poco simpatiche. Per ogni età ce n'è un repertorio immenso, e per quell'età mi sembra che i due bambini siano stati nel tema.

Sua figlia sta imparando a vivere in una società siffatta, cioè fatta di persone umane: imperfette, fallibili, dal carattere diverso da come lo si idealizzerebbe velleitariamente: parafrasando Churchill, la peggiore situazione possibile, escluse tutte le altre (ad esempio, la vita chiuso in casa davanti alla TV e ai videogames, la simbiosi con la mamma o con altri parenti, il continuo cambiamento di compagnie al primo atto non diplomaticamente ineccepibile).

Dunque, rispondendo alle Sue precise e a Sua disposizione per approfondire ciò che qui essere necessariamente sintetico:

a) il comportamento di quel bambino ha influenzato positivamente il carattere di Sua figlia, nel senso che le ha offerto una possibilità di fare esperienza di vita sociale, con tutti i problemi che essa comporta, ben metabolizzabile da Sua figlia stessa;

b) probabilmente potrà influenzarlo ancora in questo stesso senso; comunque, in ciò che riferisce non vedo pericoli superiori a quelli che qualsiasi rapporto umano comporta;

c) E' senz'altro il caso di continuare a frequentare quei Loro amici, esattamente come previsto.

Infine, un'avvertenza: bene i nonni e benissimo il rapporto con la madre. E il padre, che ne dice? Non emarginatelo e non lasciate che si emargini.

Con i migliori saluti ed auguri per ogni cosa

prof. Franco Blezza

Il caso del figlio di una coppia allargata

“sono la compagna di un uomo separato con due figli e vorrei da voi un aiuto per gestire certe incomprensioni ed INGIUSTIZIE nei confronti dei bimbi del mio compagno e miei.

Grazie”


Gentile signora,

penso che, come me, anche altri colleghi siano disponibili e pronti ad ascoltarLa e a fornirLe tutto l'aiuto possibile.

Ci fornisca qualche elemento (età Sua e del compagno, da quanto convivono, età dei bambini, tempi dei legami precedenti,...; attività di lavoro, studio, ...; ambiente di vita attuale ed eventuali precedenti; ...); e ci ponga in termini espliciti i problemi (quali incomprensioni; quali ingiustizie; da parte di chi; ...).

In questo, tenga presente che non Le chiediamo Sue e Loro sensazioni, stati d'animo, impressioni o vissuti (o simili), che Lei potrà comunque esporre. Ci occorrono i dati di fatto sui quali lavorare.

Nell'attesa, mi creda Suo


prof. Franco Blezza

“Gentile professore,

sono stata contattata da una sua collega con la quale sono tutt'ora in contatto, la ringrazio dell'interesse grazie”


Qui, quindi, non c’è un caso affrontato, perché propriamente il caso non è stato nemmeno “posto”. Ma merita una certa attenzione, per lo meno per due motivi.

Uno riguarda il che cosa si intenda in Pedagogia per la conoscenza dei “fatti”: senza ricadere in errori positivistici, si chiedono all’interlocutore dati di fatto trasferibili intersoggettivamente; le sue proprie emozioni, il suo proprio “vissuto”, interessa uno psicologo, e non un pedagogista. In particolare, essa deve riferirci in concreto quali sono i fatti che l’interlocutrice “vive” e giudica come ingiustizie ed incomprensioni.

La seconda riguarda l’“apertura”, un requisito necessario. Non so se l’interlocutrice abbia realmente trovato un altro aiuto, oppure no, e comunque ho ritenuto di non dover indagare in materia. Se il soggetto-persona si presenta con la necessaria apertura, siamo qui. In eventualità contraria, e pur con tutta la difficoltà umana a prenderne atto, noi non possiamo fare assolutamente nulla.

In presenza, forse, si sarebbe potuto tentare qualche intervento per vie laterali, un po’ come provare ad entrare da una porta secondaria, od anche dalla finestra, quando la porta principale è sbarrata. Ma a distanza, neppure questo è possibile.


Il caso dello scolaro “punzecchiante”

“Insegno in una quinta elementare in cui è inserito un ragazzo con grossi problemi comportamentali e di particolare forza fisica. Oggi si è "armato" di punti della spillatrice che ha iniziato a lanciare sulla classe, colpendo seriamente un compagno. Io ho cercato di fermarlo "fisicamente": questo è l'ennesimo episodio. Sono esasperata. Che cosa posso fare?”


Gentile maestra,

detto così, posso solo risponderti che del problema vanno immediatamente investiti il D.S. e gli Organi Collegiali competenti, se occorre convocati con procedura d'urgenza, e degli episodi va comunque lasciata testimonianza completa negli atti; contestualmente, va convocata la famiglia con la procedura più veloce ed affidabile. Sono cose assolutamente essenziali, adempimenti doverosi, ma che ovviamente non bastano.

Se tu e gli altri insegnanti del Team aveste atteso un aggravamento significativo di un comportamento che tu stessa denoti come affetto da problemi gravi, e aveste atteso sei mesi costellati da numerosi episodi, avrei di che stupirmi. Forniscimi quindi qualche elemento di più, e ne riparliamo.

Con stima e colleganza

Franco Blezza

Anche qui ci vuole una semplice e rapida avvertenza. Il caso viene sottoposto nel mese di marzo: cioè, ad anno abbondantemente iniziato.

Non è questa la prima né l’unica volta che un caso problematico a scuola mi viene posto con abissale ritardo; e mi sono stati posti casi ben più gravi di questo. In questo caso, sembrerebbe che si siano attesi tanti mesi, largamente la maggior parte, senza aver fatto nulla. Questo sembrerebbe essere confermato anche dalla mancata risposta: se si fossero compiuti gli atti dovuti, che ho appena accennato, perché non dirlo? Se è così, come tutto lascia pensare, allora prevale ormai il “tirare a campare” fino alla fine dell’anno. Intanto, “consultiamo gli esperti”, e così passa dell’altro tempo e diamo l’impressione di aver fatto anche di più del nostro dovere. Tanto, l’anno prossimo ce ne liberiamo comunque…


Il caso della bambina “streghetta”

“Cari <<Tecnici>>,

Ieri pomeriggio ho avuto un colloquio con le maestre di mia figlia, le quali mi hanno riferito che la bambina, nei confronti degli altri compagni, ha un atteggiamento molto autoritario, rigido ed a fatica riesce ad accettare le regole. Me l'hanno dipinta un po' come una vera e propria streghetta. Parlando con la maestra, ho ammesso di essere consapevole che mia figlia (che ha 6 anni compiuti a dicembre e frequenta la 1^ elementare) abbia un carattere molto forte, ma mi è stato detto che se i bambini hanno degli atteggiamenti particolari, non è per il loro carattere, ma per altri motivi.

Sono una mamma giovane, ed è inutile dire che mia figlia per me, come per mio marito (figlia unica) rappresenta la cosa più bella della nostra vita, e forse la ricopriamo un po’ troppo di attenzioni. Forse non dovremmo... insomma sono un po’ preoccupata, sono arrabbiata perchè so che mia figlia non è così a casa, anzi, lei è molto emotiva. (Esempio: una sua amichetta di scuola è stata per quasi un mese ricoverata in ospedale e lei molte volte piangeva perchè sentiva la sua mancanza) Mi racconta sempre le cose che fanno a scuola e mi parla sempre dei suoi compagni. Insomma, forse il mio giudizio su mia figlia potrà non essere del tutto obiettivo, ma non mi sembra una bambina da tenere a distanza.

Voi cosa ne dite”


Cara interlocutrice,

da quello che mi riferisci, non mi sembra che ci sia nulla di particolare di cui preoccuparsi, salvo che il rischio di un eccessivo investimento sulla figlia, che condurrebbe ad esagerare la portata di fatti ed episodi come quelli dei quali riferisci, che sembrerebbero far parte della fisiologica vita di relazione scolastica. Ma non ho motivi per ritenere questo rischio molto prossimo.

Seguita e seguitate, voi genitori, ad amare vostra figlia e a darle il meglio di voi stessi: purché in sano equilibrio con la coltivazione del vostro rapporto a due, e dei rapporti di ciascuno di voi con l'esterno: rapporti di lavoro, di comunicazione, di famiglia, di cultura, e via elencando.

Per qualunque cosa, sono qui

Franco Blezza


Il caso della trentanovenne, del trentaseienne e dell’interrogativo angoscioso

“HO 39 ANNI TRE FIGLI. SEPARATA DA 15 GIORNI. SONO TANTO ANSIOSA. SONO TRISTE. HO UNA RELAZIONE CON UN 36ENNE DA UN ANNO E MEZZO MA LUI E TANTO IMMATURO E PUR AMANDOMI MI DICE CHE NON ACCETTERA MAI DI VIVERE CON ME.
SO CHE LO DOVREI LASCIARE MA NON CI RIESCO. LUI E FIGLIO UNICO E QUANDO VADO DA LUI CHE ABITA A 350 KM A VOLTE NEANCHE CI DORME INSIEME A ME PERCHE' NON HA SCUSE PER LA MAMMA!
DIO CHE TRISTEZZA E IO NON HO UN BRICIOLO DI DIGNITA
CHE AMORE E'?????”


Cara interlocutrice anonima,

immagino che la presenza di questo “trentaseienne” non sia stata la causa principale della separazione da tuo marito. Credo che, in un anno e mezzo, tu abbia avuto tutti gli elementi per renderti conto che questi non avrebbe comunque preso il posto di tuo marito.

Puoi farti tutte le domande che vuoi circa la qualità e la definizione del sentimento (o meno) che lui prova per te, ma non credo che ti farà fare molta strada. Penso che dovresti domandarti che cosa può accomunarti a quest'uomo, così come è, e se è questo che cerchi.

In altre parole, di “io lo cambierò”; “l'amore lo potrà cambiare”, “con il tempo...” e simili illusioni ho visto un campionario di delusioni e fallimenti che non vorrei veder accrescersi di continuo, come purtroppo avviene. Le coppie che funzionano, oggi, sono quelle nelle quali i due mettono in comune ciascuno una parte di sé e della propria vita, di comune accordo e con comune gradimento senza riserve, e non hanno nulla da chiedere all'altro più di questo. Né va chiesto se questa parte in comune sia “tanta” o “poca”.

E dei tre figli, che ci dici?

Siamo qui

Franco Blezza


Valgono anche in questo caso, ovviamente, delle osservazioni già fatte. Se l’interlocutrice ritiene di aprirsi, la si può aiutare; in ipotesi contraria, non è possibile andar oltre delle indicazioni assolutamente generali dettate dall’esperienza di professione e di vita. Non è poco, è il massimo che si può fare in queste condizioni.

Il poter fare di più non dipende dal Pedagogista, ma solo ed esclusivamente dall’interlocutore.


Il caso del bambino con “doloretti”

“mio figlio di 6 anni lamenta spesso dolori e dolorini (modello malato immaginario), di notte va spessissimo in bagno. Non bagna mai il letto ma la "pipì" è diventata una ossessione per lui tanto da alzarsi poi la mattina stanchissimo. Gli ho fatto fare tutte le analisi possibili ma a livello fisico non ha nulla che non vada.

Vorrei aiuto per capire come potrei aiutarlo.

Grazie”


Cara interlocutrice.

come certamente saprai, noi non siamo psicologi, e quindi se ciò che tu presenti, nella necessaria sintesi, presentasse risvolti di interesse psicologico, noi non potremmo comunque dirti nulla nello specifico.

Penso però di poterti dire che, alla mia esperienza, casi del genere si presentano di frequente quando il bambino senta il bisogno di richiamare l'attenzione su di sé e di avere un conforto dalla madre che gli sembra al momento insufficiente. Ciò può avvenire per tanti motivi diversi, che vanno dall'abuso (purtroppo frequente nella nostra cultura) del sonno dei bambini nella camera dei genitori, o addirittura dell'accoglienza nel loro lettone, alla nascita di un fratellino, al variare delle occupazioni e degli interessi dei genitori o della madre in particolare, alle altre innumerevoli analoghe situazioni che tu stessa puoi immaginare, e nelle quali forse ne puoi trovare più di qualcuna su cui indirizzare la tua attenzione-

Ora, non si tratta evidentemente di “tornare indietro”, il che poi significherebbe perpetuare uno squilibrio dell'attenzione verso il figlio a scapito di un riequilibrio delle dinamiche affettive e relazionali. Si tratta invece di rassicurare il bambino che non solo non ha perso nulla ma anzi che è fatto per lui anche ciò che gli sembra sottrargli qualche cosa. Si tratta di coinvolgere maggiormente il padre, del quale non parli neppure. E si tratta anche di dargli il tempo necessario per operare pienamente la transizione verso la fanciullezza. Si parla tanto delle difficoltà implicate dalla transizione all'adolescenza con la pubertà, ma si parla poco delle difficoltà di questa transizione precedente, che non sono poi così piccole.

Del resto, se (è solo un esempio) l'avete tenuto a dormire in camera vostra per anni, oppure ve lo siete portato in letto fino a ieri l'altro (o lo fate ancora?), oppure se (sempre ad esempio) tu sei stata a lungo mamma a tempo pieno o quasi, e solo più tardi hai ripreso una posizione più equilibrata tra gli impegni familiari e quelli professionali, perché lui metabolizzi cambiamenti di simile portata ci vorranno tempo e pazienza: giusti i cambiamenti, altrettanto giusti il tempo e la pazienza.

E non credere che il padre c'entri poco o nulla: anche a questa età, il padre può avere un ruolo assolutamente paragonabile al tuo, pur se diverso. Se è possibile, consenti che lo svolga nel modo più pieno possibile; per lo meno, aiuta a rimuovere quegli ostacoli che eventualmente a ciò si frapponessero, a cominciare dai pregiudizi contrari che, nonostante tutto, permangono.

Per qualunque cosa, sono qui, con i miei colleghi, per offrirti il mio aiuto

Franco Blezza


Il bambino e l’amico-mano

“Mio figlio, 3 anni ad agosto, sereno e socievole, parla spesso con la sua mano sinistra chiamandola Nick (nome del suo amico del cuore). Quando fa cose che non deve, la-lo sgrida, addirittura la-lo picchia... E' normale? Ciao Grazie”


Cara signora,

per quel che ci racconta, io mi preoccuperei solo se su questa mano compisse del vero e proprio autolesionismo, ma mi pare (dal tono impiegato) che ne sia lontanissimo. Dunque, stia tranquilla e lo lasci giocare come la sua fantasia meglio gli suggerisce, e senza caricarlo di significati impropri: semmai, predisponga l'evolversi al meglio della sua socializzazione, che lo porterà a spostare la sua attenzione dalla mano-Nick a chissà quanti Nick e Nickie con due mani e dieci dita...

Ci creda sempre attenti e a Sua disposizione

prof. Franco Blezza


“Scusi se la disturbo di nuovo.

Innanzitutto la ringrazio della rassicurazione, a volte noi genitori siamo troppo e inutilmente “psicologi”.

Ora le espongo un altro quesito: Xxxxx ha iniziato da circa una settimana a non portare più il pannolino. Alterna giorni in cui fa sempre la pipi nel vasino, a giorni in cui se la fa addosso. Il problema è quello della defecazione: sono 4 gg. che non va di corpo, forse è confuso, non sa più dove farla. Purtroppo non ci siamo preoccupati più di tanto di informarci bene sul modo da tenere perché questo passaggio, pipì,cacca nel pannolino - pipì, cacca nel vasino, avvenisse "naturalmente" e adesso siamo un po' in difficoltà. Potrebbe consigliarmi un buon libro, oppure dirmi come è meglio agire.
Grazie ancora”


Cara signora,

ma non mi disturba per niente! Solo, mi dispiace che l'aiuto che Le posso dare per via telematica sia comprensibilmente limitato.

Questo problema l'hanno parecchi genitori: troppi, proprio perché i pannolini usa-e-getta li hanno abituati un po' tutti “bene” cioè male, ad attendere tempi eccessivi. Sono così comodi, che si dimentica che il tempo “naturale” per avviare l'educazione al controllo degli sfinteri sarebbe sui 18 mesi, pur con tutte le variabilità individuali. Ed invece, attendono quasi tutti i tre anni ed oltre. Magari credendo che sia un modo di fare “il bene” del figlio, come se l'essere autonomo per questo importante adempimento fosse un sacrificio, mentre invece fosse un beneficio dipendere dai genitori persino per questo.

Ciò premesso, e quindi invitandoLa a valutare la questione come socialmente (purtroppo) diffusa, non si tratta di nulla di particolarmente grave. Ne escono poi praticamente tutti benissimo, e quei pochi che non ne escono benissimo hanno altrove i loro veri problemi. Le pongo una domanda retorica: Le pare che una settimana possa essere sufficiente ad operare questa transizione, considerata la “comoda” inerzia prolungatasi per almeno un anno e mezzo?

Dia a Suo figlio, insomma, il tempo che gli è necessario. Che difficilmente avrebbe potuto essere di una sola settimana. Abbia la pazienza necessaria, anche seguendolo in un modo di procedere che non è "naturale" ma culturale, frutto di educazione. Come ogni controllo che ciascuno di noi esercita su sé stesso.

E non attribuisca quattro giorni di mancata evacuazione necessariamente a problemi di stipsi: non impieghi nessuno strumento, che non sia alimentare, se non dopo aver attentamente consultato il pediatra.

Per quel che serve, sono qui. Perché non mi parla del padre di Xxxxx? Cordialità

prof. Franco Blezza

“Il padre di XXX si chiama YYY e vive ogni "cambiamento" evolutivo del figlio e della famiglia come la cosa pi? naturale del mondo. Certo sono più io a essere presente nella dinamica organizzativa di tutti, lui compreso, ma questo ? abbastanza normale, visto che la sua giornata si svolge al lavoro a ZZZ [grande città, n.d.a.], noi abitiamo a WWW [51 km di distanza, n.d.a.] (e io lavoro tutto il giorno qui). YYY, uscendo la mattina prima delle 8 e rientrando la sera dopo le 7.30, dedica il suo tempo al gioco, alla "lotta", alle "macchinine", al bagnetto con XXX ecc. Si preoccupa diversamente dei processi cultural-educativi rispetto a me che sono più ansiosa e puntualizzatrice, anche se quando c'è qualsiasi difficoltà o decisione da prendere io dò il "la" e lui mi segue. Dunque, come molto spesso accade, siamo una normale famiglia formata da due genitori che lavorano entrambi, da un bimbo che viene seguito da due nonni esageratamente "meravigliosi" (in senso lato, con tutti i loro difetti sono molto attenti a lui e alle nostre esigenze, quindi ascoltano sempre le nostre direttive) e che non ha mai avuto problemi di socializzazione. Il punto fermo della giornata di XXX? il Gioco, sempre e comunque, si dimentica di tutto se si diverte, posticipa ogni cosa, cibo e bisognini compresi. Ha luoghi e amichetti che per lui sono punti fermi e non ci ha messo molto a crearseli. Ripeto siamo stati abituati da XXX troppo bene, questo ? il primo ostacolo, diciamo così, che stiamo affrontando: per questo non mi lamento affatto, anzi vorrei solo farlo nel modo migliore, senza fretta e senza ansia, come finora ? cresciuto XXX. Ecco la nostra piccola storia. Ah dimenticavo, molte altre sono state le occasioni in cui XXX stato qualche giorno senza evacuare, soprattutto dai 3 ai 10 mesi, quando fargli le perettine era pratica bisettimanale!!! sempre monitorati dal pediatra. Siamo due genitori alla ricerca di un buon modo per permettere a XXX di superare senza "traumi" anche questa fase della crescita.

La ringraziamo (i nomi dei due genitori)”

Gentili signori [nomi dei due],

sono io a dover ringraziare Lei e Suo marito, per questa splendida testimonianza di come dovrebbe essere la presenza del padre e marito anche in casi di necessaria asimmetria nella ripartizione dei compiti. Così dovrebbe essere, e probabilmente stiamo andando proprio in questa direzione: ma ci vorranno decenni. Ed intanto, sapesse quanti casi mi si presentano di riproposizione della "coppia a sovrapposizione" otto-novecentesca, della "famiglia nucleare" nella quale l'asimmetria dei ruoli, dei generi e dei compiti è invece spinta all'estremo. Eppure, che funzioni sempre peggio specie nell'educazione dei figli è di un'evidenza solare!

Con tutta la mia stima professionale ed umana ad entrambi

prof. Franco Blezza

Circa sette mesi dopo, con l’occasione del Natale, la signora tiene a confermare la riuscita dell’intervento d’aiuto on-Line.


Non so se si ricorda di me, sono la mamma di quel Xxxxx che aveva problemi dopo aver tolto il patello... Comunque volevo solo salutarla e augurarle un buon nuovo anno, noi stiamo benone, Xxxxx va alla scuola direi splendidamente (si è già fatto i suoi amici del cuore, addirittura ha un fratello di scuola, così lo chiama lui). Siamo soddisfatti e orgogliosi che la sua crescita prosegua così serenamente. Ancora buon natale e buon anno

(nome della signora)


Gentile signora,

ricordo perfettamente quanto ci ha scritto di Suo figlio con l'amico-mano; come vede, ora gli amici si sono correttamente concretizzati, il che era quanto ci aspettavamo.

Che sia di buon auspicio per ogni cosa. Ricambio i graditissimi aiuti, a Lei e ai Suoi cari


Prof. Franco Blezza


Vogliamo parlarne?

Anche questa consulenza, praticamente mancata, è più interessante per quello che non c’è: sembra un problema posto con il massimo coinvolgimento umano, eppure non regge alle domande più elementari. Se l’interlocutore non intende porre come problema una situazione problematica, io Pedagogista non posso dargli nulla.

“Salve, ho una relazione con una ragazza da Agosto del 2001.

Questa relazione non è partita seriamente da parte mia, all'inizio mi dicevo che prima o poi avrei troncato. Ora mi chiedo la lascio o no? è un dramma e non so che fare. Qualche tempo fà le ho chiesto un po' di tempo per rifletterci su'. La cosa strana e' che mentre glielo dicevo, piangevo dicendo di volerle bene.

I giorni successivi piangevo pensando a lei, cosi' ho deciso di riprendere la nostra relazione. Ora pero' mi ritrovo nella medesima situazione di dilemma. Perche' mi comporto in questo modo?

Grazie per l'attenzione.”


Caro amico,

penso che presso di noi tu possa trovare degli interlocutori attenti, sensibili, e disponibili a fornirti un aiuto professionalmente valido quanto umanamente significativo. Ma, per far questo, c'è bisogno di qualche elemento in più: con quanto ci scrivi, dubito che si possa andar oltre qualche indicazione molto generica, che immagino tu non voglia.

Quanti anni hai tu, e quanti ne ha lei? Siete studenti (e a che punto), lavoratori (che lavoro o lavori fate) o in quale altra posizione? Le vostre famiglie? In quale (o in quali) realtà vivete?

Come vi siete conosciuti? Questa “relazione”, oltre ad una frequenza e ad un esercizio sessuale che forse vuoi lasciare sottintesi (per ora), quali contenuti ha avuto? Avete interessi comuni, attività comuni, una buona comunicazione culturale? Condividete qualche aspetto dei rispettivi progetti di vita, al di là di come avete pensato la vostra relazione, o di come l'hai pensata tu all'inizio?

Avete mai parlato della vostra relazione? E se sì, come?

Di che cosa parlate?

E così via. Se desideri cominciare a parlare di queste e di altre cose, siamo qui. Ti propongo, in sintesi, di cominciare a descrivere che cosa vi è in comune tra di voi, quale parte comune possono avere le vostre vite, e in quale contesto.

Cordialità


Franco Blezza

Qualche messa a punto a proposito della depressione infantile

“La mancanza di piacere, di entusiasmo e di spirito d'iniziativa nei bambini in età prescolare potrebbero essere considerati sintomi di depressione?

E se si, quali potrebbero essere le cause e quali strategie in ambito scolastico, si potrebbero adottare per questi bambini che non sorridono mai?

La prego di contattarmi al più presto. distinti saluti un'insegnante di scuola materna”


Cara collega,

la depressione, ovviamente, deve esser diagnosticata da un medico specialista. Né va creduto che diagnosticare queste malattie, per il fatto che se ne discute molto e le si considerino relativamente comuni, sia accessibile per un pedagogista o per un insegnante. Non dobbiamo esorbitare dalle nostre competenze: non solo per ragioni di legge, che basterebbero da sole, o per ragioni di equilibrio tra professioni, che basterebbero anch'esse da sole; ma perché non ne abbiamo le competenze

Ne abbiamo altre.

In una funzione che può assomigliare a quella di un supervisore, mi è capitato molte volte di seguire miei allievi o colleghi: ogni volta che li ho visti impiegare strumenti concettuali ed operativi psicoterapici e neurologici, cioè per i quali non avevano la necessaria preparazione, ho visto parecchi guai e, da parte mia, non nascondo una buona dose di travasi di bile.

E' peggio che per l'apprendista stregone. Sono strumenti facili ad evocarsi, ma una volta che siano in campo un pedagogista non è in grado di controllarne le conseguenze.

Tutto ciò premesso, la domanda potrebbe riformularsi come segue:
la mancanza di piacere, di entusiasmo e di spirito d'iniziativa nei bambini in età prescolare potrebbero essere considerati motivi per consigliare una visita specialistica?

La risposta, secondo me, è no. Questi da soli, e così formulati, non mi sembrano motivi sufficienti.

Con lo spirito di colleganza di sempre

Franco Blezza


La cosa ha acceso un vivacissimo dibattito sullo specifico del Pedagogista: dibattito che ad un certo punto riprendevo nei suoi tratti più essenziali.


Carissimi tutti,

la “richiesta d’aiuto” pervenuta a “Pedagogisti on Line” dalla collega insegnante di scuola materna sulla depressione infantile ha suscitato osservazioni, riflessioni e una rassegna altamente significativa di strumenti concettuali ed operativi di ordine strettamente pedagogico che penso concordiate tutti nel giudicare di grande valore.

Dal punto di vista metodologico, c’è già qui un primo importante insegnamento: il procedere “per problemi” è estremamente fecondo, e consente di estendere la discussione a livelli e a dimensioni molto superiori a quelle di partenza.

Un secondo importante insegnamento è nel merito: molti degli interventi hanno ben riempito di contenuti l’affermazione dello specificità per il campo del Pedagogista, ben distinto da quello dei professionisti di cultura psicologica.

E’ da notare come non poco di questi contenuti sia ascrivibile con proprietà alla sfera didattica: e anche questo è importante. Noi abbiamo una storia antica, come ci insegnava Dewey, che risale ai Sofisti e a Socrate e quindi alle origini della civiltà occidentale, una storia pari a quella dei medici o dei giuristi, ed enormemente più lunga e profonda di quella di professioni la cui cultura è nata negli ultimi due secoli, o giù di lì. Ebbene, in questa storia di due millenni e mezzo c’è anche la storia di tutto quanto è insegnamento, con le relative metodologie, tecniche, strumentalità concettuali ed operative. Ritengo che sia ricco lo scambio possibile tra insegnanti e pedagogisti, anzi che il più rimanga ancora da fare.

Certo, il riferimento alla dimensione psicologica è molto importante, in quest’ultimo scorcio della nostra storia nel quale possiamo avere al nostro fianco la Psicologia come scienza. Ma esso va compiuto, oltreché come per tutte le scienze dell’educazione, proprio per individuare che cosa rimane scoperto e disatteso da qualsiasi intervento psicologico, e richiede invece un intervento pedagogico, cioè d’altra natura: sul conscio e non nell’inconscio, d’aiuto e non terapeutico, dialogico ma paritario, e via proseguendo per linee che i frequentatori di questo E-Group conoscono bene.

Concludo con un ricordo personale, per il quale non scomodo il termine “autobiografia” e derivati conoscendone l’importanza tecnica specifica per tutti noi.

Negli anni ’80, da ex insegnante che aveva studiato Epistemologia, mi occupavo soprattutto di scuola, di Metodologia e Didattica, di Educazione Scientifica; ma ho cominciato a rivolgere i miei interessi di ricerca a problematiche pedagogico generali aperte alla dimensione professionale, in particolare a problemi di coppia, famiglia, Partnership, genitorialità, alla fine di quel decennio, cioè prima di venire a conoscenza delle associazioni dei Pedagogisti e della stessa esistenza di questa professione.

All’origine di questo riorientamento della ricerca vi sono state proprio delle letture di un grande psichiatra, o meglio psicologo sociale,e precisamente Erich Fromm. Le casistiche che lui stesso trattava, così rigorose dal suo punto di vista, gettavano tutte una grande luce su un amplissimo dominio aperto e intatto, quello appunto di che cosa aveva e non aveva fatto l’educazione, e soprattutto di che cosa si sarebbe potuto richiedere all’educazione al di là dell’intervento psicoterapeutico, indubbiamente necessario, ma altrettanto evidentemente non sufficiente.

Dalle casistiche, in particolare, di The art of Loving (ma leggendo anche Freud, e tra i contemporanei italiani Willy Pasini, Giorgio Abraham, Gianna Schelotto, Vittorino Andreoli, ed altri ancora) sono poi venuti i casi concreti trattati in interlocuzione, e la stessa idea dell’interlocuzione pedagogica, come potete leggere in “Pedagogia della vita quotidiana”.

Con lo spirito di colleganza di sempre

Franco Blezza


Il caso della madre con bambino di due anni

“Ho un bambino di 2 anni, fino ad aprile di quest' anno ha vissuto con me e il suo papà, causa problemi e liti violente io e il padre ci siamo separati, abbiamo cambiato casa io e il bimbo e dopo qualche mese è venuto a vivere con noi il mio nuovo compagno. Io non lavoro più da quando è nato il bimbo che è quindi sempre stato con me, lo porto con me sempre e dappertutto. Da luglio di quest' anno gli ho tolto il pannolino (aveva 15 mesi), ancora adesso non ha imparato bene e durante questi mesi è stato punito spesso per questo problema. Il mio problema attuale sono i capricci, il bimbo si esprime solo piangendo, anche per chiedere un bicchiere d' acqua lo fa spesso e volentieri piangendo, la cosa che credo gli dia più fastidio è il restare da solo in camera a giocare mentre io faccio cose dove lui proprio non può stare, tipo cucinare. Come esco dalla camera incomincia a piangere senza motivo. Per correggere questo problema ho provato con qualche sculacciata sul culetto e ultimamente mettendolo in castigo nell' angolo dove rimane a gridare facendo capricci assordanti. Sono convinta di aver sbagliato forse nello stargli troppo vicino e poi quando vede il papà, viene coccolato e viziato così quando torna a casa e peggio di prima.

Tutte le volte gli parlo spiegandogli che non deve piangere per ogni cosa, lui risponde di si, sembra aver capito tutto e dopo poco riprende con la solita storia.

Come posso risolvere questo problema??

Ringrazio anticipatamente.”

Gentile signora,

premessa doverosa a questo, come a qualunque altro intervento on-line, è che si tratta di una forma di aiuto parziale perché del problema che Lei ci pone conosciamo solo quello che Lei stessa sintetizza, e non abbiamo potuto neppure vedere né Lei, né il bambino, né le due figure maschili sul campo.

Osserverei, innanzitutto, che del Suo nuovo compagno Lei non parla, e pure qualche ruolo lo ha sicuramente.

Inoltre, l'aiuto del pedagogista ha sempre, per sua intrinseca natura, la forma e la sostanza del suggerimento piuttosto che non del consiglio (e della prescrizione ancor meno), del parere piuttosto che del giudizio.

Ciò detto, è chiaro che il passaggio da un periodo di stretta simbiosi madre-figlio ad un distacco che potrebbe essere stato anche troppo netto, non poteva essere facile, né andare senza contraccolpi nel bambino stesso, ma sicuramente non solo in lui. Ciò, anche se non ci fosse stata di mezzo la separazione dei genitori, con tutte le conseguenze tra le quali quelle cui Lei accenna. Il padre ora lo “coccola” e lo “vizia”: prima, si disinteressava di lui, o ne era di fatto impedito dalla simbiosi madre-figlio (cioè, ne era escluso)?

Il controllo degli sfinteri è sicuramente importante, e io personalmente non sono d'accordo con la tendenza invalsa a differirlo in misura abnorme favorita dall'impiego di pannoloni sempre più efficienti, comodi, e ben reclamizzati. Il che non toglie che anche questo atto educativo (come infiniti altri) richieda sempre attenzioni, cure e molta sensibilità: in questo particolare contesto, tutto va adeguatamente rafforzato. Soprattutto, richiede tempo.

Fra l'altro, se aveva 15 mesi in luglio, allora non ha ancora 2 anni: ne dovrebbe avere 21, e a questa età 3 mesi non sono certo pochi.

In sintesi, io direi che non dovrebbe attendersi da Suo figlio una risposta eccessivamente ravvicinata ai Suoi interventi. Gli dia il tempo per ogni cosa, senza pensare che un ricorso a punizioni faciliti le cose: il tempo sia per accettare un distacco dalla madre che ci deve essere, ma che deve essere progressivo e graduato nel modo più attento, sia per il controllo dei suoi sfinteri e di sé stesso, sia per qualunque altro obiettivo Lei si proponga di conseguire con lui.

Non esiste uno scadenzario ottimale prescritto per tutti i bambini, ognuno ha i suoi tempi e va rispettato in questo. Fra l'altro, per quel che posso intuire, mi sembra che Suo figlio sia molto più avanti di tanti suoi coetanei.

Direi poi che anche in cucina, come in qualunque altra situazione domestica, è possibile non distaccarsi del tutto dal figlio, evitare il “tutto o niente” e graduare le cose. Adottate tutte le doverose cautele, anche a salvaguardia della sua incolumità, a volte è possibile ricavare un angolino, altre si può lasciar aperta la porta e farlo giocare nel corridoio o nell'anticamera, e via esemplificando. Comunque, si può suggerire che la casa non sia necessariamente arredata e fatta funzionare secondo standard “adulti”, senza cioè tener conto che vi abita anche un bambino, e che questi è latore di bisogni e di aspettative che non sono certo meno importanti di quelli degli altri due inquilini.

Conosco tante case che sono arredate “perfettamente” secondo standard adulti, ma nelle quali il bambino è un completo estraneo, costretto a chiudersi nel ghetto della sua cameretta, a volte neppure in questa a suo agio.

Infine, la figura maschile: ma solo in ordine espositivo, si tratta della cosa più importante e che influenza tutte le altre.

Non è assolutamente vero che di essa ci sia meno bisogno a due anni (o meno) che non, poniamo, a 12 o a 16: ce n'è bisogno dalla nascita, esattamente come per la figura femminile. Da quanto scrive, non posso evincere quali siano le condizioni di presenza del padre: la tendenza attuale è affidare il figlio ad entrambi i genitori anche in casi di separazione, secondo modalità organizzative sicuramente più complesse di quando si chiudeva il discorso, semplicisticamente, dicendo che finché è piccolo va affidato alla madre salvo gravissimi motivi contrari, ma anche con maggiore rispetto per lui e per le sue necessità educative.

La cessazione del vostro rapporto coniugale non è necessariamente motivo di impossibilità a cooperare nell'educazione di vostro figlio. Per lo meno, provateci, e cercate l'equilibrio migliore possibile tra le legittime e sacrosante esigenze di ciascuno di voi, e le non meno legittime e sacrosante esigenze del bambino.

Ma il discorso può continuare. Ci creda Suoi attenti ascoltatori, e gradisca i migliori saluti ed auguri

prof. Franco Blezza


Il caso della educatrice di nido pensionanda

Il caso che segue non sarebbe, di per sé, di grande interesse: lo diventa, se si considera che immediatamente dopo la posizione del caso in rete, e prima che il sottoscritto potesse rispondere, ben due pedagogiste volontarie hanno risposto secondando in ogni modo delle azioni contro quell’educatrice, della quale non si riporta alcuna colpa né alcuna mancanza.


“Sono la mamma di due bimbi che frequentano la stessa sezione asilo nido comunale. Qui lavorano tre educatrici con diciotto bambini. Ho problemi con una educatrice (questa ha poca voglia di lavorare). Come mi devo comportare? Devo continuare a far frequentare il nido. Questa signora mi ha detto che non posso avere il numero della pedagogista (probabilmente teme che io possa raccontare qualcosa). Non penso che sia giusto che lei continui a prendere un salario nonostante non faccia che pensare alla pensione. Chiedo aiuto. Sono due notti che non dormo per questo problema.”


Gentile signora,

nella Sua cortese richiesta d'aiuto non specifica di quali “problemi” si tratti: azzarderei,. dato il tono che Lei impiega, e tenuto conto delle considerazioni contestuali cui Lei stessa accenna, che si tratti di un impegno non del tutto adeguato da parte di una educatrice (su tre), di un adempimento non pienamente soddisfacente a tutti i compiti, e non di atti che causino effetti negativi sui bambini. Se è così, è certamente deplorevole, ma non è (purtroppo!) nulla di diverso da qualunque analoga struttura di servizio, dove il buon funzionamento dipende dalla buona volontà dei singoli: ne incontrerà in tutti i gradi di scuola, nella sanità, nei servizi sociali, nel pubblico come nel privato.

Se, invece, registra in Suoi figli e negli altri bambini effetti tali da richiedere interventi diversi, ce lo faccia sapere: ci riscriva, e troverà persone attente e professionisti preparati e disponibili.

Indubbiamente, nessuno è autorizzato a fornire i dati privati di nessun dipendente né pubblico né privato: se lo facesse, incorrerebbe nei rigori della legge di tutela della Privacy. Piuttosto, esistono certamente delle strutture di controllo, dalle quali dipendono sia il nido che le educatrici. Ed esiste la possibilità di incontrarsi tra genitori e con gli educatori.

Tuttavia, cara signora: è sicura che vi siano dei problemi di notevole entità, e non si tratti di un segno dell'amore che tutti noi abbiamo per i nostri figli, per cui ogni cosa che viene fatta per loro ci appare sempre e comunque, di primo acchito, troppo poco? Perturbare un rapporto tra educatore ed educando, anche se non ci appare adeguato, comporta dei costi per l'educando: costi che si decide di far pagare all'educando stesso solo se si ritiene di evitargli altri danni, che siano sicuramente più gravi.

Mi creda Suo


prof. Franco Blezza


Il caso della preferenza per il cibo della mensa scolastica

E concludiamo con un caso in sé abbastanza semplice, ma con la particolarità di presentare un problema reciproco a quello che di solito si pone in situazioni di alimentazione dei bambini sia a casa che alla mensa della scuola.


sono una mamma un po triste per il mangiare.... io amo tantissimo preparare da mangiare pero la mia deliziosa e furba bimba di 5 anni mi dice sempre che non faccio buono e che la cuoca dell asilo fa buono da mangiare e quando e l ora di mangiare mi dispero perche so che lei rimanda es dice deve andare in bagno o fare qualcosa altro e mi dica cosa devo fare anche se so che mi dice di fare qualcosa che attira per es un disegno di carote o patate....per fortuna il bimbo piccolo 20 mesi mangia tutto grazie per un piccolo sollievo..... roby

Gentile signora,

parlando con i genitori dei compagni di Sua figlia, non Le sarà difficile rendersi conto di quante difficoltà vi siano, tra quei genitori e quei bambini, ma per il motivo esattamente opposto. Molti figli, cioè, rifiutano in parte o in tutto il cibo alle mense scolastiche, rimanendo testardamente abbarbicati al cibo di casa.

E', quello, un comportamento nel quale spesso si legge un attaccamento eccessivo verso la casa e la mamma, e un rifiuto a socializzare appieno "fuori" di quell'abbraccio, accogliente quanto limitante.

Quello è un problema, spesso grave. Il Suo, invece, dovrebbe essere innanzitutto un motivo di rallegramento: ha una figlia "furba" come scrive, sveglia, matura, probabilmente ben inserita e socializzata nella sua Scuola.

Non drammatizzi, quindi, innanzitutto, e apprezzi appieno il positivo che c'è e che, stando all'esperienza mia, non è davvero poco.

Ciò detto, perché non prova a parlare con Sua figlia del problema che, invece, La preoccupa tanto? Provi a chiedere a lei che cosa vi sia di così buono nel cibo della Scuola, che cosa potrebbe rendere altrettanto attraente il cibo di casa. Provi a vedere se non può introdurre qualche cambiamento nel menu domestico che possa renderlo gradevole per Sua figlia come lo è quello scolastico. Non sempre ciò che sembra attraente per noi adulti risulta poi tale anche per i nostri bambini, ed è giusto così: ma vedrà che Le occorrerà assai poco.

Se mi permette un ricordo di quand'ero bambino: quando frequentai io quello che allora si chiamava "asilo infantile" le suore mettevano a disposizione solo il primo piatto, di solito una ignobile minestrina: e noi dovevamo portarci il "secondo". Mia madre faceva ogni sacrificio perché avessi qualche cosa di pregiato, ma se lo vedeva spesso riportare indietro. I miei compagni. infatti, divoravano con grande gusto un certo surrogato della cioccolata spalmabile, antenato molto alla lontana della ben più nobile Nutella, e desideravo cibarmene anch'io. La cosa si risolse, perché mia madre volle interrogarmi e mi ascoltò.

Parli anche Lei con la Sua furba e sveglia figlia, e provi ad ascoltarla, serenamente e senza pregiudizi. Vedrà che una soluzione, insieme, la trovate. E sarà un gran passo in avanti per Sua figlia, per Lei e per il vostro rapporto madre-figlia.

E poi, se crede, ci ri-contatti. Con i migliori auguri per le Feste correnti


prof. Franco Blezza

 

Parte V


Un breve carteggio telematico sul tema Pedagogista-Educatore


Presentazione

Si riporta, infine, un breve ma serrato carteggio telematico intervenuto con l’anziano collega Paolo Marcon nel novembre del 1999.

Esso si è innestato su un dialogo preesistente, che era centrato anche sulle reminiscenze dell’interlocutore circa la città di Treviso dove aveva frequentato lo stesso Liceo Ginnasio “A. Canova”. Questo particolare carteggio ha avuto la sua origine in un intervento dello scrivente sul “Bollettino dell’As.Pe.I.” , vale a dire l’organo dell’associazione nella quale si incontrano, dalla sua fondazione, Pedagogista accademici, uomini di scuola impegnati in tutti i gradi, ed anche professionisti di quel complesso di settori che si chiamava un tempo “extra-scuola”, ad intendere che era ancora in sviluppo a fronte di un i8nsediamento più saldo della Pedagogia nella scuola e nell’università.
Paolo Marcon ha costruito il suo itinerario accademico, fino al grado di docente di II fascia, sulla formazione degli Educatori Professionali, cioè su quella che era nell’ordinamento precedente alla riforma dei titoli accademici una formazione di livello inferiore rispetto a quella cui avviava la laurea almeno quadriennale. Si trattava di corsi di vario tipo, che non andavano mai oltre i tre anni, e che hanno assunto negli ultimi decenni prima la definizione di “Scuola diretta a fini speciali” e, poi, di “D.U.” cioè di “Diploma Univeritario”. Una formazione e una professionalità, quindi, corrispondenti a quelle dell’Assistente Sociale, dell’Infermiere Professionale, dell’Educatore Motorio, di numerose professioni sanitarie non mediche (Logopedista, Ortottista, Fisioterapista, Ostetrica, Tecnico di Laboratorio, Tecnico di Radiologia), e di altre professioni meno strutturate ma corrispondenti a DD.UU. preesistenti (Statistico diplomato, Grafologo, …).
Oltreché come testimonianza di vita vissuta entro un determinato settore della formazione accademica, in questo appassionata e gelosa delle sue acquisizioni soggettive, queste poche pagine sono interessanti in particolare proprio per il determinato e preciso rifiuto proprio del concetto di mediazione pedagogica e, di conseguenza, del piano d’esercizio proprio del Pedagogista professionale. La visione dell’Educatore Professionale difesa con passione dal Marcon richiederebbe, come ulteriore articolazione del “fare Pedagogia”, solo il Pedagogista accademico, teoretico, filosofo dell’educazione, i cui precetti l’Educatore Professionale avrebbe il compito di tradurre in atto, per il resto appoggiandosi sulla sua esperienza professionale, che egli chiama Prassi con evidente difficoltà.
Il dialogo è continuato, ma attorno ad altre questioni: in particolare, egli aveva in avanzato stato di allestimento una nuova rivista, la quale avrebbe preso in qualche misura il posto de “L’educatore professionale” di cui egli era stato a lungo condirettore.
Paolo Marcon, nato 1924, è mancato prima di portare a compimento questo suo nuovo compito.
Il carteggio viene riprodotto integralmente, fatti salvi solo i riferimenti a terze persone (inessenziali ai nostri fini) e i vari ragguagli tecnici della posta elettronica.


Un breve carteggio

-----Messaggio originale-----
Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Data: martedì 14 settembre 1999 0.00
Oggetto: educatori e pedagogisti


Caro Franco,

[vengo informato] dell'incontro fra pedagogisti a Bari e forse non sarebbe male un preincontro con gli educatori, dato che non mi sembra esistano ragioni di concorrenza.
Ho intravisto in ASPEI alcune tue considerazioni sulle quali pnso di far avere a te ed a Serenella le mie riflessioni.
Il filone educatori è un filone che non si ferma alla base: fin'ora trovava la sua continuazione nella laurea in Pedagogia, ma ora avrà un suo iter specifico. Forse non è male e forse non è male che le altre vie educative abbiano un primo ed un secondo livello, come in tutta Europa, cosicchè la Pedagogia diviene la Gran Madre di una articolata famiglia.
Si tratta poi di intendersi: i tedeschi chiamano gli educatori coloro che hanno una formazione secondaria superiore (asili nido e giardini d'infanzia;
lì la scuola materna come pre-scuola non esistono) e chiamano pedagoghi(brutto in italiano!) sociali quelli con formazione superiore/ universitaria; quelli delle Fachhochschule sono diretti ai servizi sociali dei Landers, quelli dell'Università si ripartisocno in alcune specificazioni (vedere :La formazione degli educatori professionali in Germania a cura del sottroscritto.ed.Marzorati 1992).
Riparliamone, vediamoci anche con il presidente ANEP(ass.ed.profess.).
Confesso che ho una debolezza per il termine "educatore" come la ho per il termine "contadino"; anche se diventi dirigente di azienda agricola è difficile dimenticare i sudori e le fatiche dei "nonni".
Cordialmente paolo

---------------------------------------------


Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Oggetto: educatori e pedagogisti
Data: martedì 14 settembre 1999 20.38


Caro Franco,

sto leggendo con attenzione il testo della tua lettera alla Presidente ASPEI e vi sono passaggi che mi meravigliano perché, a mio avviso, non fanno onore alla tua intelligenza.E', anche, tanto per cambiare, forse, questione di esperienza. Poichè nelle professioni, variamente denominate, ovunque, si incontra il positivo ed il negativo.
Forse, non si ha sufficiente conoscenza del panorama internazionmale per affermare che il "giocare sulla denominazione di educatore variamente aggettivato cela l'intenzione di negare il ruolo di un professinista d'alto livello ( quando è di alto livello? la "cacca" di un bambino alza od abbassa il livello ?) con competnze e responsabilità di progettazione e di gestione nel campo specificamente educativo, un pò per lasciare tali compiti ad altri, un pò perchè la presenza di un pedagogista darebbe fastidio (sì, se è solo un cervello pensante, perchè sarebbe un essere fuori del mondo umano) Il progetto che hai in mano dimostra esattamente il contrario; vuole affermare, invece, che non vi può essere valida formazione se non attraverso un certo percorso formativo e non attraverso un cert'altro.
Caro Franco, un pò di prudenza, per evitare guerre sante inutili !
Ci soino fior fiore di educatori che hanno proseguito gli studi e che dalla loro esperienza hanno tratto un aiuto che si è mostrato anche agli occhi dei docenti universitari, notevolissimo.
Ma oramai i ragionamenti sulla "precedente laurea in scienze della educazione" mi sembrano "passatisti.
Apriamoci al nuovo 3 + 2 che ci permette di far fruire ai nostri giovani un iter formativo più adeguato ad esigenze che siano di professionalità, permettendo a chi lo desideri di proseguire in aspirazioni di ricerca. Non si dovrebbe far confuisione, come si fa, fra ricerca e professionalità. Non che siano separate, ma vanno neanche confuse. Non tutta la ricerca produce direttamente utilità alla professione e tuttavia è preziosa per la professione poichè i risultati, ma i risultati, non i processi nella sua interezza, sono utili alla professione.
Scusami per la.... filippica.
E' un vizio antico quella dei "paoli" di rompere le scatole al mondo universo con le lettere, anche se le mie non sono le "sue"
Cordialità vivissime ed a domani per il seguito

paolo marcon

---------------------------------------------


Messaggio del 15/9/1999

Caro Paolo,

rispondo ai tuoi due messaggi di ieri, dalla tematica omogenea, e a quello (inviato due volte) sulla rivista risponderò più avanti.

Non so bene se abbiamo idee differenti (e in che misura), o se stiamo parlando di due cose differenti.

Se intendi inviare una lettera al "Bollettino As.Pe.I.", la cosa non può farmi che piacere visto che io stesso ho inteso animare un po' il dibattito su una questione che mi sembrava e mi sembra presa sottogamba. E ti risponderò in quella sede altrettanto volentieri.

Ad ogni modo, tieni presente che nella nostra corrispondenza abbiamo sempre parlato di Educatori professionali; mentre solo adesso (forse) cominciamo a parlare di Pedagogisti professionali. Che sono due cose differenti. Che, poi, ad entrambe le figure professionali (e ad altre ancora) vi sia in comune la Pedagogia Generale, e vi siano in comune molte altre componenti, condivido ma è un altro discorso.

Se è per quello, anche tra il Medico e l'Assistente Sanitario vi sono componenti culturali comuni di grande rilievo (e di crescente entità). Come tra l'Ingegnere e il Geometra. E conosco Geometri e Assistenti Sanitari di professionalità eccezionale. Il che nulla toglie al fatto che sono professionalità differenti le seconde dalle prime, e che non ci sia mai stata alcuna proposta di unificarle. Il 3+2 avrà, spero, importantissime conseguenze, ma non a questo riguardo.

O è il "più elevato" che ti offende? Potrei dire benissimo altrimenti: non è quello che mi interessa.

Vengo ad alcuni punti specifici.


PM> […] incontro fra pedagogisti a Bari e forse non sarebbe male un preincontro con gli educatori, dato che non mi sembra esistano ragioni di concorrenza.

Cose del genere deve chiederle agli organismi societari dei Pedagogisti, non a me. Da parte mia, concordo sia sull'opportunità di qualunque dialogo, sia sul fatto che non esistano ragioni di concorrenza: appunto, sono professioni diverse.


PM> Riparliamone, vediamoci anche con il presidente ANEP(ass.ed.profess.).

Riparliamone.

Vediamoci con il presidente dell'ANEP: purché sia chiaro che io rappresento solo me stesso.


PM> Confesso che ho una debolezza per il termine "educatore" come la ho per il termine "contadino"; anche se diventi dirigente di azienda agricola è difficile dimenticare i sudori e le fatiche dei "nonni".

Il termine “educatore” è bellissimo: ed indica chi operi comunque la Prassi in educazione.

Prendo la tua metafora, che mi pare vada abbastanza bene: un contadino può diventare benissimo dirigente di azienda agricola, o grande imprenditore, od altro, ed è bene che così avvenga.

Ma tutt'un altro discorso è quello che riguarda un Agronomo. Che non è solo il ricercatore accademico.


PM> sto leggendo con attenzione il testo della tua lettera alla Presidente ASPEI e vi sono passaggi che mi meravigliano perché, a mio avviso, non fanno onore alla tua intelligenza.E', anche, tanto per cambiare, forse, questione di esperienza. Poichè nelle professioni, variamente denominate, ovunque, si incontra il positivo ed il negativo.
Forse, non si ha sufficiente conoscenza del panorama internazionmale...

Forse non hai riletto bene quello che hai scritto: capita, in uno strumento piuttosto sbrigativo come la E-Mail. Ma non preoccuparti: non mi offendo facilmente.

Ma che “esperienza” non significhi età anagrafica, od anni di servizio. Mi stai dicendo che non ho esperienza? E su che base mai?


PM> Caro Franco, un pò di prudenza, per evitare guerre sante inutili !

Chi mi conosce, conosce anche la mia prudenza.

“Guerre sante” non ce ne sono mai state. Non so se esistano guerre “utili” che non siano quelle di liberazione: le guerre non mi piacciono, e non credo ad alcuna mistica o progressività della guerra.


PM> Ci sono fior fiore di educatori che hanno proseguito gli studi e che dalla loro esperienza hanno tratto un aiuto che si è mostrato anche agli occhi dei docenti universitari, notevolissimo.

Indubbiamente. E chi mai lo nega? Io, no.


PM> Ma oramai i ragionamenti sulla "precedente laurea in scienze della educazione" mi sembrano "passatisti.
Apriamoci al nuovo 3 + 2 che ci permette di far fruire ai nostri giovani un iter formativo più adeguato ad esigenze che siano di professionalità, permettendo a chi lo desideri di proseguire in aspirazioni di ricerca. Non si dovrebbe far confuisione, come si fa, fra ricerca e professionalità. Non che siano separate, ma vanno neanche confuse. Non tutta la ricerca produce direttamente utilità alla professione e tuttavia è preziosa per la professione poichè i risultati, ma i risultati, non i processi nella sua interezza, sono utili alla professione.

C'è ben altra confusione che non dovresti fare: ed è quella tra le professionalità (al plurale).

Sul rapporto tra ricerca e professionalità nella Materia Educativa il discorso temo che non sia così semplice. Che cosa dovrei fare, auto-citarmi ?


PM> Scusami per la.... filippica.
E' un vizio antico quella dei "paoli" di rompere le scatole al mondo universo con le lettere, anche se le mie non sono le "sue"
Cordialità vivissime ed a domani per il seguito

Contraccambio: seguiteremo a parlarne. Ciao

Franco


_______________________________

Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Oggetto: educatori e pedgogisti II°
Data: mercoledì 15 settembre 1999 12.00


Caro Franco,

oggi due considerazioni preliminari.
La prima è che l'errore sta nell'oppore prassi a teoria o meglio pratica a teworia in quanto, se vuoi, c'è un certo concetto di prassi che è assai vicino al concetto esperienza: un atto unitario in cui pratica e teoria si fondono perchè espressione di tutta la persona umana nel suo insieme, punto di partenza per ogni conoscenza, anche, se,a, indiretta.
Se per prassi si intende pratica, si intende qualcosa che a mio avviso non esiste: un'azione umana non è mai solo pratica, è semprer azione di tutto l'uomo che è anche intelligenza e razionalità( più o meno cosceinte naturalmente, e qui sta il "busillis").Se per prassi si intende espereinza allora si intende quell'atto umano ontologicamente unitario che logicamente distinguo per caverne fuori un concetto, confrontando le varie esperienze fra di loro.
Dunque, chiariamo i punti di partenza, ci diceva Guistavo Bontadini, e non meniamo il can per l'aia.
Secondo: l'Università italiana si è sempre rifiutata di scendere sotto i 4 anni e sotto il dottorato italiano che non corrisponde ai dottorati europei.
Questo è il passato, un passato che qualcuno ha affùrontato coraggiosamente(Volpicelli ad esempio) e, dunque, ci sono educatoiri formati all'Università che danno buona prova anche se si cerca di ignorare questa realtà che non fu seguita perchè destabilizzante.
Così si è continuato ad ingannare le utenze, ed ora cxhe ci si accosta all'Europa è l'ra della verità, come si suol dire.
Facciamo un pò di mea culpa, battiamoci un pò il pewtto, noii accademici di pedagogia che qualche peccatuccio ce lo abbiamo.
Cordialmente a domani
paolo da Castelfranco Veneto

-----------------------------

Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Oggetto: educatori e pedagogisti III° e fine
Data: giovedì 16 settembre 1999 7.49

Carissimo Franco,

ha terminato prima di cena un promemoria per un ente che mi aveva chiesto una consulenza circa un nuovo progetto e relativamente alla composizione dell'équipe del "Consultorio" che dovrebbe occuparsi delle ammissioni. Il mio rilievo faceva riferimento alla mancanza di una figura di educatore professionale di II° livello (laureato), quindi all'atto o pedagogista o laureato in scienze dell'educazione.
Come vedi l'accordo è più accordo di quel che non sembri..
Il problema sta tutto, a mio avviso, sul valore che si vuol dare all'esperienza.
Qui, ti prego di ricordare ,non dico, Tomaso, ma almeno Maritain, Piaget e Bontadini.
L'esperienza non è una semplice pratica e l'educatore non è un superficiale praticone.Certo c'è anche questo. Ma anche fra i pedagogisti ed i laureati c' il buono ed il meno buono.
Il problema non è che vi è un primo livello di esperienza e di pratica ed un secondoi livello di teoria e di concettualizzazione, di mediazione fra teoria e pratica, di alta e bassa cultura.
Siamo ancora nella vivisezione dell'uomo di stampo razionalista e, come mi scrivevi bene qualche tempo fa in una tua lettera, di stampo neoidealista.
Il problema è di esperienza e pratica più o meno prolungate nel tempo che danno adito a concettualizzazioni, ovviamente, più o meno profonde, donde un primo ed un secondo livello di studi e di impegno professionale. Come una teorizzazione astratta è aria fritta, una esperienza abbandonata a sè stessa è nulla.
La povertà professionale non deriva, come si crede, dall'assenza di teoria, quanto piuttosto dall'assenza di riflessione critica sull'esperienza maturata: ne abbiamo visti di uomini che sanno tanto, ma non sanno fare niente.Ed è più difficile avere uomini che sanno perchè sanno pensare quello che sanno fare.
I nomi poi sono importanti, ma fino ad un certo punto.
Certo quello di "mediatore" mi sembra tanto simile al "sensale" delle nostre fiere contadine!
Questa mediazione deve partire dal principio ed approfondirsi, non sorgere solo ad un certo momento ed ad un tratto del cammino. Se hai esercitato bene la professione di educatore professionale, penso mi dovresti capire bene: per me sono stati i migliori dieci anni della mia vita professionale e poi,belli, quelli che ho vissuto ad analizzare esperienze con gli studenti, allievi - educatori. Questo "mediatore" mi sembra anche una specie di "ghiandola pineale" cartesiana per mettere insieme e collegare quello che nella natura è già insieme ed è già collegato, ma che il pensiero dell'uomo ha disgiunto e scollegato.
Non dare pesce, magari già ruminato; dare capacità di pescare.... Ah! questi cinesi.
Allora educatore professionale laureato ed educatore professionale laureato specialista può andar bene, o no ?
E può andar bene educatore professionale laureato e pedagogista laureato specialista ?
Personalmente sono affettivamente legato al termine "educatore" perchè sa di terra arata, del buon profumo di fieno falciato e lasciato seccare all'aria sotto il sole estivo, sa di vino clinton (che non c'è più), di pane casareccio che c'è ancora, forse per poco;; sa di radicchio e di ruspante, di letame sparso sul campo, di prosecco e di sopressata.
Buona notte ed assieme buongiorno perchè riverai tutto domattina.
Paolo


-----------------------------

Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Oggetto: educatore professionale e quel che segue
Data: giovedì 16 settembre 1999 8.12

Caro Franco,

buon giorno. Ti ho spedito testé la terza puntata.E ricevo le tue ulteriori considerazioni.
E' vero non ti conosco; però ora un pò di più e ne sono felice. A me piace un pò celiare fra le righe.
Non penso che siamo molto distanti.
Ci risentiamo presto. Buon lavoro
paolo


-----Messaggio originale-----
Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Data: giovedì 16 settembre 1999 19.28
Oggetto: educatori e pedagogisti


Caro Franco,

dopo questo primo scambio, ritengo che non scriverò all'ASPEI o se scriverò sarà una missiva propositiva. Sono lieto di questo incontro a distanza ed anche di un pò di polemica che a me, come figlio di una emiliana di Reggio, non fa dispiacere: sono sempre in bilico fra la paciosità veneta e l'aggressività emiliana. Sono sempre più convinto che le differenze non sono diversità e che quindi
vi sono distanze meno distanti di quel che sembri..
E sicuramente il problema va agitato perchè non sia preso sottogamba .L'intervento mio di cui ti ho parlato ieri ne è testimonianza; la proposta dell'Ass. Educatori al Murst anche.
Ti sono grato delle risposte che mi hanno fatto riflettere; tuttavia mi sembra che fra primo e secondo livello vi sia semplice differenza mentre la diversità sta fra secondo e terzo livello, cioè il dottorato (Ph.D).
Un pò la questione è che noi abbiamo navigato troppi anni lontani dal resto dell'Europa e quello che si pensa essere il secondo livello in realtà corrisponde al terzo: il Ph D. Che da noi sia cosa recente è una realtà e molti degli attuali laureati non sono dottori di questo tipo.
Certo noi siamo ad un "guado": ma allora i problemi sono due.
a.- il transitorio per il passato
b.- il nuovo ordinamento per il futuro.
Certo per me il passato è proprio passato, oramai, in quanto pensionato. Per gli altri, comprendo che è un pò differente. Ma non si può bloccare i futuri professionisti ad una esperienza che non è adeguata alle linee dell'U.E. anche se differenti dalle nostre.
Prendiamo il contadino (educatore di primo livello) che diviene conduttore d'azienda (secondo livello) e che ha bisogno dell'esperienza del contadino da utilizzare in modo differente. Poi c'è l'agronomo( terzo livello) che non è necessario sia contadino ,nè dirigente d'azienda, ma che studia la realtà agricola sulla base delle esperienze e delle riflessioni dei contadini e dei conduttori d'azienda.
Da questo punto di vista ci sarebbero dei cambiamenti importanti da introdurre nella didattica, ed anche nel reclutamento dei docenti.
Infine:
Sì, ci sono due cose che mi disturbano: l'elevato ed il meno elevato; il fatto ed il pensato.
Mio nonno contadino sudava sette camicie e mezzo per una vita povera e grama ed era il meno elevato; il padrone, nobile, non faceva quasi niente, ma possedeva la terra, era elevato e viveva bene.
Forse sono condizionato, non lo nego; come i nostri buoni contadini di oggi che divenuti ricchi si comperano una automobile di grossa cilindrata per compensazione.
E non riesco più ad isolare il fatto dal pensato ed il pensato dal fatto: sarà una reazione quello che tu denomini neoidealismo, sarà una forma maniacale, non so.
Ma questo educatore prassico e questo pedagogista non prassico, mediatore, quindi padrone dei contadini(educatori) non mi convince.
Mi convince invece un educatore che lavora educativamente (fa e pensa) a livello di base ed un educatore/pedagogista che lavora educativamente (fa e pensa) a livello più avanzato(progettazione di servizi, consulenza, supervisione, direzione di più servizi educativi) dopo aver maturata esperienza al livello iniziale.
C'è chi dice che se Leonardo avesse pestato più colori nei mortai della bottega del Verrocchio, probabilmente avrebbe fatto meno esperimenti dopo e non avremmo rischiato di perdere la "Cena".
Dicono che quelli della Bassa da dove viene mia madre (bassa reggiana) hanno le teste quadre, sono teste dure. E forse sono rimasto tale anch'io.
Hai le coordinate del presidente ANPE ? Grazie se me le fai avere.
Con calma, riparliamo della rivista.
Molto cordialmente paolo

P.S.: scusami per la questione"esperienza": mi volevo riferire al buono ed al cattivo che si incontra in ogni professione: è chiaro che ad 80 anni si sono incontrati più buoni e più cattivi che a 40.


-------------------------------------------------------

Carissimo

se non sbaglio, [ho da rispondere a parecchi] tuoi messaggi: ovviamente, mi correggerai se avrò lasciato fuori qualche cosa, e me lo segnalerai perché possa risponderti esaurientemente.

In linea di massima, direi proprio che stavamo parlando di una cosa (l'Educatore) e ad un certo punto si è iniziato a parlare di un'altra (il Pedagogista). Va bene parlarne, anche per accentuare ciò che unisce e non ciò che divide le due figure: basta che non facciamo confusione.

Secondo me, si può sintetizzare la differenza di fondo come professione dicendo che la prima è figura che si occupa prevalentemente della Prassi, e la seconda è figura che si occupa fondamentalmente della Mediazione tra Teoria e Prassi, che io chiamo “Applicatività” e in tedesco viene chiamata “Empirie”. In tedesco: Erziehrer, e Pädagogiker. Mentre il Pädagoger è un Erziehrer che ha un saldo riferimento teoretico, il che può significare che ha trovato l'aiuto di un Pädagogiker. Altra cosa è l'Erziehungswissenschaftler. Discorso lungo, e se vuoi lo facciamo.

Come formazione iniziale, si può operare una sintesi altrettanto spinta nell'individuare il primo in un diplomato universitario di primo livello (abilitante, giustamente), e il secondo come il diplomato di secondo livello (non abilitante) che abbia acquisito una certa formazione ulteriore e abbia superato esami o vagli di altro genere. Altro discorso lungo, che se vuoi facciamo.

Vediamo, ora, i singoli punti.


PM> Il problema sta tutto, a mio avviso, sul valore che si vuol dare all'esperienza.
Qui, ti prego di ricordare ,non dico, Tomaso, ma almeno Maritain, Piaget e Bontadini.

Riferimenti eterogenei in tutti i sensi. Io mi dichiaro Neo-Pragmatista, e se vuoi prendere qualche filosofo del '900 penso piuttosto al Razionalismo Critico. Dunque, figurati un po' se vedo l'esperienza o idealisticamente, o positivisticamente!


PM> L'esperienza non è una semplice pratica e l'educatore non è un superficiale praticone.Certo c'è anche questo. Ma anche fra i pedagogisti ed i laureati c' il buono ed il meno buono.

Pienamente d'accordo. Mai detto il contrario.


PM> Il problema non è che vi è un primo livello di esperienza e di pratica ed un secondoi livello di teoria e di concettualizzazione, di mediazione fra teoria e pratica, di alta e bassa cultura.

No, infatti. Vi sono un livello della Prassi (che non è esperienza pura), un livello di Teoria (che non è solo Filosofia!), e un livello di mediazione tra i due.
Non c'è assolutamente alcuna necessità di identificare uno di questi come “più alto” (o “più basso”) degli altri.


PM> Siamo ancora nella vivisezione dell'uomo di stampo razionalista e, come mi scrivevi bene qualche tempo fa in una tua lettera, di stampo neoidealista.

Infatti: non sarei d'accordo in nessuna di queste ipotesi.

Da Neo-pragmatista, e da Pedagogista, mi considero estraneo al dualismo Idealismo-Positivismo che è tutto interno alla Filosofia.


PM> Il problema è di esperienza e pratica più o meno prolungate nel tempo che danno adito a concettualizzazioni, ovviamente, più o meno profonde, donde un primo ed un secondo livello di studi e di impegno professionale. Come una teorizzazione astratta è aria fritta, una esperienza abbandonata a sè stessa è nulla.
La povertà professionale non deriva, come si crede, dall'assenza di teoria, quanto piuttosto dall'assenza di riflessione critica sull'esperienza maturata: ne abbiamo visti di uomini che sanno tanto, ma non sanno fare niente.Ed è più difficile avere uomini che sanno perchè sanno pensare quello che sanno fare.

Prova a pensare alla esistenza di tre piani e non due, e forse la questione ti apparirà meglio risolubile e razionalizzabile come appare a me.


PM> I nomi poi sono importanti, ma fino ad un certo punto.
Certo quello di "mediatore" mi sembra tanto simile al "sensale" delle nostre fiere contadine!
[...]
Allora educatore professionale laureato ed educatore professionale laureato specialista può andar bene, o no ?
E può andar bene educatore professionale laureato e pedagogista laureato specialista ?
Personalmente sono affettivamente legato al termine "educatore" perchè sa di terra arata, del buon profumo di fieno falciato e lasciato seccare all'aria sotto il sole estivo, sa di vino clinton (che non c'è più), di pane casareccio che c'è ancora, forse per poco;; sa di radicchio e di ruspante, di letame sparso sul campo, di prosecco e di sopressata.

Non so se sono critico quanto te verso tutto quello che richiama la mediazione, e la medietà: ma non mi pare questo il punto del contendere (se contendere vi è...).

Indubbiamente, si possono studiare tante denominazioni, e senza perdere di vista che cosa vi possa stare sotto.

Io vedo che il seguitare a parlare di “Educatore Professionale” laureato e con altre aggettivazioni o parafrasi non consente di evidenziare quali professionalità possano aprirsi dopo (dopo!) la laurea, e tende a richiamare in ogni dove alla mente un diplomato, o la professionalità del diplomato che per caso ha anche una laurea. Un po' come il laureato in Giurisprudenza che si adatta a fare l'impiegato. E' certo un bene che tanti impiegati siano laureati, ma la laurea dovrebbe servire anche (od innanzitutto) ad “indirizzare la gioventù […] nelle carriere sì pubbliche che private in cui si richiede la preparazione di accurati studi specialistici” come recitava ancora la Legge Casati.

Vuoi chiamare “Educatore” con qualche aggettivazione l'equivalente dell'Avvocato, del Medico-Chirurgo, dell'Agronomo, del Commercialista... con la laurea in Pedagogia od in Scienze dell'Educazione (e titoli ulteriori)? Io non sono d'accordo, ci vedo tanti pericoli e tante controindicazioni attuali (cfr. i contratti nella Sanità, e la politica di certe regioni), e preferisco chiamare questa figura “Pedagogista” professionale. Nella realtà del lavoro dei laureati con requisiti ulteriori, è questo il nome in uso.

Che poi questo debba anche formarsi i calli alle mani, debba spandere Blood Sweet and Tears, non debba aver paura né del letame né della cacca dei bambini, e debba sapersi misurare anche con la soppressa e il vin de casada (come con lo Champagne e il culatello, però!), ecc., siamo d'accordo. Pienamente, Ed anzi, qui tante critiche all'Establishment accademico io le rafforzerei, nonché condividerle.


PM> Questa mediazione deve partire dal principio ed approfondirsi, non sorgere solo ad un certo momento ed ad un tratto del cammino. Se hai esercitato bene la professione di educatore professionale, penso mi dovresti capire bene: per me sono stati i migliori dieci anni della mia vita professionale e poi,belli, quelli che ho vissuto ad analizzare esperienze con gli studenti, allievi - educatori. Questo "mediatore" mi sembra anche una specie di "ghiandola pineale" cartesiana per mettere insieme e collegare quello che nella natura è già insieme ed è già collegato, ma che il pensiero dell'uomo ha disgiunto e scollegato.
Non dare pesce, magari già ruminato; dare capacità di pescare.... Ah! questi cinesi.


No, io non ho esercitato mai la professione di Educatore Professionale. Penso di avere già diversi anni di professione di Pedagogista, oltreché ormai 16 anni di professione di pedagogista accademico. E da parte mia non ho ragione di dubitare che questa professionalità esista e sia consistente.

Ho terminato un volume e aspetto una risposta da un editore che la sta tirando per le lunghe: ma ho altre soluzioni . E poi ho scritto qualche cosa d'altro. Anche di insegnamento della “pesca”, e dei “pesci” che si possono pescare, ed insegnare a pescare.

La Teoria e la Prassi sono tutt'altro che “già collegate”, “già insieme”, “in natura”, checché ciò significhi con riferimento all'educazione.


PM> E' vero non ti conosco; però ora un pò di più e ne sono felice. A me piace un pò celiare fra le righe.
Non penso che siamo molto distanti.

No, non pare neanche a me. Conoscersi può non essere così facile: ma ne vale la pena.


PM> dopo questo primo scambio, ritengo che non scriverò all'ASPEI o se scriverò sarà una missiva propositiva.

Ad ogni modo, il dibattito va animato anche in pubblico. As.Pe.I. o non As.Pe.I., torneremo pure a parlare di sedi. Anche di “Educazione e Territorio”, se la testata rimarrà questa .


PM> Sono lieto di questo incontro a distanza ed anche di un pò di polemica che a me, come figlio di una emiliana di Reggio, non fa dispiacere: sono sempre in bilico fra la paciosità veneta e l'aggressività emiliana. Sono sempre più convinto che le differenze non sono diversità e che quindi
vi sono distanze meno distanti di quel che sembri..

Io, invece, pur bastardo, non avrei ascendenti “naturalmente” molto portati alla polemica.

Ma l'educazione viene dopo la natura, no?


PM> E sicuramente il problema va agitato perchè non sia preso sottogamba .L'intervento mio di cui ti ho parlato ieri ne è testimonianza; la proposta dell'Ass. Educatori al Murst anche.

[Un collega, comune conoscente e referente], cui invio la presente per conoscenza, me ne ha inviato copia via Snail Mail, che per una volta non è stata "Snail" come di consueto.

Possiamo discutere anche di questo. Altro discorso lungo.

In linea di massima, ti dirò che mi sentirei meno vicino alla tua proposta per il secondo livello: e lo vediamo subito.


PM> Ti sono grato delle risposte che mi hanno fatto riflettere; tuttavia mi sembra che fra primo e secondo livello vi sia semplice differenza mentre la diversità sta fra secondo e terzo livello, cioè il dottorato (Ph.D).

Se così sarà, ne prenderò atto: ma io non sarei d'accordo. Il primo livello è abilitante e direttamente professionalizzante; il secondo no e, appunto, richiederà formazione professionale iniziale ulteriore. Il che dovrebbe avere, secondo me, conseguenze profonde, e profondamente differenzianti.

Se gli esempi che ti ho portato non ti bastano, pensa alla differenza tra un Fisioterapista e un Fisiatra, o tra un Logopedista e un Otorinolaringoiatra. Potrei continuare a lungo.

Indubbiamente, invece, il terzo livello sarà ancora un'altra cosa. Od almeno, lo spero.


PM> Un pò la questione è che noi abbiamo navigato troppi anni lontani dal resto dell'Europa e quello che si pensa essere il secondo livello in realtà corrisponde al terzo: il Ph D. Che da noi sia cosa recente è una realtà e molti degli attuali laureati non sono dottori di questo tipo.

Può darsi ma non è il caso delle riflessioni che ti ho sottoposto. E del resto, ho sempre parlato di tre piani. Non due. Il piano della Teoria è diverso da quello dell'Applicatività, come questo secondo è diverso da quello della Prassi. Tre livelli professionali (almeno). Tre competenze. Tre formazioni. Ecc.


PM> Certo noi siamo ad un "guado": ma allora i problemi sono due.
a.- il transitorio per il passato
b.- il nuovo ordinamento per il futuro.

Allora: per il futuro, una professionalità per i Pedagogisti, ed una per gli Educatori. Non gerarchizzate.

Per il transitorio, innanzitutto, chi ha fatto un triennio universitario può ancora prendere la laurea con uno sforzo contenuto. Stiamo compiendo un'esperienza estremamente interessante a Trieste con gli Assistenti Sociali, vengono a migliaia per avere non un pezzo di carta ma una qualificazione professionale e culturale diversa, della quale la Pedagogia si sta legittimamente dimostrando parte importantissima.

Ed inoltre, a quel che ne so, tra i Pedagogisti vi sono sempre state considerevoli aperture perché nel loro ambito fosse possibile l'accesso, in via transitoria e a certe condizioni, anche per gli Educatori Professionali.


PM> Certo per me il passato è proprio passato, oramai, in quanto pensionato. Per gli altri, comprendo che è un pò differente. Ma non si può bloccare i futuri professionisti ad una esperienza che non è adeguata alle linee dell'U.E. anche se differenti dalle nostre.

D'accordo. Ma tieni presente che la Pedagogia è diventata professionalità solo negli ultimissimi anni: anche se i suoi duemilacinquecento anni di storia andrebbero considerati con ottiche meno datate.


PM> Prendiamo il contadino (educatore di primo livello) che diviene conduttore d'azienda (secondo livello) e che ha bisogno dell'esperienza del contadino da utilizzare in modo differente. Poi c'è l'agronomo( terzo livello) che non è necessario sia contadino ,nè dirigente d'azienda, ma che studia la realtà agricola sulla base delle esperienze e delle riflessioni dei contadini e dei conduttori d'azienda.

Sì, è un esempio della corrispondenza precedente. Ma non dimenticare che esiste anche il ricercatore, lo studioso, in Agronomia (che può chiamarsi “agronomo” senza necessariamente essere professionista di Agronomia) e i cui risultati divengono fruibili al contadino comunque evoluto mediante l'Agronomo professionale. Ancora tre livelli. E tre livelli di preparazione. Il discorso è sempre quello.

A me non pare che il 2° livello venga a differenziarsi dal 1° necessariamente meno che dal 3°: per lo meno, non sulla base di queste considerazioni.


PM> Da questo punto di vista ci sarebbero dei cambiamenti importanti da introdurre nella didattica, ed anche nel reclutamento dei docenti.

Ce ne sarebbero di moltissimi, necessari per l'una e per l'altro, da questo e da molti altri punti di vista.


PM> Sì, ci sono due cose che mi disturbano: l'elevato ed il meno elevato; il fatto ed il pensato.
Mio nonno contadino sudava sette camicie e mezzo per una vita povera e grama ed era il meno elevato; il padrone, nobile, non faceva quasi niente, ma possedeva la terra, era elevato e viveva bene.
Forse sono condizionato, non lo nego; come i nostri buoni contadini di oggi che divenuti ricchi si comperano una automobile di grossa cilindrata per compensazione.

Condivido: non è con il discorso mio che puoi essere disturbato.


PM> E non riesco più ad isolare il fatto dal pensato ed il pensato dal fatto: sarà una reazione quello che tu denomini neoidealismo, sarà una forma maniacale, non so.
Ma questo educatore prassico e questo pedagogista non prassico, mediatore, quindi padrone dei contadini(educatori) non mi convince.

No: qui non ci siamo davvero.

Guarda che quel rapporto di gerarchizzazione e di subordinazione funziona assai meglio proprio nel dualismo Teoria-Prassi, cioè senza mediazione.

Non per nulla, quella impostazione filosofica era così coerente con quei Neo-idealisti che hanno fatto da giustificazionismo per ogni sorta di “Società Chiusa”.


PM> Mi convince invece un educatore che lavora educativamente (fa e pensa) a livello di base ed un educatore/pedagogista che lavora educativamente (fa e pensa) a livello più avanzato(progettazione di servizi, consulenza, supervisione, direzione di più servizi educativi) dopo aver maturata esperienza al livello iniziale.

Anche a me.

Basta che ciò non significhi che il livello intermedio si costruisce SOLO con l'esperienza. O prevalentemente, essenzialmente. Cosa che invece appare nelle proposte tue per l'ANEP.

[…]


PM> mi volevo riferire al buono ed al cattivo che si incontra in ogni professione: è chiaro che ad 80 anni si sono incontrati più buoni e più cattivi che a 40.

Ammesso che abbiano senso simili asserzioni quantitative: ne sei tanto sicuro?


PM> Con calma, riparliamo della rivista.
Molto cordialmente paolo


Altrettanto a te

Franco

-------------------------------------------------


-----Messaggio originale-----
Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Data: sabato 18 settembre 1999 19.51
Oggetto: Educazione e Pedagogia/ educatori e pedagogisti


Caro Franco,

spero avrai passato un buon fine settimana al fresco lungo la Pescheria o lungo la Riviera Regina Margherita (forse ha cambiato nome) o in escursione verso l'asolano o le strade dei vini bianco o rosso: grande Marca Trevigiana !

Penso che la differenza stia nella considerazione di una visione in continuità dei tre livelli formativi (laurea, laurea specialistica, dottorato), continutà che,almeno nella mia intenzione,non vuol essere confusione,poichè confusione sarebbe scambiare una cosa per un'altra, mentre continuità è,mi sembra, vedere una cosa in prosecuzione dell'altra senza fratture,cioè organicamente,armonicamente.

Secondo me, il "prius" va dato all'esperienza come dato conoscitivo di partenza. Ciò non vuol dire che ogni altro apprendimento sia da escludere. Vuol dire solo che non bisogna escludere questa modalità di apprendimento, più importante, anche dal punto di vista educativo e quindi pedagogico, di quel che non sembri.

Ecco perchè non vedo la mediazione, in quanto non ce n'è bisogno; ogni educatore ed ogni pedagogista deve esere in grado di realizzarla, a differenti livelli di approfondimento e di consapevolezza, come sempre succede man mano che cresce la maturità di una persona e di un professionista. La mediazione, infatti, è interna all'esperienza stessa, non esterna, scaturisce dalla stessa, non è una forma che gli è applicata. Così a me sembra.

Il progetto che ti ho inviato […] non è mio, è dell'ANEP e che l'ANEP ha elaborato su suggerimenti avuti. Mi sembra che l'esperienza non abbia un posto prevalente, anche se essenziale come altre componenti:gl'insegnamenti concettuali,i laboratori,l'apprendimento delle lingue, la elaborazione della dissertazione finale:segue loschema della ripartizione in aree didattiche seguito dal corso di scienze dell'educazione primaria.

Grazie dell'indirizzo di […] che passo al Presidente dell'ANEP.

E' vero che la quantità non è tutto, ma nemmeno la qualità. Comunque anche la quantità è qualcosa.

E la qualità,certo, è molto. Meglio un giorno da leone che cent'anni da pecora: lo dico senza la retorica che di solito c'è o c'è stata dietro (forse anche quando fu scritta su di un muro di casa diroccata lungo il nostro Piave).

Oggi sono ancor più lieto perchè posso riconoscere che discutendo serenamente, magari anche un pò celiando, ci si accorge che le distanze si accorciano.

Molto cordialmente paolo

P.S.:
1.- va a consumare una porzione di "Tiramisù"a Piazza dei Signori da Sommariva anche per me !
2.- Zecchino dichiara,giustamente,'Università deve saper dire a ciascun giovane si iscrive in che . modo potrà utilizzare il titolo che un giorno conseguirà: obiettivo comune a tutti gli atenei europei; quindi importante soprattutto la finalità ed i contenuti dell'attività proifesionale ed .. una metodologia coerente
3.- Nel denominare"ed. prof."il laureato di scienze educaz. II° indirizzo gli accademici si sono sono incartati da soli; volevano far fuori l'"e.p." triennale ed ora se lo ritrovano triennale e ....quinquennale anche se c'è sempre un "pedagogista" Ph.D.

Da: Franco Blezza <f.blezza@iol.it>
A: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
Oggetto: Convergenze e divergenze
Data: mercoledì 22 settembre 1999 13.59

Caro Paolo,

il dialogo è certamente proficuo, quando si tiene su un piano di rispetto reciproco e di costruttività, come è avvenuto per il nostro. Se poi emergono analogie e differenze, convergenze o divergenze, non è la cosa più importante, purché vi sia chiarezza e, a quel che vedo, ve ne è.


PM> grande Marca Trevigiana !

Qui concordiamo di certo.


PM> Penso che la differenza stia nella considerazione di una visione in continuità dei tre livelli formativi (laurea, laurea specialistica, dottorato), continutà che,almeno nella mia intenzione,non vuol essere confusione,poichè confusione sarebbe scambiare una cosa per un'altra, mentre continuità è,mi sembra, vedere una cosa in prosecuzione dell'altra senza fratture,cioè organicamente,armonicamente.

E qui siamo sostanzialmente d'accordo: resta da vedere come evitare la confusione tra le professionalità corrispondenti al 1° livello e quelle corrispondenti al 2°.


PM> Secondo me, il "prius" va dato all'esperienza come dato conoscitivo di partenza. Ciò non vuol dire che ogni altro apprendimento sia da escludere. Vuol dire solo che non bisogna escludere questa modalità di apprendimento, più importante, anche dal punto di vista educativo e quindi pedagogico, di quel che non sembri.

D'accordo nel non escludere l'esperienza, anzi nel valorizzarla al massimo. Invece, penso che il rapporto tra teoria ed esperienza sia molto più complesso di come lo si possa sintetizzare in termini di priorità (dell'una, o dell'altra).


PM> Ecco perchè non vedo la mediazione, in quanto non ce n'è bisogno; ogni educatore ed ogni pedagogista deve esere in grado di realizzarla, a differenti livelli di approfondimento e di consapevolezza, come sempre succede man mano che cresce la maturità di una persona e di un professionista. La mediazione, infatti, è interna all'esperienza stessa, non esterna, scaturisce dalla stessa, non è una forma che gli è applicata. Così a me sembra.

A me sembra invece altrimenti, come sai: ti aggiungo che del bisogno di mediazione tra Teoria e Prassi (che non sono diversi livelli d'approfondimento e di consapevolezza) a me pare largamente evidente, nella scuola come nella famiglia, nella formazione professionale come nei servizi sociali, nella sanità come nella giustizia, nella società come nella cultura, e via elencando.

PM> Il progetto che ti ho inviato […] non è mio, è dell'ANEP e che l'ANEP ha elaborato su suggerimenti avuti. Mi sembra che l'esperienza non abbia un posto prevalente, anche se essenziale come altre componenti:gl'insegnamenti concettuali,i laboratori,l'apprendimento delle lingue, la elaborazione della dissertazione finale:segue lo schema della ripartizione in aree didattiche seguito dal corso di scienze dell'educazione primaria.

Ancora una volta: stiamo parlando della stessa cosa? Le proposte ANEP per i due livelli che mi ha inviato [altra persona] il 13 settembre?

Se è di quello (quelli) che si parla, allora confermo che la parte relativa alla Teoria e alla mediazionme secondo me va rivista, quantitativamente e qualitativamente, e specie per il 2° livello. I “laboratori”, secondo te, che cosa sono?


PM> Grazie dell'indirizzo di […] che passo al Presidente dell'ANEP.

Spero che si sentano e dialoghino anche loro.


PM>va a consumare una porzione di "Tiramisù"a Piazza dei Signori da Sommariva anche per me !

Ahimè, caro amico: Sommariva ha chiuso da qualche anno. Era a Ponte S. Martino da una trentina d'anni, e mi ricordo prima che si trovava in Calmaggiore poco prima di Piazza Borsa.


PM> Zecchino dichiara,giustamente,'Università deve saper dire a ciascun giovane si iscrive in che modo potrà utilizzare il titolo che un giorno conseguirà: obiettivo comune a tutti gli atenei europei; quindi importante soprattutto la finalità ed i contenuti dell'attività proifesionale ed una metodologia coerente

D'accordo sulla metodologia; un po' meno sulla corrispondenza tra laurea e professionalità, se pensi a questo. Essa rimane solo per pochissimi casi estremamente particolari, forse solo per Medicina e Chirurgia e con risultati non brillanti.


PM>Nel denominare"ed. prof."il laureato di scienze educaz. II° indirizzo gli accademici si sono sono incartati da soli; volevano far fuori l'"e.p." triennale ed ora se lo ritrovano triennale e ....quinquennale anche se c'è sempre un "pedagogista" Ph.D.

Non so presso quanti l'intendimento fosse quello: secondo me, molti dei miei colleghi queste cose semplicemente le ignorano.


Caramente


Franco

--------------------------------------

-----Messaggio originale-----
Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Data: domenica 19 settembre 1999 10.57
Oggetto: I: Educazione e Pedagogia/ educatori e pedagogisti


__________________________________

Mittente "Prof. Paolo Marcon"
paolo.marcon@tiscalinet.it
Destinatario francoblezza@tin.it
Titolo Educazione e territorio
Data Sun, 19 Mar 2000 12:41:09 +0100

Allegati: annuncio.doc (53k)



Appena terminata la stampa, ne avrai copia; se hai Acrobat/Reader te la possa inviare subito in PDF
Cordialità paolo

Mittente "Prof. Paolo Marcon"
paolo.marcon@tiscalinet.it
Destinatario francoblezza@tin.it
Titolo sorpresa |!!!
Data Tue, 21 Mar 2000 21:38:31 +0100
Allegati !edeterr.n1p (322k)

Da: Franco Blezza <f.blezza@iol.it>
A: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
Oggetto: Ricevuti
Data: mercoledì 23 settembre 1999 23.30

Caro Paolo,

ricevo due messaggi di posta elettronica. Il primo ha in Attachment l'annuncio dell'avvio delle pubblicazioni della tua rivista, e per questo ti porgo i miei complimenti più vivi. Ho l'Acrobat Reader e posso leggere il formato .PDF

Il secondo ha solo un Attachment dall'estensione ".1", che non riesco ad aprire. Non sembra un File Word: di che si tratta? Di che "sorpresa" si tratta?

Cordialità


Franco


-----Messaggio originale-----
Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Data: giovedì 23 settembre 1999 21.42
Oggetto: convergenze


Sono lieto che ci siano tante convergenze, carissimo Franco.

Su altre questioni forse incontrandoci e chiaccherando con un pò più di spazio, le vicinanze potrebbero anche essere maggiori ancora.

Bisognerà capire fino in fondo a che cosa serve l'Università, se ci sono oggetti che esistono nella nostra mente, ma non nella realtà, ecc. ecc.

Dovrò venire a Castelfranco per visitare la zia novantenne. una buona occasione per vederci.

Cordialità paolo

Da: Franco Blezza <f.blezza@iol.it>
A: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
Oggetto: Vediamoci!
Data: venerdì 24 settembre 1999 12.16


Caro Paolo,

PM> Sono lieto che ci siano tante convergenze, carissimo Franco.

Ne sono lieto anch'io.


PM> Su altre questioni forse incontrandoci e chiaccherando con un pò più di spazio, le vicinanze potrebbero anche essere maggiori ancora.
[,...]
Dovrò venire a Castelfranco per visitare la zia novantenne. una buona occasione per vederci.
Cordialitàpaolo

Vediamoci, ti conoscerò di persona molto volentieri. La corrispondenza elettronica ha tanti meriti, indubbiamente, ma non basta e non deve bastare.


PM> Bisognerà capire fino in fondo a che cosa serve l'Università, se ci sono oggetti che esistono nella nostra mente, ma non nella realtà, ecc. ecc.

Brevi cenni sull'universo mondo.... scherzo!

L'Università ha compiti istituzionali, sanciti da leggi e da dottrina; e poi di fatto viene adibita ad altri compiti che per molti versi divergono. Secondo me, bisogna mediare tra due versanti: la richiesta sociale e culturale, e le effettive possibilità dell'Università. Come notavi tu stesso in alcuni tuoi scritti, l'Italia con la Spagna è l'unico paese dell'Europa (unita) che affidi per ora all'Università tutta o quasi la formazione post-secondaria: non è una scelta valida, anche se in altri tempi poteva essere capita; e pare si stia finalmente andando in tutt'altra direzione.

A presto. Cordialità


Franco


-----Messaggio originale-----
Da: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
A: f.blezza@iol.it <f.blezza@iol.it>
Data: lunedì 27 settembre 1999 20.06
Oggetto: arrivederci


Dopo la tua ultima, ancora più vicini (cfr. il tuo ultimo capoverso) ed anche perchè faccio parte di coloro (sempre meno, forse) che non vorrebbero che la telematica sostituisca la relazione personale e diretta.
...ma in un'epoca di tanto decantata socialità, tutto può succedere, anche il contrario del "decantato"!
cordialità paolo

Da: Franco Blezza <f.blezza@iol.it>
A: Prof. Paolo Marcon <paolo.marcon@tiscalinet.it>
Oggetto: Decantazione
Data: giovedì 30 settembre 1999 12.33

Carissimo,

è vero, viviamo in un mondo nel quale si decantano troppe qualità e troppe positività, cui non corrisponde poi nulla di reale. Si predica bene ma...

Secondo me, la convergenza maggiore sta proprio nel rifiutare questa logica e nel rimettersi serenamente al controllo dell'esperienza: in questo non siamo solo pienamente d'accordo, ma penso che possiamo trovare un modo efficace per comporre quelle divergenze di vedute che, il loro stesse, sono condizione necessaria a qualsiasi positivo dialogo.

C'è un'altra decantazione, quella dei solidi nei liquidi: come avviene nel caso del vino. E anche lì la convergenza è sicuramente molto ampia. Insegna anche, in modo figurato, a far decantare le cose quando è necessario: altrimenti anche un ottimo vino può risultare indigesto.

A presto, carissimo

Franco

 

***

 

Sommario


Materiali di lavoro sul riemergere recente d’una professione antica
Premessa
Generalità sulla professione di Pedagogista
Presentazione
L’approccio storico alla questione identitatria
Il Pedagogista professionale: una figura d’oggi di una cultura antica
La “lunga marcia” dalla laurea alle professioni
Che cosa cambia con la riforma dei titoli accademici
Il Pedagogista come “figura di mezzo” nell’esercizio della sua professionalità
Alcuni elementi di fondo nell’esercizio professionale del Pedagogista
La relazione d’aiuto
Interlocuzione sul piano culturale, e sue condizioni
Intervento clinico, e non terapeutico, sul progetto di vita
Le visioni in gioco
Destinatario dell’esercizio del Pedagogista è la persona
La dimensione metodologica, le risposte di metodo e non di merito
La ricerca di ciò che è trasferibile interpersonalmente
Il ricorso alla Einfühlung e i limiti umani
Alcuni ordini esemplari di campi d’intervento per il Pedagogista
A proposito dei rapporti tra la Pedagogia e la Psicologia
I due versanti del problema e del discorso
Bruner come "Dopo Dewey", e il dopo Bruner nonché il dopo Piaget
Psicologia clinica e pedagogia professionale
Gli sviluppi correnti della formazione alle professionalità pedagogiche
La Pedagogia, disciplina “di mezzo”, e le professioni “di mezzo”
Presentazione: spunti per la riflessione
Sulla “dimensione di mezzo”
La Pedagogia professionale come mediazione, e il suo concreto esercizio
Sulla “discutibilità”
Sulla ricerca continua
Sull’insegnamento come mediazione.
Casi clinici, consulenze ed interventi on-line, supervisione
Il caso di due cuori, tre bambini e una dacia
Il problema del "supervisore" per i Pedagogisti professionali
Generalità
Il caso della Pedagogista “schiacciata”
Il caso del padre sbagliato
La reciprocità
La crisi della famiglia nucleare, e i casi di Novi Ligure e di Cogne
Casi ed interventi on Line
Generalità
Gli “otto punti” del coordinatore, e qualche puntualizzazione doverosa
Il caso della mamma-maestra
Il caso del fanciullo irrequieto
Il caso di un bambino primogenito
Il caso della “mamma preoccupata”
Il caso del figlio d’amici aggressivo
Il caso del figlio di una coppia allargata
Il caso dello scolaro “punzecchiante”
Il caso della bambina “streghetta”
Il caso della trentanovenne, del trentaseienne e dell’interrogativo angoscioso
Il caso del bambino con “doloretti”
Il bambino e l’amico-mano
Vogliamo parlarne?
Qualche messa a punto a proposito della depressione infantile
Il caso della madre con bambino di due anni
Il caso della educatrice di nido pensionanda
Il caso della preferenza per il cibo della mensa scolastica
Un breve carteggio telematico sul tema Pedagogista-Educatore
Presentazione
Un breve carteggio
Sommario


 
Home
E-mail
Indice