Novecento: periodo di grandi rivoluzioni. Mussolini, Tito Livio e Nietzsche: tre uomini dal forte spirito d’esaltazione. Lo spirtitualismo italiano di Luigi Stefanini e l’atteggiamento tenebroso di Luigi Pirandello

(Dott. Placido Fallica)

 

 

Già a partire dal 1910 si assiste alla nascita di una nuova epoca portatrice di una violenta accelerazione della modernità. Trattasi in sintesi di un’epoca segnata dallo sviluppo della tecnica e dell’industria e contemporaneamente caratterizzata dalle due guerre mondiali del 1914-1918 (la c.d. “grande guerra”) e del 1939-1945. Le due guerre coinvolsero per la prima volta l’intero pianeta e videro la partecipazione diretta o indiretta di quasi tutti gli stati importanti con effetti e conseguenze in ogni angolo della terra. L’accelerazione verso la modernità, lo sviluppo del capitalismo, l’espansione imperialistica dei grandi stati, trovarono così, un esito irrazionale e rovinoso. Le guerre furono sostanzialmente motivate da una concorrenza tra le grandi nazioni per il controllo dei mercati mondiali, mentre nella direzione politica degli Stati esprimevano un peso sempre maggiore i grandi gruppi economici, e si assisteva a un’intensa concentrazione dei processi produttivi, con il passaggio da economie aperte alla libera concorrenza internazionale ad economie protezionistiche chiuse, atte a difendere il proprio mercato alla concorrenza straniera. Del resto, le guerre furono usate perfino come strumento di sviluppo economico, favorendo l’espansione dell’industria bellica e un rigido coinvolgimento di grandi masse di uomini. Sia l’imperialismo[1], quanto il nazionalismo[2] furono le ideologie che sostennero la spinta ad un uso distruttivo e barbarico dello sviluppo economico e industriale, in un intreccio molto complesso di situazioni e crisi locali, di problemi particolari, di progetti politici, di motivazioni economiche, culturali e razziali. Queste ideologie legate al concetto secondo il quale il paese a cui di appartiene deterrebbe comunque il diritto di guidare i destini del mondo e dominare tutti gli altri in virtù di un suo valore intrinseco, della sua civiltà, della sua tradizione, della sua lingua, delle sue abitudini, si imposero in buona parte dell’Europa già nel primo decennio del secolo, spesso coltivate e fomentate da grandi gruppi economici che miravano a trarre vantaggio dallo sviluppo dell’industria militare. Con il secondo decennio del secolo, queste ideologie si legarono ad un infittirsi di conflitti locali, di crisi e di lacerazioni che esplosero con la grande guerra del 1914-18 la quale rappresentò la fine di un’epoca e il crollo di un assetto europeo. La conclusione del conflitto (che oltretutto riuscì a coinvolgere le masse), vide una mutazione radicale dell’aspetto mondiale, con la formazione di una serie di nuovi Stati nell’Europa centro orientale e nel Medio Oriente, con una nuova espansione del colonialismo inglese e francese, con l’affermazione degli Stati Uniti d’America e con la formazione del primo Stato comunista in seguito alla rivoluzione russa[3].Tuttavia, all’interno di questo nuovo assetto, si scatenarono nuovi e laceranti conflitti dovuti al dramma della disoccupazione di massa e dagli sconvolgimenti economici prodotti dalla guerra. Negli anni Venti si assiste ad una vorticosa ripresa economica che suscitò tuttavia delle sfasature all’intero sistema mondiale, che culminarono nel crollo della borsa di Wall Street e nella terribile crisi economica del 1929-32. Il crescente articolarsi dell’amministrazione e del controllo statale attribuiva nei diversi paesi un ruolo sempre più importante ai ceti medi divenuti la base essenziale di nuove formazioni politiche. Il malcontento di questi strati sociali veniva così indirizzato verso miti collettivi, e veniva per lo più utilizzato per una funzione nazionalistica. Da questi movimenti, di cui il fascismo fu la manifestazione più esemplare, sorsero i regimi totalitari i quali trovarono le loro basi sulla mobilitazione di grandi masse di uomini e su un controllo totale della vita sociale. Il totalitarismo avanzò in modo sempre più forte trovando le sue manifestazioni più eclatanti in Germania con il trionfo del nazismo di Adolf Hitler, in Italia con il trionfo del fascismo e nell’Unione Sovietica con lo stalinismo il quale portò avanti un ferreo sistema amministrativo e burocratico che culminava nell’uso sistematico dei campi di concentramento (Gulag). Mentre l’ideologia nazista imponeva ai Tedeschi l’uso di qualsiasi mezzo per affermare la loro superiorità e il loro dominio sul mondo; il fascismo, di cui capo fu Benito Mussolini, invece, oscillava tra tendenze opposte: da una parte una linea “rivoluzionaria” che privilegiava la potenza, la giovinezza, l’energia e il movimento; dall’altra una linea “conservatrice” tendente ad imporre un severo ordine borghese. Pur essendo nato come ideologia del tutto laica, una volta conquistato il potere, il fascismo ricercava il consenso delle strutture della Chiesa e di quasi tutti i settori del cattolicesimo tradizionale, sistemando con i Patti Lateranensi del 1929, il vecchio dissidio tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. La politica economica del fascismo, cominciò a conferire un nuovo spazio al settore pubblico introducendo dei correttivi interni al sistema economico capitalistico. Essenziale è per il totalitarismo fascista il controllo del consenso e la continua mobilitazione delle masse, con la creazione di obiettivi esterni, con una politica di potenza e di espansione coloniale che trova il suo culmine nella conquista dell’Etiopia e nella proclamazione dell’Impero (1936). Naturale esito di tutta la politica fascista fu l’alleanza con la Germania nazista, l’adesione all’antisemitismo[4], e l’intervento nella seconda guerra mondiale (10 giugno 1940). L’amore per le vestigia romane talmente decantate da Mussolini, in tempi ormai lontani furono prese in considerazione da un grande esponente della letteratura latina: Tito Livio[5]. Di idee conservatrici, improntò la sua vita e la sua opera ad equilibrio morale e religioso e spirito patriottico. Il suo essere un convinto pompeiano, e quindi critico nei confronti di Cesare, non gli impedì di comprendere lo spirito nuovo dei tempi, di ammirare l'opera riformatrice imperiale e di celebrare la pace augustea e la figura stessa dell’imperatore.
Pochi frammenti ci sono pervenuti dei suoi scritti filosofici e retorici, che noi conosciamo soprattutto tramite le testimonianze di successivi autori come Quintiliano e Seneca.
Ma il suo capolavoro è rappresentato dalle Storie. Iniziato tra il 27 ed il 25 a.C., occupò tutta la sua vita.
Originariamente il titolo doveva essere Ab Urbe condita libri e comprende in 142 libri annalisticamente, anno per anno o per gruppi di anni, la storia di Roma dalle origini sino al 9 a.C., anno della morte di Druso Maggiore (figliastro di Augusto), il governatore delle Gallie che combatté contro le popolazioni germaniche.
È probabile che l’opera dovesse comprendere, nel disegno originario, 150 libri e concludersi con la morte di Augusto (14 d.C.). L’autore la pubblicò, man mano che procedeva nella composizione, per sezioni staccate, raggruppandole in decadi (10 libri) o pentadi (5 libri), corrispondenti per lo più a determinati cicli di fatti storici.
Dei 142 libri ne avanzano solo 35 : le decadi 1a, 3a, 4a e i primi cinque libri, lacunosi, della 5a. Degli altri 107 rimangono alcuni frammenti ed i riassunti che vennero fatti di tutta l'opera, forse ad uso scolastico, ad eccezione dei libri 136 e 137.
Con le sue Storie Tito Livio si colloca tra i più grandi storici antichi.
Nei secoli è stato accusato di mancanza di senso critico nell’interpretazione e nell'uso delle fonti, di contraddizioni ed anacronismi, di esaltazione fanatica della romanità e disinformazione cronologica, geografica ed etnologica.
Ma c’è da dire innanzitutto che la stessa vastità dell’opera è causa di difetti, incongruenze e contraddizioni. Bisogna poi pensare a Tito Livio come ad uno storico dotato di una peculiare personalità che lo portava ad essere particolarmente sensibile nei confronti della tradizione : l’accoglie qual è, senza discuterla o documentarla, la considera patrimonio sacro ed ideale del popolo romano, germe stesso del futuro destino imperiale. È questa una visione integrale della romanità che lo porta a narrare, più che ad interpretare, le vicende ed i valori civili, morali e spirituali in esse contenuti che devono costituire esempio e norma di vita. È, la storia, “magistra vitae”. Nella concezione storica di Livio è insito un moralismo attraverso il quale Roma è proiettata in uno sfondo di fatti grandiosi, nati da un fondamento etico, civile e religioso, che costituisce l’espressione più elevata di tutta la vita romana. Le sue figure di eroi e matrone sono presentate con accenti epici, assurgono a simboli di valore e di virtù e le loro gesta vanno oltre il proprio spazio temporale per assumere una dimensione ideale eterna.
Anche la religiosità che pervade tutta l’opera è un’altra caratteristica di questo autore. La visione che Tito Livio ha della storia è visione fondamentalmente religiosa: la storia è governata dagli dei. La legge superiore, il Fatum o Necessitas, che domina anche gli stessi dei, dirige il mondo e fissa l’ordine degli eventi umani. Da esso dipendono vita e morte, prosperità e miseria, vittoria e sconfitta, pace e disordine. Proprio in questo sentimento religioso Livio trova la risposta al dubbio tacitiano: ciò che accade nel mondo, accade per caso o per volontà divina?
Altro fondamento per comprendere l'opera è la romanità che Tito Livio ha nella sua concezione storica. Roma è il suo pensiero dominante, tutto ciò che accade al di fuori di essa non lo interessa. Compito suo è quello di “esporre i fatti che il popolo romano ha compiuti”.
Questa sua sconfinata ammirazione per “il popolo principe della terra” domina tutta l’opera, ma soprattutto la prima parte, dove l’antica età di Roma è narrata con un nostalgico desiderio del passato, di quando Roma, forte di condottieri imbattibili, grandi guerrieri, magistrati assennati ed un popolo disciplinato, poneva le fondamenta della sua storia. Anche lo stesso nascente impero non è altro, per Livio, che il fatale svolgimento di tali presupposti eroici, un tutt’uno in continuo progresso verso nuove conquiste militari e civili.
È chiaro che una tale concezione della romanità ha comportato limitazioni di giudizio nello storico, giacché l’esaltazione “patriottica” si risolve spesso a sfavore dei popoli stranieri, perlomeno attenuandone le virtù.
Ma ciò non toglie che Tito Livio rimane lo storico latino più grande dell’età augustea, colui che seppe dare alla storia un volto umano, riuscendo a convertire in realtà la leggenda ed a narrare la realtà col tono sospeso della leggenda.
La storia di Roma di Livio ebbe una fortuna immediata e durevole e fu di gran lunga la più letta e apprezzata fino all’epoca rinascimentale: ispirò ad esempio a Niccolò Machiavelli i suoi Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Friedrich Nietzsche, con la sua teoria del super-uomo, fu certamente un modello a cui l’ideologia nazista si ispirò, tanto che nella Germania degli anni Trenta, il filosofo venne sottoposto a un trattamento di politicizzazione germanica, per cui a un certo momento - complici la volontà di potenza e l’esaltazione della guerra, il mito del super-uomo e l’invito a vivere pericolosamente - apparve a tutti gli effetti come il filosofo del nazismo. Il celeberrimo filosofo nato a Rocken nel 1844 e rinomato per aver dato vita alla magnifica opera “Nascita della tragedia” (1872), la quale si concentra sulla concezione dionisiaca della vita basata sull’ebbrezza orgiastica e sull’entusiasmo, ebbe l’opportunità di conoscere il musicista Richard Wagner e coltivare così la passione per il mondo greco il quale influenzò la sua personalità. Lo spirito apollineo[6] e lo spirito dionisiaco[7] sono le due categorie fondamentali dell’arte greca. In un primo momento Nietzsche sembrò accettare accanto al dionisiaco (inteso come passione, gioia e piacere) l’elemento apollineo (inteso come ragione, moderazione e controllo dei sensi), solo successivamente si rese conto del fatto che sull’impeto e sulla generosità degli istinti e delle passioni prevale l’intelletto, che determina infelicità nell’uomo, bruscamente strappato al suo dionisiaco abbraccio con la natura. Da allora la vita si configura come dolore, lotta, distruzione, incertezza ed errore. Altra opera di eminente importanza fu la “Gaia Scienza” (1882), dove il filosofo annuncia la morte di Dio. Per motivi diversi e molteplici la civiltà occidentale si è via via distaccata da Dio e lo ha ucciso: in tal modo però sono venuti meno anche tutti quei valori ad esso connessi (bontà, amore, altruismo) che erano a fondamento della vita religiosamente condotta. Il tema della morte di Dio, venne successivamente ripreso nel 1885, in “Così parlò Zarathustra”. Nietzsche immaginò che Zarathustra, antico fondatore del mazdoismo persiano, fosse tornato sulla Terra per annunciare agli uomini una nuova dottrina: dopo un millennio di supina acquiescenza ad un Dio creatore, il mondo moderno si è liberato da ogni concezione metafisico-trascendente, ma purtroppo non ha acquistato una adeguata fede in se stesso. Occorre quindi un uomo nuovo - Nietzsche lo chiama super-uomo o anche oltre-uomo - in grado di divenire “sale della terra”. Il super-uomo, diviene così l’espressione e l’incarnazione della volontà di potenza e per realizzare se stesso deve espandere la propria natura che è dionisiacamente, essenza energetica. La prima caratteristica del super-uomo è la libertà di spirito, egli inoltre deve “volare liberamente al di sopra degli uomini e delle loro leggi meschine per soddisfare la propria natura dionisiacamente serena”. La sua massima è “divieni ciò che sei”: e cioè differenziati dagli altri , chiuditi nella tua eccezionalità, realizza te stesso in tutte le differenti possibilità senza scegliere, perché ogni scelta comporta la rinuncia, mentre il super-uomo deve realizzare e dominare tutte le possibilità e potrà finalmente sostituire l’antica massima della rinuncia “tu devi”, l’orgogliosa formula “io voglio”. Il bene e il male, nella comune accezione delle parole, non avranno significato per lui: “il vero bene consisterà nell’esplicare la propria volontà di potenza”, il male sarà dato invece da tutto ciò che si oppone a questa sete di dominio. Altro elemento caratterizzante il super-uomo è l’amor fati: l’accettazione della propria essenza materiale e dei propri istinti e quindi l’accettazione del mondo in cui egli riconosce la radice di se stesso. Con l’amor fati il super-uomo fa suo il mondo accettando il presente e guardando al passato come a una sua creazione e proiettandosi nel futuro con lo spirito di Dioniso. L’amor fati si risolve così in amore per tutto ciò che l’universo è, è stato e sarà. L’ultimo famoso insegnamento di “Così parlò Zarathustra” è l’eterno ritorno inteso come divenire del mondo, che ripiega su se stesso ripetendo eternamente lo stesso ciclo. La realtà pertanto, non si risolve in un insieme di eventi effimeri: quando una cosa avviene, avviene per sempre, e da sempre , perché l’eterno ritorno ne garantisce la perpetuità. Se il mondo si sviluppasse, ciò significherebbe che gli manca qualcosa: invece al mondo non manca nulla e da sempre la sua realtà è completa e assoluta. È questo ciò che esprime l’eterno ritorno: il mondo che accettando se stesso, proprio per questo si ripete. La filosofia di Nietzsche ha subìto manifestazioni e manipolazioni differenti a seconda dei vari umori intellettuali e politici: basti pensare all’interpretazione accreditata dalle molteplici dottrine nazionalistiche o razzistiche di cui sopra. Apparentemente, il Novecento sembrerebbe portare crisi e sconvolgimenti politici, in realtà esso si disegna come periodo in cui si assiste all’emergere di situazioni nuove, basti pensare al fatto che diversi pedagogisti italiani, nel secondo dopoguerra, diedero vita ad orientamenti di tipo spiritualistico. Lo spiritualismo, si disegna come orientamento filosofico che si caratterizza per l’attribuzione di un valore privilegiato alla coscienza e allo spirito. Entrato nel lessico filosofico nell’Ottocento grazie al francese Victor Cousin, il termine “spiritualismo” è poi venuto a indicare ogni filosofia dell’interiorità: in questo senso esso pare appropriato a designare, oltre al pensiero di S.Agostino, soprattutto una lunga tradizione francese che da Cartesio, Pascal e Malebranche nel Seicento, attraverso pensatori come Maine de Biran e Cousin nell’Ottocento, conduce fino agli spiritualisti del primo Novecento come Emile Boutroux, Maurice Blondel, Henri Bergson. In Italia furono pensatori spiritualisti, nell’Ottocento, i filosofi cattolici Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti.
Storicamente lo spiritualismo non si presenta come un indirizzo filosofico uniforme o un sistema dottrinario definito, ma come un insieme di prospettive, di atteggiamenti e di tendenze che sono stati condivisi da diversi pensatori; pertanto si indicheranno solo alcune costanti che contraddistinguono tali correnti filosofiche. In primo luogo i pensatori spiritualisti accentuano il significato dell’analisi della coscienza, alla quale subordinano ogni considerazione del mondo esteriore, praticando il metodo dell’introspezione o dell’indagine interiore che fu già di Agostino. In secondo luogo le filosofie spiritualiste sono accomunate dal riconoscimento di un Dio personale e trascendente, che coincide perlopiù con un ritorno alla tradizione teologica del cristianesimo, ed entrano perciò in polemica con le varie forme di immanentismo nella filosofia moderna e contemporanea. In terzo luogo lo spiritualismo si contraddistingue per un atteggiamento critico nei confronti del positivismo e, in generale, di tutte le filosofie che individuano nel sapere scientifico l’unica fonte di conoscenza del mondo naturale.
Per gli spiritualisti il vivere, per l’uomo è sempre la realizzazione di un fine di uno stato ideale. L’io è il centro attivi dei fini, nessuno stato ideale di vita può realizzarsi nell’uomo e nel mondo se non si commisura alle possibilità attuali, allo stato di fatto o all’ordine naturale dell’uomo e alla condizione storiche della società. La vita dell’uomo è spiritualità e libertà perché si colloca tra la dimensione ideale e reale. L’educazione pertanto è un esigenza inerente al fare perfettivo, all’attività preferenziale del meglio. L’uomo deve sapere non solo perfezionare gli strumenti della vita e del sapere ma anche farsi padrone di ciò che si è appreso e conquistato. Ne deriva che l’educazione è sempre e solo attiva, in quanto coincide con la mediazione tra ordine reale e ordine ideale e, quindi con la mediazione tra passato e presente. Il primo maestro è quello della propria coscienza, e il dovere fondamentale di questo principio educativo e quello, per l’uomo, di farsi maestro di se stesso. Per altro l’errore fondamentale della pedagogia di ispirazione cristiana è spesso quello di cadere nella astrattezza storica, ignorando la concreta situazione in cui la persona cresce ed opera. L’educazione è sempre un rapporto tra persone e questo rapporto è ontologico in quanto riguarda la struttura originale del loro essere. Esponente significativo dello spiritualismo cristiano italiano è Luigi Stefanini (Treviso 1891/Padova 1956), docente di pedagogia estetica, e storia della filosofia, nelle Università di Padova e Venezia. Stefanini è da considerarsi uno dei principali rappresentanti di un approccio pedagogico all’educazione fondato su uno spiritualismo personalista di indirizzo Platonico Agostiniano. Ha seguito le lezioni di Aliotta a Padova e ne risente l'influsso anti-attualistico e pro-scienza si differenzia dall’esistenzialismo, al quale riconosce (specie in Heidegger) la consequenzialità dell’assioma “L’essere si risolve senza residuo nel Dasein, l’essenza nell’esistenza mondana”. Riduce però la sua filosofia al personalismo, che riconquista la dimensione del valore dell’uomo dopo aver attraversato la svalutazione esistenzialistica. L’attimo esistenzialistico è non momento del tempo ma specchio dell’eternità. Questa visione cristiana è già in Agostino. In una presentazione della tesi agostiniana, Stefanini ne fa il conciliatore di idealismo ed esistenzialismo: "il primo ipostatizza la ragione contro la persona, il secondo isola la persona dalla ragione... Sant’Agostino invece personifica il rapporto uomo-Dio e quello conoscitivo uomo-cose, personifica infine il rapporto tra le facoltà dello spirito. Il tutto avviene nella storia, regno del contingente ma anche regno della libertà dell'uomo. L'uomo non è automa ma attore della storia, come lo è Dio che regola la storia come un poema. La persona è spiritualità, libertà, valore originario, sostanza unica ed irripetibile, e quindi valore assoluto: Essa è portatrice dei diritti dell’uomo, tra cui primario, il diritto all’educazione, che si realizza attraverso la partecipazione dell’educando alla cultura. La differenza dei beni economici, che partendosi si sminuiscono, i beni culturali, attraverso la partecipazione, si moltiplicano e si accrescono. Educare significa partecipazione della persona alla cultura, sviluppo della sua personalità accanto agli altri, nella comunità sociale e civile. Il fine dell’educazione, quindi, è il pieno svolgimento della persona, mentre l’istruzione di base costituisce uno scopo subordinato. La primarità della persona fa sì che la vera educazione sia sempre democratica e attiva. Nel Novecento, l’attenzione verso la realtà umana, divenne sempre più spiccata, in questo periodo, Luigi Pirandello (1867-1936)[8], utilizza il teatro come luogo in cui rappresentare la realtà umana nelle sue varie sfaccettature. Definito come “scrittore dell’inconscio”, Pirandello è sicuramente uno dei massimi drammaturghi e scrittori italiani del Novecento. Anche se la sua fortuna critica è sempre stata molto controversa (soprattutto in Italia), è uno dei pochi scrittori italiani contemporanei che abbia saputo conquistarsi una fama internazionale: non tanto per il premio Nobel (1934), quanto grazie allo straordinario numero di compagnie che ne mettono in scena i drammi in molti paesi del mondo. Pirandello è probabilmente l’autore che meglio rappresenta il periodo che va dalla crisi successiva all’unità d’Italia all’avvento del fascismo. Pochi come lui ebbero coscienza dello scacco subito dagli ideali del Risorgimento e dei complessi cambiamenti in atto nella società italiana. Sul piano letterario il suo punto di partenza fu, come per gran parte degli autori nati nella seconda metà dell’Ottocento, il naturalismo. Fin dal primo momento però l’oggetto privilegiato, o pressoché esclusivo, delle rappresentazioni pirandelliane non furono le classi popolari bensì la condizione della piccola borghesia. Da questa prospettiva lo scrittore seppe sviluppare una corrosiva critica di costume, cogliendo in profondità la crisi delle strutture tradizionali della famiglia patriarcale. Poiché però anch’egli apparteneva alla piccola borghesia, finì per assolutizzarne i dubbi e le sofferenze, che rappresentò come il segno di una condizione eterna di tutti gli esseri umani. D'altro canto fu proprio la direzione esistenziale e metafisica assunta dalla sua ricerca a portarlo molto vicino alle posizioni di alcuni dei più grandi scrittori europei di questo secolo. Paragonato, volta a volta, a Kafka o a Camus, a Sartre o ai drammaturghi del teatro dell’assurdo (Beckett, Ionesco), Pirandello è stato uno dei pochissimi scrittori italiani del Novecento capaci di raggiungere una fama mondiale: ancora oggi i suoi drammi sono, dopo quelli di Shakespeare, i più rappresentati in tutto il mondo. Al centro della concezione pirandelliana sta il contrasto tra apparenza e sostanza. La critica delle illusioni va di pari passo con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà: qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all’inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. In un mondo dominato dal caso e privo di senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito paradossale di mostrare l'inadeguatezza degli strumenti logico-linguistici di interpretazione della realtà. L’arte, espressione del dubbio sistematico, diventa così coscienza critica, dovere morale dello scrittore contro le mistificazioni e i falsi miti costruiti dagli scrittori del decadentismo, a cominciare da D’Annunzio. I romanzi di Pirandello sono in tutto sette; il primo, L ‘esclusa, è pubblicato nel 1901, quando lo scrittore era ai suoi esordi letterari; l’ultimo, Uno, nessuno e centomila è del 1926, nel pieno di uno straordinario successo internazionale, conquistato soprattutto grazie alle opere teatrali. I romanzi sviluppano gli stessi temi delle novelle e delle commedie, mettendo in scena casi e personaggi bizzarri, che incarnano i drammi e le incongruenze della condizione umana. Vediamo adesso di menzionare sinteticamente qualche romanzo del celeberrimo drammaturgo siciliano.


Il fu Mattia Pascal

Nel 1903, a causa di un rovescio economico familiare, Pirandello, fino a quel momento scrittore dilettante, si trova nella condizione di dover scrivere per vivere. L’esito è il più celebre dei suoi romanzi, Il fu Mattia Pascal, che esce a puntate, tra il giugno e l’ottobre 1904, sulla rivista “La Nuova Antologia”. Viene quindi pubblicato in volume, poi tradotto in tedesco, in francese, in inglese, con grande successo di pubblico. L’ultima edizione, definitiva, del 1921, contiene un’appendice, Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, nella quale Pirandello sostiene che uno scrittore non deve preoccuparsi di inventarsi storie “verosimili”: la vita infatti è così inverosimile che supera ogni immaginazione. Il romanzo racconta in prima persona il caso «strano e diverso» di Mattia Pascal, bibliotecario in un paese di provincia: angariato dalla suocera e dalla moglie, fugge di casa e va a Montecarlo, dove vince una forte somma alla roulette. Sulla via del ritorno legge su un giornale la notizia della sua morte e scopre che i suoi congiunti hanno creduto di riconoscerlo nel cadavere di un suicida trovato vicino al paese. Mattia decide allora di sfruttare la situazione per costruirsi la vita libera e autentica che non ha mai vissuto: cambia nome, si fa chiamare Adriano Meis, si stabilisce a Roma presso un bizzarro affittacamere, il signor Anselmo Paleari, si innamora (della figlia del signor Paleari, Adriana) e si vuole sposare, ma scopre ben presto che, senza un riconoscimento burocratico della sua identità, non può portare a termine nessun progetto. Inscena allora un secondo suicidio e ritorna a casa; ma neppure qui c’è posto per lui, poiché la moglie si è risposata e i suoi concittadini sono totalmente assuefatti alla sua scomparsa. Si riduce allora a vivere nella polverosa biblioteca del paese, dove passa il tempo contemplando la vita degli altri e scrivendo la sua incredibile storia. Di tanto in tanto va a fare una visita alla sua tomba, e, se qualche curioso gli chiede come si chiama, risponde: “Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal!”. La trama segue uno schema che tornerà in molte altre opere di Pirandello: un evento casuale consente al protagonista di uscire dalla prigione della “forma” e di assaporare per un attimo una libertà totale, ma l’emancipazione si rivela illusoria, e la lucidità nuova con cui può guardare a se stesso e agli altri lo precipita in una situazione di disadattamento ancora più amara della precedente: svincolato da ogni legame sociale e privo di una conferma burocratica della sua esistenza, Mattia Pascal è ridotto a vivere come un «forestiere della vita», «solo, senza casa, senza meta». Il personaggio che narra in prima persona è scisso in tre diverse incarnazioni (il Mattia Pascal prima del presunto suicidio; Adriano Meis; il Mattia Pascal “resuscitato”), che considerano gli eventi da angolazioni diverse e dialogano concitatamente tra di loro dall’inizio alla fine del romanzo: l’intreccio dei tempi e dei punti di vista relativizza l’oggettività dei fatti rappresentati e scardina l’ordine cronologico della narrazione, coinvolgendo il lettore in un continuo mutamento di prospettive. Così, rifiutando apertamente “quella stupidissima verosimiglianza a cui l’arte crede suo dovere ubbidire” e mettendo in scena il dramma di un personaggio “inetto a tutto”, “spettatore estraneo della vita”,
Pirandello si lascia alle spalle un secolo di tradizione narrativa e si affianca ai narratori più innovativi e problematici del Novecento europeo.


Uno, nessuno e centomila

Uno, nessuno e centomila fu pubblicato nel 1925-26, prima a puntate su «La Fiera letteraria», poi in volume (Bemporad, Firenze 1926). Il romanzo è centrato sulle vicende di Vitangelo Moscarda, che da un banale fatto quotidiano trae occasione per avviare un processo di riflessione che si conclude in modo imprevedibile. La moglie, infatti, un giorno gli fa notare, mentre egli si guarda allo specchio, che il suo naso pende a destra. Vitangelo non si era mai accorto dello cosa e ne trae motivo per
riflettere sui contrastanti modi coi quali viene percepita la realtà da ognuno di noi, sull’inesistenza di uno realtà univoca, sull’infinita varietà con la quale ognuno appare agli altri (uno, nessuno e centomila, appunto). Vitangelo quindi, spinto da queste inquietanti riflessioni, sconvolge la sua vita, va contro la logica corrente, e compie atti che, misurati secondo quella, appaiono assurdi e contraddittori: liquida la banca paterna attirandosi l’ostilità dello moglie e dei soci che pensano di farlo interdire, certi che sia diventato pazzo. Accettando il consiglio del vescovo, devolve i suoi beni in opere di carità. Questo e altri gesti che lo portano a una vita in solitudine, lontano dal mondo, ricoverato in un ospizio di poveri fondato da lui stesso, sono da lui vissuti come ragionata rinuncia alle maschere e ai doveri che la vita associata impone, come rinuncia ad un’identità (d’altra parte, impossibile), come aspirazione a una vita senza passato e senza futuro, come una cosa naturale, pietra, nuvola, pianta,
vento... Così, sul finire della sua carriera, Pirandello prospetta una paradossale e inquietante via di liberazione della “vita” dalla “forma”: “Non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta: non ricordarsi più neanche del proprio nome...; vivere per vivere, senza saper di vivere...”.
Dal punto di vista formale, Il fu Mattia Pascal (1904), e Uno, nessuno e centomila si lasciano alle spalle la struttura tradizionale del romanzo ottocentesco, e sperimentano strategie e tecniche narrative inedite, affiancandosi alle esperienze più innovative della narrativa del Novecento europeo; di impianto sostanzialmente ottocentesco è invece I vecchi e i giovani (1913), centrato sulla denuncia del fallimento degli ideali risorgimentali nella società meridionale. Coerentemente con le idee espresse nel saggio sull’umorismo la prosa di Pirandello non si ispira ai modelli equilibrati e libreschi codificati dalla tradizione letteraria ma si affida a una lingua rapida e nervosa, che riduce fortemente la distanza tra scritto e parlato: la sintassi è agile e movimentata, ricca di esclamazioni e di interrogazioni; il lessico è per lo più “medio”, ma ravvivato da aggettivi dissonanti, che mirano a sottolineare le caratteristiche grottesche dei personaggi e delle situazioni. Queste scelte linguistiche, unite alla grande frequenza dei dialoghi e dei monologhi, in cui il narratore discute animatamente con se stesso e con il lettore, conferiscono alla narrativa di Pirandello un andamento vivace e concitato, che si potrebbe definire “teatrale”.
L’Enrico IV, invece rappresenta l’opera teatrale più rinomata di Pirandello. Enrico IV è un dramma in 3 atti, scritto nel 1921, rappresentato con grande successo al Teatro Manzoni (protagonista Ruggero Ruggeri) il 24 febbraio 1922, e pubblicato in volume lo stesso anno. Protagonista è un giovane aristocratico che durante una festa in costume, nei panni appunto di Enrico IV (l’imperatore di Germania che nel 1077 si dovette umiliare a Canossa di fronte a Gregorio VII), per un’improvvisa impennata dei cavallo, batte la testa e impazzisce. Per dodici anni vive nella fissazione di essere veramente Enrico IV e i parenti gli mettono accanto, nella sua villa trasformata in reggia, valletti, servitori in costume, un quadro della marchesa di Toscana. Quando dopo tanto tempo riacquista la ragione, si rende conto di quanto è successo in quegli anni: Matilde Spina, la giovane da lui amata che lo accompagnava nella famosa cavalcata, è diventata l’amante di Belcredi, colui che, per eliminare il rivale, aveva provocato apposta l’impennata del cavallo. Per reazione decide di continuare a fingersi pazzo: così guarderà dal di fuori, da “esiliato”, la vita. Ma una sera (sono ormai trascorsi vent’anni dalla festa che è all’origine del dramma), arrivano nella villa Belcredi, Matilde con la figlia Frida e il genero Di Nolli, e un medico che per guarire il pazzo sottoponendolo a uno choc, fa prendere a Frida, travestita da contessa Matilde di Toscana, il posto del grande dipinto che raffigura la contessa. Quando Enrico IV entra, ella lo chiama e il sedicente pazzo, rivedendo in quel volto la bellezza che vent’anni prima aveva Matilde Spina, la donna amata, per poco non impazzisce di nuovo. Ma poi si calma e rivela che ormai da tanti anni è guarito. Tutto sembra volgere per il meglio ed Enrico IV tenta di abbracciare Frida, che col suo travestimento gli ha dato per un momento l’illusione di essere riportato di vent’anni indietro, apparendogli come la Matilde amata nella sua giovinezza. Ma Belcredi gli si oppone violentemente, ed Enrico lo trafigge con la spada. Ora non gli resta che riprendere a fingersi pazzo: sarà la sua condanna, ma nel contempo l’unico modo che gli permetterà di restare esiliato e libero dalla realtà.
Anche per Pirandello, come per il contemporaneo Svevo, vale la definizione di scrittore isolato, difficile da costringere negli schemi di uno specifico movimento letterario.
La singolarità di questo autore è dovuta, in parte, alle vicende spesso travagliate della sua vita, che contribuirono a orientarlo fin dalle prime opere a una riflessione sull'esistenza, sul ruolo dell'uomo nella società e sul destino che lo attende, per giungere a concludere, con una sorta di distacco, che non è possibile trovare alcuna soluzione positiva alla crisi che coinvolge e sconvolge i singoli individui, il tessuto sociale, le istituzioni. Intellettuale che rifiuta il ruolo positivo e attivo in cui credono altri uomini di cultura del primo Novecento, nel suo pessimismo radicale Pirandello si riserva solo il compito di osservatore lucido e penetrante, di testimone attento e consapevole della crisi in cui si dibatte la sua epoca, e coglie acutamente la spersonalizzazione e l'alienazione dell'uomo moderno, senza credere nella possibilità concreta di un cambiamento o di un riscatto.
La poetica pirandelliana si basa su alcuni complessi nuclei concettuali, che cercheremo di esporre con la massima linearità possibile.
Il primo cardine del suo pensiero è il cosiddetto vitalismo, vale a dire la tesi secondo cui la vita non è mai né statica né omogenea, ma consiste in un continuo, inafferrabile divenire, in una incessante trasformazione da uno stato all'altro.
Nella vita e nel suo flusso eterno, Pirandello avverte da un lato disordine, casualità e caos, dall'altro percepisce disgregazione e frammentazione. Questi elementi, però, non si fermano alla realtà esterna: anche l'individuo, al suo interno, manca di unità e di compattezza, si sfalda e si disgrega in frammenti incoerenti. Tuttavia, secondo lo scrittore, ciascuno di noi tende a fissarsi e irrigidirsi in una forma che vorrebbe presentarsi come unitaria, organica e compatta. Inoltre, tutti coloro che ci osservano, ci attribuiscono una forma diversa da quella in cui noi stessi ci riconosciamo; per di più, anche la società, con le sue regole e istituzioni, ci impone una “maschera”. Di conseguenza, ognuno tende a deformare la realtà secondo la personale visione del mondo, e l'immagine di ciascuno cambia con il mutare della prospettiva. Solo l'ipocrisia delle istituzioni, delle ideologie e delle regole che l'uomo stesso si è dato tiene uniti questi frammenti in una apparenza, dietro la quale tuttavia scorre inarrestabile la vita. L'uomo, a dispetto dei suoi sforzi, non riesce a penetrare fino in fondo nel labirinto delle apparenze, né a conoscere ciò che è racchiuso in quelle forme di cui egli è responsabile ma anche prigioniero; per questo si dibatte, impotente, nella loro trappola, ed è costretto a subire quelle leggi che sente false, ma che rappresentano la sua unica possibile identità.


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[1] Imperialismo è il processo attraverso il quale una nazione domina un’altra, direttamente, con mezzi politici, o indirettamente, con mezzi economici. L’imperialismo è cambiato moltissimo, particolarmente negli ultimi cento anni, dove le forme ed i metodi si sono evoluti per accontentare i bisogni capitalistici in evoluzione.
Per garantire la sicurezza di un stato, ci deve essere una forte economia, e questo si otteneva nel periodo classico dell’imperialismo, tramite la conquista di terre nuove.

[2] Lo sviluppo industriale e il capitalismo monopolista comportano negli stati una lotta per la conquista di nuovi mercati e di fonti di materie prime; quindi i popoli alimentano i miti di supremazia nazionale. L’idea di nazione, già affermatasi durante la fine dell’Ottocento, subì, all'inizio del '900 un cambiamento; nata dal semplice desiderio di costituzione di un’unità nazionale è passata a indicare il sostegno ad un militarismo concorrenziale, ad una volontà di sopraffazione.

[3] Stalin ebbe un immenso potere, un potere assoluto superiore a quello dei sovrani dell'antichità perché molto più capillare organizzato ed efficiente nel punire e anche nel prevenire ogni possibile forma di opposizione.
Dopo lo sterminio dei kulaki il regime staliniano si fece ancora più oppressivo. Le persecuzioni cominciarono a colpire non soltanto gli oppositori ma anche gli intellettuali e gli artisti, gli ufficiali dell'Armata Rossa, i vecchi bolscevichi di cui Stalin temeva il prestigio, e persino molti fedeli dirigenti comunisti.
Bastava un semplice sospetto un'accusa di frazionismo (= volontà di dividere il partito) o di deviazionismo (= allontanamento, deviazione della linea politica ufficiale) per essere processati, torturati, costretti a confessare colpe mai commesse, e poi giustiziati o inviati nei campi di lavoro forzato.
La potente e temutissima polizia politica i funzionari dello Stato Sovietico e del partito comunista, pretesero di regolare ogni aspetto della vita quotidiana dei cittadini. Fu imposto il culto della possibilità di Stalin "geniale" erede di Lennin e "padre" del popolo sovietico. Centinaia di migliaia e forse ancora di più (è difficile calcolarle, perché molte semplicemente scomparvero senza lasciare traccia) furono le vittime del periodo compreso fra il 1934 e il 1939 , che fu detto del terrore staliniano o delle grandi purghe.

[4] L’antisemitismo è da sempre considerato la manifestazione della più assurda avversione e della più ingiusta lotta contro gli ebrei che dalla fine del 1800 è diventata una sistematica dottrina a sfondo razziale. Questo termine stava a precisare la differenza tra le manifestazioni antisemite che si stavano diffondendo in Europa all’inizio del 1900 e le precedenti persecuzioni contro gli ebrei. È noto, che l’ostilità verso gli ebrei era diffusa già nell’età classica per poi perdurare anche durante il Medioevo e nei secoli a seguire e le cause di un tale atteggiamento furono per lo più un intreccio di ragioni politiche, economiche e religiose. Gli ebrei, infatti, sono da sempre oggetto di pregiudizi, persecuzioni e massacri. L’origine di quest’avversione è per lo più religiosa, anche se c’è da considerare che essa rimane anche quando, nel corso dell’800, lo stato si laicizza. Osserviamo quindi che a questo punto è giustificata scientificamente usando argomenti razziali e quindi da un antiebraismo di origine religiosa si passa ad un antisemitismo basato su teorie razziste. In ogni modo l’antisemitismo ebbe una così gran presa sulle persone anche perché era stato vissuto come un fatto di origine religiosa, poiché gli ebrei erano visti come “gli uccisori di Cristo”. La cosa che forse colpisce di più è il fatto che le cause delle azioni degli antisemiti e delle loro idee non sono del tutto conosciute. A volte si è parlato di una specie di follia che rende l’uomo fautore di azioni indescrivibili agli occhi di una persona che ha la capacità di capire e rispettare la diversità dell’altro: sarebbe proprio questa diversità a spaventare coloro che si comportano in modo razzista, considerandosi superiori a persone che, in realtà, sono praticamente uguali a loro. A questo proposito è bene riflettere sulle considerazioni che il filologo e storico tedesco Theodor Mommsen svolge in merito al pregiudizio antisemita, considerandolo come un’epidemia che non si può né capire, né spiegare, né curare. Per lui gli antisemiti non sono capaci di ascoltare altro che il proprio odio, la propria violenza e la propria invidia, restando indifferenti alla ragione e alla morale. Ciò è significativo per cercare di trovare una spiegazione ad avvenimenti che nel corso della storia, e in particolare nel 1900, hanno lasciato segni indelebili nella memoria collettiva. L’antisemitismo moderno è considerato il “male” oscuro che per lungo tempo è rimasto vivo nell’organismo dell’Europa e che considerato ancora oggi la punta di quell’iceberg sotto il quale si trova pregiudizi e false credenze.

[5] Scarse le notizie della sua vita. Di lui non si conosce il cognome. Si sa che nacque a Padova nel 59 a.C. Presto si trasferì a Roma, dove entrò nelle grazie dell'imperatore Augusto, che gli affidò, a quanto pare, l'educazione culturale del nipote adottivo Claudio, futuro imperatore. Ebbe una figlia ed un figlio, Tito, divenuto poi famoso geografo. Morì a Padova nel 17 d.C[6] Per spirito apollineo si intende l’armonia di forme tipiche dell’arte plastica.[7] Per spirito dionisiaco si intende l’esaltazione ebbra che caratterizza la musica.

[8] Nasce il 28 giugno 1867 nella villa detta Caos nei pressi di Girgenti (oggi Agrigento). La famiglia, di tradizione garibaldina e antiborbonica, è proprietaria di alcune zolfare. Dopo gli studi liceali compiuti a Palermo, rientra nel 1986 a Girgenti, dove affianca per breve tempo il padre nella conduzione di una miniera di zolfo e si fidanza con una cugina (rompendo in seguito il fidanzamento). Si iscrive prima all'università di Palermo, poi passa alla Facoltà di Lettere dell'università di Roma, ma a causa di un contrasto con il preside, il latinista Onorato Occioni, si trasferisce all'università di Bonn, dove nel 1891 si laurea in Filologia romanza con una tesi dialettologica. Intanto ha già esordito come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di Gea (1891), raccolta che dedica a Jenny Schulz-Lander, di cui a Bonn si è innamorato. Nel '92, fermamente deciso a dedicarsi alla sua vocazione letteraria, si stabilisce a Roma, dove vive con un assegno mensile del padre. Nell'ambiente letterario della capitale conosce e stringe amicizia con il conterraneo Luigi Capuana, che lo spinge verso il campo della narrativa. Compone così le prime novelle e il suo primo romanzo, uscito nel 1901 con il titolo L'esclusa. Non abbandona tuttavia la poesia: escono nel '95 le Elegie renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la sua ultima raccolta poetica. Nel 1894 sposa a Girgenti, con matrimonio combinato tra le famiglie, Maria Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio del padre. Si stabilisce definitivamente a Roma, dove nascono i tre figli Stefano (1895), Rosalia (1897) e Fausto (1899).Pirandello vive sempre con disagio il rapporto con la fragile e inquieta moglie, avvertendo il forte peso delle norme comportamentali risalenti alle radici siciliane. Inizia una fitta collaborazione con diversi giornali e riviste letterarie, sulle quali pubblica una ricca e vasta produzione narrativa che trova consensi presso il pubblico, ma indifferenza da parte della critica. Scrive il romanzo Il turno (edito nel 1902) e lavora ai suoi primi testi teatrali che per allora non riescono a raggiungere le scene. In opposizione all'estetismo e al misticismo dominanti fonda con Ugo Fleres e altri amici un settimanale letterario dal titolo shakespeariano «Ariel». Dal 1897 al 1922 insegna, senza entusiasmo ma con grande dignità, stilistica italiana presso l'Istituto Superiore di Magistero di Roma. Nel 1903 l'allargamento di una miniera di zolfo causa alla famiglia Pirandello un grave dissesto economico: il padre Stefano perde insieme al proprio capitale anche la dote della nuora. In seguito alla notizia dell'improvviso disastro finanziario, Antonietta, già sofferente di nervi, cade in una gravissima crisi che durerà per tutta la vita sotto forma di grave paranoia. Vani saranno i tentativi di Pirandello di dimostrare che la realtà non è come invece pare alla moglie. Abbandonata la tentazione del suicidio, Pirandello cerca di fronteggiare la disperata situazione, assistendo Antonietta (che verrà internata in una casa di cura solo nel 1919); e per arrotondare il magro stipendio universitario, impartisce lezioni private e intensifica la sua collaborazione a riviste e a giornali. Nel 1904 Il fu Mattia Pascal , pubblicato a puntate sulla «Nuova Antologia», riscuote un successo tale che uno dei più importanti editori del tempo, Emilio Treves di Milano, decide di occuparsi della pubblicazione delle sue opere. Nel 1908 pubblica due volumi saggistici Arte e scienza e L'Umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a professore universitario di ruolo. Nel 1909 inizia la sua collaborazione, che durerà fino alla morte, al «Corriere della Sera», su cui appaiono via via le sue novelle; e pubblica la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani (la seconda esce in volume nel 1913). Nel 1911 esce il romanzo Suo marito. Scrive anche alcuni soggetti cinematografici, mai realizzati; mentre nel 1915 pubblicherà il romanzo Si gira... Nel 1915-'16 inizia la sua prodigiosa e intensa attività teatrale, che darà vita a dibattiti e discussioni in Italia e all'estero. Proprio negli anni della grande guerra, (vissuti drammaticamente anche per la perdita della madre e per la partenza dei figli per il fronte), scrive alcune celebri opere: Pensaci Giacomino!, Liolà (1916), Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà (1917), Ma non è una cosa seria e Il gioco delle parti (1918). Nel 1918 esce il primo volume delle Maschere nude, titolo sotto cui raccoglie i suoi molteplici testi teatrali. Nel 1920 il teatro pirandelliano con Tutto per bene e Come prima, meglio di prima, si afferma pienamente, e a partire dall'anno successivo raggiunge il grande successo internazionale con il capolavoro I sei personaggi in cerca d'autore. Abbandonata la vita sedentaria degli anni precedenti, Pirandello vive e scrive negli alberghi dei più importanti centri teatrali sia europei che americani, curando personalmente l'allestimento e la regia delle sue opere. In questi stessi anni il cinema trae diversi film dai suoi testi teatrali e narrativi, di cui continuano a uscire ristampe e nuove edizioni. Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno presso l'editore Bemporad. La sua produzione teatrale prosegue con Enrico IV e Vestire gli ignudi (1922), L'uomo dal fiore in bocca (1923), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a soggetto (1930). Nel 1924 si iscrive formalmente al partito fascista, da cui ottiene appoggi e finanziamenti per la compagnia del Teatro d'Arte di Roma che, sotto la direzione dello stesso Pirandello, porta per tre anni (fino al 1928) il teatro pirandelliano in giro per il mondo. L'interprete per eccellenza delle sue scene è la "prima attrice" Marta Abba, a cui Pirandello si lega anche sentimentalmente. Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila, ultimo romanzo, frutto di una lunga gestazione, (Bemporad, Firenze), intessuto di interrogativi che il protagonista rivolge direttamente al lettore, per coinvolgerlo in una vicenda "universale", un riepilogo di tutta l’attività, narrativa e teatrale dell'autore.Il dramma La nuova colonia (1928) inaugura l'ultima stagione pirandelliana, quella fondata sui «miti» moderni, che culmina nell'opera incompiuta I giganti della montagna. Nel 1929 è nominato membro dell'Accademia d'Italia, dove nel '31 commemora Verga.
Nel 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. Si ammala di polmonite, mentre segue le riprese a Cinecittà di un film tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa romana il 10 dicembre 1936. Esce postuma l'edizione definitiva delle Novelle per un anno.Nel 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. Si ammala di polmonite, mentre segue le riprese a Cinecittà di un film tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa romana il 10 dicembre 1936. Esce postuma l'edizione definitiva delle Novelle per un anno. L'inquietudine, e in ultima analisi l'amarezza, insospettabili nella vita di un uomo di tanto successo, vengono analizzate nell'articolo L'inquietudine e una solitudine a tratti disperata, che sono la costante della sua esistenza, insospettabili in un uomo di tale successo, vengono analizzate nell'articolo Il segreto di un Nobel italiano, che prende in esame le pagine di alcuni biografi: fra tutti, Andrea Camilleri, che bene la descrisse nel suo libri Biografia del figlio cambiato.


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