Un film
ispirato alla vita di Osvaldo Valenti
e Luisa Ferida

di Enzo Cicchino



        GIOCO PERVERSO

        Regia di Italo Moscati
        Sceneggiatura: Italo Moscati; con la collaborazione di Giuseppe Manfridi e Piero Maccarinelli.
        Con Ida Di Benedetto, Fabio Testi, Adalberto Maria Merli, Franco Castellano.
        Fotografia: Mario Vulpiani
        Montaggio di Nino Baragli

        Sono l’incipit e l’epilogo che impreziosiscono la tessitura della storia con una propria muscolatura poetica, che emerge da quello scrigno ideale -ricordo!- in cui l’autore è riuscito a comprimere tutte le emozioni. Eppoi ne esplodono le congelate lacrime conficcandoci in petto i lor frantumi. Graffiati! quando si entra nei chiaroscuri insani di vite apparenti senza chiarezza che poi ne assumono, disperatamente enigmatica; e soltanto dopo che la morte vi ha apposto il suo sigillo la parola -fine- riacquista il senso di un valore compiuto che va ben al di là dell’ultimo titolo di un film.
        Si potrebbe dire -per certi aspetti- che è appunto l’incisivo GIOCO PERVERSO del corpo narrativo del film, si -lui!- al servizio di queste sue due guance epinarranti del principio e della fine e non il contrario. E ciò, almeno in questo caso, è un pregio per l’opera, non una diminutio. L’epilogo straziante vita è così esso stesso necessità da contribuire con specifico valore ad essaltare la perla del racconto. E tanto da connotare il testo cinematografico di una atmosfera densa che ricorda il clima di un certo Truffaut. Seduce. Contratta un impegno profondo con lo spirito. Mette lo spettatore di fronte a un aut-aut: deve decidere tra dove mordere con gli occhi le emozioni che straripano e dove nel contempo lasciar che sedimenti il ricordo e la ragione… affinché non ci si smarrisca nel gorgo del puramente immaginario.
        Ci si predispone alla visione dell’intero film pensando trattarsi della storia dei due attori principali, certo l’incipit offre delle indicazioni ma sul principio non ci facciamo caso. Quando però abbiamo fruito della spettacolo sino in fondo dobbiamo ahimé constatare che quella breve scena iniziale era invece importantissima. E’ il primissimo dopoguerra. Set di film a Cinecittà. L’attore che sta recitando, a fine ciak viene chiamato dal suo regista il quale gli mostra le foto di un uomo ed una donna, uccisi. Dalle immagini che seguono si capisce che la storia che vedremo non sarà affatto un flash-back bensì la biografia di questi due appunto, anche se nel corso delle immagini reincontreremo anche il nostro attore dell’inizio essendosi la vita di costui incrociata talvolta con quest’altri. E noi siamo così convinti che sia proprio la vita di quest’altri che soltanto alla fine, con emozionatissima scoperta ci accorgiamo che tutto il racconto invece era la storia di quell’attore mediocre che abbiamo visto nell’incipit e che è stato tenuto in sordina per tutta la narrazione, si, è proprio lui. E con piacere veniamo ad accorgerci che non è né mediocre, né di secondo piano. E’ -si- lui il protagonista. E ci domina.
        L’epinarrazione è dunque la strategia semantica. Congiunge. Tesse. Riconnette fili apparentemente non propri ma che diventano necessari. E scopre l’autore. Che autoviviseziona se stesso innanzitutto. E poi quel patrimonio fantastico che sono i fenoména della sua anima. E lo porge. Talvolta con freddezza. Altre con nudità estrema. E slanci di rammarico. Geometrie di primipiani e rapidi campi lunghi.
        Il racconto si porge con una tessitura molto teatrale, per taluni succedersi di ambienti farebbe pensare anche ad un testo pensato precedentemente per la scena e poi adattato per il cinema, o almeno fa presumere che i fondamenti della architettura immaginativa nascano sicuro da una bozza a metà fra teatro e cinema. Tuttavia il montaggio, con quelle sequenze tagliate al clou dell’azione e pure con qualche fotogramma in meno che lasciano l’amarezza del loro finire dona a tutto l’insieme un ché di vibratile, di sospeso di tensivo così come era sul fil del rasoio la vita stessa in quei tristi mesi di Salò.
        Se proprio insistiamo a cercare delle smagliature! esse insorgono nella trama in certuni punti per una voluta sovrabbondanza di scene e dialoghi che sembrano più utili a dare corpo temporale al racconto (affinché raggiunga le due ore e quaranta di cui aveva bisogno la committenza) che a sostenere il nervoro dipanarsi dei fatti, comportando una architettura narrativa talvolta troppo incollata che impedisce il librarsi dell’immaginazione. Ma nell’insieme pervadono il film con vasta lode innumerevoli scatti di commozione cui sussegue ogni volta convincente il necessario gelido ravvedimento della ragione che non può esimerci dall’analisi critica dei fatti.
        Accattivante anche la salda semplicità della fotografia che senza sinistri effetti riesce -con uno studiato bicromatismo spaziale- a sottolineare tutte le atmosfere essenziali senza infarcirle di effettacci a sproposito (poteva essere un rischio). Evocante la tempestività d’un sogno, di particolare efficacia è per esempio il momento in cui viene proiettato il musical americano sulla pelata devastante di Adalberto Maria Merli. -C’è qualcosa di sorprendentemente buffo in questo- potremmo dire se fossimo in altro contesto, invece l’idea accentua la dimensione tragico paradossale offrendo ancor più drammaticità scenica all’episodio, che parrebbe divenire metafora del totale fallimento dell’operazione cinema a Salò.
        Moscati non predilige tantomeno ha in particolare simpatia la personalità principali del racconto: i due protagonisti Ferida (Ida Di Benedetto) e Valenti (Fabio Testi) che solo ad intermittenza toccano la poesia dell’umano, spesso sono squallidi, talvolta ancor più miseri nel loro già povero culturume cinematografico di cui sono imbevuti. Ed alla fine se ne libera come un cappotto bagnato, quasi con l’imbarazzo ed il disagio di averli trattenuto così a lungo.
        Al contrario, assume forte spessore umano, di una umanità certo perversa e cinica -da eroe negativo- ma da eroe! proprio quello pseudo Ortensi-Koch (in cui coincidono in uno due tristi figuri realmente esistiti e dalle indegne gesta) che per la sua valenza storica non ce lo saremmo mai aspettato così fine, con quella sua compostezza tagliente enigmatica e tragica che quando muore verrebbe quasi da dirgli -Ah!- , interpretato con maestria e spessore da un irriconoscibile pelato Adalberto Maria Merli. Eroe negativo! Ma da eroe con una nerboruta personalità autonarrantesi.
        Ma la figura che ci intacca permane lasciando tracce indelebili sul nostro cuore è Raul, il mediocre attore Raul! che possedendo la bellezza arcana della propria fragilità e la consapevolezza di essere ‘nessuno’, del proprio fallimento artistico, tocca invce proprio a lui il compito di essere l’endonarratore che porge il sale dell’umanità a tutta la vicenda. E’ l’innocenza che vive nel mondo della brutalità. E’ la strategia del sogno per vincere il prosaico impiccarsi alla vita del giorno. E’ la lacrima inalienabile dei vinti, che pur nella sua volatilite disperazione, lascia indelebili tracce sul bronzo della storia.
        Altro personaggio indimenticabile è Virginio. Un altro perdente, che perde perfino gli occhi: dopo essersi umiliato fallendo come attore, dopo aver smarrito il sogno d’essere pugile, dopo aver perso l’amore, dopo aver rinunciato alla pace partendo volontario per l’Africa. Eppoi quell’attimo cieco! al suo ritorno! in cui si rivolge agli altrettanto persi e ciechi dinanzi al mondo -Vittorio ed Olga- chiedendo vanamente loro di Evelyn, la sua antica fedifraga mentore, ormai anch’essa inghiottita dai frantumi… nei suoi esili sogni.
        Anche l’amore è bendato nel film di Italo. Nessuno riesce ad incontrare qualcosa di veramente degno. Nulla ha ragione d’esser veramente vissuto. Qualunque mito è così irrimediabilmente fragile, anacronistico, si salva qualche fantasma della X MAS però anche questo è un delirio: della Decima se ne indossa la divisa con la stessa crudeltà di un saio.
        E’ l’amore in tutti i sensi che diviene inadeguato alla realtà in quel biennio nero in cui ogni sentimento è un profugo ferito che fugge. Senza alcun traguardo preciso, salvo la morte. Ed anch’essa è così allo stesso modo labile nelle sue decisioni, indeterminata, casuale, troppo spesso immeritevole. La si incontra così, ovunque e all’improvviso, un colpo di fulmine. Via! ma come tutti i fulmini scocca in atmosfere nebbiose, vortici. Nubi pietra. Poi scrosci di pioggia e pianti decisamente confusi.
        La pellicola infonde il disagio di un passato visto dalla parte opposta di un imbuto. Ci fa vivere l’illusione ottica di inghiottirlo o di esserne inghiottiti. E’ l’antinomia d’un tempo e del tempo, un precipitargli addosso indipendentemente dalla nostra volontà eppure irrefrenabile.
        Nella tessitura, l’utilizzo dei cinegiornali come prologo è di una maestria avvincente. Tagli, forti lampi di vita. Memoria, perdita. Gioca perverso il punteruolo della sconfitta su ogni bocca, naso, zigomo ed elmo di quei fuguri che, se un tempo furono i capimanipolo di quella grottesca carnevalata che fu il fascismo di piazza, ora divenivano i mimi di un tetro pomeriggio che non poteva offrire altro spettacolo che il pianto delle loro esili idee.


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