Giovanni Campopiano
...la mia prigionia in Germania...
adattatamento dal dialetto
a cura di
Paolo Mancino
L'otto settembre del 1943 eravamo a Marsiglia e il capitano, comandante del nostro battaglione, ci consigliò di ascoltare il comunicato radio prima di prendere delle decisioni.
Le notizie non erano rassicuranti, allora il capitano ci ordinò di caricare tutto e partire per l'Italia.
Arrivati a Tolone, trovammo i carri armati tedeschi che c'impedirono di proseguire.
Pensai di lasciare tutto sul camion, scendere e passare dietro la colonna per andare, attraverso la campagna, verso la Svizzera.
Ma, quando arrivai alla fine della colonna, trovai da un lato i tedeschi e dall'altro il mare e così tornai sul camion al mio posto.
Dopo circa un'ora e mezzo i tedeschi disarmarono tutti i nostri ufficiali.
Poi il nostro capitano ci ordinò di consegnare le armi e di non opporre resistenza.
Arrivati alla sbarra, i tedeschi si fecero consegnare le armi e ci trasferirono in un campo dove rimanemmo una quindicina di giorni.
Un giorno, per la fame, abbiamo saccheggiato lo spaccio.
I tedeschi guardavano senza dirci niente.
Nei giorni che seguirono, a nostre spese, capimmo che quelle provviste sarebbero dovute bastarci per tutti i quindici giorni di permanenza nel campo.
Un giorno, infatti, in una marmitta con cento litri d'acqua abbiamo cotto solo un chilo e mezzo di pasta per una compagnia di duecento soldati.
In Francia siamo stati ancora una decina di giorni, dormendo in una polveriera, poi siamo partiti per la Germania.
Eravamo circa quaranta per ogni vagone ed abbiamo viaggiato per due giorni prima di arrivare a Limburg.
I vagoni erano stati chiusi dall'esterno ed erano privi di servizi igienici.
Io, fortunatamente, avevo un coltello e sono riuscito a praticare un foro nel pavimento, ma come abbiano fatto gli altri non lo so.
Arrivati a Limburg ci hanno condotto nel campo di concentramento: sentinelle sulle torrette, filo spinato e noi nelle baracche.
Il mangiare era pochissimo: qualche patata ed un po' di brodo.
Per andare a fare i nostri bisogni, di notte, uscivamo dalla baracca.
Poi i tedeschi cominciarono a spararci addosso e così fummo costretti a fare tutto nella gavetta: di notte i bisogni e di giorno, dopo averla lavata, mangiare il rancio.
Dopo un mese e mezzo ci divisero.
Io ed altri quaranta finimmo in una grande baracca dove da mangiare davano solo una pagnotta di pane da dividere in otto.
Durante l'operazione di divisione, il "mattone" finiva per sbriciolarsi e quindi all'ultimo capitava una razione inferiore.
Fu così che costruimmo, con i coperchi del lucido per le scarpe, una sorta di bilancia per pesare ogni razione di pane.
Dalla baracca, successivamente, fui trasferito in una polveriera dove lavoravano circa quattrocento donne tedesche.
In quella polveriera riempivamo cassette di proiettili e li caricavamo sui vagoni merci.
La polveriera era situata in una pineta dove noi eravamo liberi di circolare durante il "Kaffee trinken": momento in cui i tedeschi mangiavano.
C'erano lepri grasse che si avvicinavano a noi, ma i tedeschi non volevano che le ammazzassimo così andavamo in giro nei pressi della cucina in cerca di qualcosa da mangiare.
Rimestando, con un pezzo di legno, nel bidone dei rifiuti a volte riuscivamo a tirare fuori qualche mela quasi intera.
Continuando a camminare nella pineta, ogni tanto, riuscivamo ad avere qualche mela dalle operaie, ma c'erano delle ragazze, di fede hitleriana, che masticavano la mela e poi ce la sputavano addosso con disprezzo, ma noi, dopo averla raccolta, la mangiavamo lo stesso.
Dalla polveriera fui trasferito in una miniera in Belgio.
Si lavorava nei cunicoli, insieme ai tedeschi, con una lanterna appesa al collo.
Frequentemente suonava l'allarme, perché dal carbone fuoriusciva il gas, e dovevamo spostarci in una zona più aerata.
In quel periodo mi ammalai e non fui più in grado di lavorare nella miniera.
Fui trasferito, così, in una cava di pietre di un paesino chiamato Esbach in Germania e là sono stato fino alla fine della guerra.
Ricordo che ad Esbach mi sono trovato bene perché il mestiere lo conoscevo abbastanza, infatti, lo Chef mi diceva: "Johann tu Steinbruch".
Mi ripeteva sempre questa frase quando mi vedeva lavorare, così, dopo l'ennesima volta, gli dissi: "Sì, Chef, io lavoravo in una cava".
Un giorno lo Chef si ammalò e volle che fossi io a sostituirlo.
Ai tedeschi non piacque questa cosa e brontolarono molto, però non mi fecero niente di male.
Così un giorno io ed un mio amico chiedemmo il permesso per andare a casa dello Chef: ci concessero tre ore di tempo.
Lo Chef rimase molto contento e ci offrì di tutto.
Per andare alla cava ci alzavamo alle quattro e mezzo del mattino e, con zoccoli di legno ai piedi, attraversavamo tutto il paese.
Qualche volta, anche per scherzare, facevamo tanto rumore con gli zoccoli che lo Chef si arrabbiava.
Altre volte, in due o tre, ci allontanavamo dalla fila per andare a dissotterrare delle patate che i tedeschi usavano conservare in buche coperte con la paglia.
Nella cava cuocevamo le patate, appoggiando la gavetta su di un compressore, e le mangiavamo insieme al rancio che ci portavano a mezzogiorno.
Poi a dicembre ci fu una grande incursione d'aerei delle truppe americane: circa un'ora e mezzo di bombardamento.
La nostra baracca fu colpita più volte ma non crollò.
Tutti scapparono e scappai anche io.
Volevo attraversare i binari e nascondermi ma non feci in tempo: una granata mi ferì.
Caddi e mi accorsi che la gamba destra era quasi staccata dal corpo.
Rimasi dove ero caduto e con una cinghia stretta attorno alla coscia cercai di arrestare l'emorragia.
Quando gli aerei si allontanarono venne un soldato bolognese e mi adagiò in un fosso.
Trascorsero molte ore, la neve che era nel fosso si sciolse tutta e l'acqua mi bagnò come un "lucignolo".
Poi il bolognese venne con altri compagni e mi trasportarono alla stazione, e dalla stazione, su di un vagone agganciato alla motrice, all'ospedale di Selters.
Il capostazione, in quella circostanza, si rese molto disponibile: devo ringraziare anche lui se sono ancora qui.
All'ospedale m'amputarono la gamba e fasciarono il moncone con la poca garza rimasta e carta da sacco.
Alcuni giorni dopo mi applicarono una cuffia al moncone e misero la coscia in trazione utilizzando una carrucola ed un peso fissato alla corda.
Dovetti stare in quella posizione quaranta giorni e cioè fino a quando la pelle non ricoprì completamente l'osso.
Quando ero ad Esbach, la sera, andavo a lavorare anche da un contadino che aveva tre figlie: Titina, Margherita e Maria.
Vennero tutte e tre a farmi visita all'ospedale e portarono anche altre ragazze.
Ad una di queste era morto il fidanzato a Nettuno, in un'azione di guerra, e mi chiese informazioni perché contava di recarsi in Italia.
Dopo alcuni giorni vennero a farmi visita anche due amici del campo e porgendomi un cartoccio pieno di zucchero mi dissero: "Noi non abbiamo potuto portarti altro, ognuno ha pensato di offrirti un cucchiaio di zucchero, quando hai fame, mangialo".
All'ospedale c'era una suora che si chiamava Elisabetta.
Un giorno mi chiese di aiutarla ad arrotolare le garze per le fasciature, accettai e nei giorni che seguirono continuai a darle una mano in questo lavoro.
Poi il nostro ospedale fu bombardato dalle truppe americane, nonostante esponesse le insegne della croce rossa internazionale, ci furono dei vetri che andarono in frantumi e molto spavento, ma niente di più.
Da quel giorno, per paura dei bombardamenti, uscivo dall'ospedale e facevo un po' di movimento, nel boschetto circostante, appoggiato alle stampelle.
Sorella Elisabetta non voleva, e mi diceva: "Stai attento alle bombe, vieni che andiamo nel sotterraneo".
Così, ogni volta che suonava l'allarme, ci rifugiavamo tutti nel sotterraneo.
Poi arrivarono le truppe alleate ed un soldato americano d'origine italiana, della provincia di Benevento, mi diede una copia del giornale ed io lho sempre conservata gelosamente (è il libretto tedesco con le foto dei campi di sterminio).
Ricordo che un mio amico di nome Mondelli originario di Manfredonia, s'impossessò di un'auto tedesca e mi disse: " Tu vieni con me" e partimmo.
Eravamo in quattro: lui, un suo amico, un francese ferito ed io.
Durante il tragitto ci fece vedere una pistola che aveva sottratto ai tedeschi e che contava di portare a casa.
Il primo posto di blocco tedesco ci lasciò passare, ma il secondo ci fermò.
Mondelli scese e alzò le mani, come a dire che non aveva niente da dichiarare, ma così facendo scoprì la pistola che aveva nella tasca posteriore del pantalone e i tedeschi gliela presero: e così Mondelli "perse la pistola".
Arrivammo a Bonn e là trovammo un comando americano.
Noi feriti fummo trasferiti in un ospedale mentre gli altri in un campo.
La sala dell'ospedale era enorme ed ospitava feriti di otto nazioni diverse: russi, belgi, italiani, francesi...
Da mangiare ce ne portavano le crocerossine.
C'era un polacco molto simpatico, di nome Ernesto, che per mangiare qualche porzione in più, d'accordo con le crocerossine, riusciva a farsi lasciare il carrello delle vivande prima che venisse riportato in cucina.
Da Bonn ci trasferirono a Bologna al centro Putti.
Al centro ci tolsero le stampelle e ci diedero dei bastoni per evitare danni alla schiena.
Un giorno mentre camminavo per le vie di Bologna incontrai un maggiore che era venuto ad ispezionare le nostre truppe durante la guerra in Russia.
Si chiamava Ercole Felice.
Ricordo che mi fece molte domande e alla fine promise di aiutarmi nel caso ne avessi avuto bisogno.
Al centro Putti un cieco di nome Giulio mi praticava i massaggi al moncone ed alla coscia.
Il mestiere glielo aveva insegnato un altro cieco.
A volte, per prenderlo in giro, gli dicevamo: "Giulio è mezzogiorno vuoi andare a mangiare?".
Allora lui tastava l'orologio senza sfere, che aveva al polso, e diceva: "Non è ancora mezzogiorno".
Si muoveva molto bene tra i tavoli però, qualche volta, urtava contro il carrello delle vivande.