racconti - stories

 

Giovanni Manea

Biografica
36 anni, coniugato, per campare lavoro in una azienda metalmeccanica, tenace bevitore di birra, leggo di tutto praticamente da sempre. Quasi dimenticavo: ogni tanto scrivo qualche racconto.
svezia.h@libero.it

Presentazione
"Considerazioni di tipo pessimistico", due amici, a causa di un incidente surreale, hanno modo di confrontarsi su delle questioni che trattenevano in gola da troppo tempo. E lo fanno con sproloqui di vario genere. In "Avvicendamenti di stati d'animo", c'è un tizio che, non sapendo come affrontare le proprie colpe, fugge ritrovandosi in un paese improbabile alla mercè di alcuni individui improbabili.

 

 

 Considerazioni di tipo pessimistico
(sorte dopo uno scontro tra civiltà differenti)

 

"Certo che se lo avessi saputo in anticipo… Di come si sarebbe conclusa la festicciola intendo dire…Mi sarei dato per malato. O per morto!"
Mi limitai ad annuire. Adriano continuò dicendo:
"Dovevamo festeggiare un compleanno in fin dei conti. Ogni festa di compleanno che si rispetti finisce con una sbornia ciclopica. Lo sanno tutti! Questa è una regola."
Dissi:
"Tieni le mani sul volante e pensa a guidare."
Adriano sbuffò con il vigore di una locomotiva. Poi disse:
"Non c'è alcun pericolo. La strada è vuota come il water di uno stitico. E poi non sono ubriaco.Come potrei esserlo? Quell'infame ci ha dato da bere gazzosa e coca cola!"
Diede un pugno sul cruscotto e aggiunse:
" Ma ti rendi conto? A mezzanotte, quel verme che stavamo festeggiando, ha avuto la brillante idea di farci vedere i suoi dannati filmini delle sue maledette vacanze! Subito ho pensato che volesse farci uno scherzo. Ma quello faceva sul serio! Siamo rimasti lì come due cretini, per tre ore di fila a sorbirci…"
Ero annoiato. E le lamentele di Adriano, per quanto sacrosante, iniziavano a darmi sui nervi. Dissi:
"Senti: oramai è andata così. Ha maciullato le palle a noi esattamente come a tutti gli altri invitati. E questo è un fatto. Sono le tre e mezza del mattino. E questo è un altro fatto. Abbiamo da percorrere altri venti chilometri su questa provinciale. Manteniamo la giusta dose di calma e di rassegnazione. Ok?"
Adriano serrò le mascelle. Poi disse:
"Sì,sì. Intanto ci siamo bruciati anche questo ennesimo sabato sera. E gli abbiamo regalato pure un orologio. Adesso avrei voglia di tornare indietro, strapparglielo dal polso, e infilarglielo nel…"
Capii che non aveva alcuna intenzione di smettere. Isolai i condotti uditivi, e volsi lo sguardo sul mio lato destro. La Luna illuminava debolmente la campagna. Era un quadro desolante. I campi fatti di terra robusta e brinata si ammassavano uno sull'altro, senza aver nulla da esibire e tanto meno da raccontare, in quella cruda notte d'inverno. E il continuo berciare del mio amico non aiutava di certo a migliorare la mia visione della vita. Una vita noiosa e cruda come quella campagna. I miei pensieri andavano e venivano come delle folate di vento.
"Perché non riesco a trovarmi una fidanzata? Perché non la pianto di sciupare in questo modo il mio tempo libero? Perché non accade mai niente? Perché…"
La voce di Adriano imbrattò l'abitacolo con un paio di bestemmie di intensità tale da far impallidire un indemoniato. Piegai il mio sguardo verso quegli occhi ai quali non sfuggiva mai nulla. Dissi:
"Che ti prende?! Cosa ti passa per la testa?!"
Il mio amico gridò:
"Tieniti per Dio! Ci è addosso!"
Al di là della faccia spiritata del mio amico c'era qualcosa. Una sagoma piatta, rischiarata dalla debole luce lunare, proveniva a velocità sostenuta dai campi alla nostra sinistra. La intravidi solo per pochi attimi. L'ombra scura, volando rasoterra, superò l'avvallamento del fossato che delimitava la carreggiata, con una traiettoria che non lasciava dubbi: era in rotta di collisione con la nostra auto. Adriano sterzò con determinazione, ma l'impatto fu inevitabile. L'oggetto misterioso ci colpì sul cofano e sbandammo malamente uscendo di strada. La mia testa picchiò il finestrino laterale, per poi rimbalzare sulla nuca di Adriano. Dopo la carambola l'auto si fermò sulla terra nera e gelata. Il motore ragliò penosamente; si spense, mentre i fari continuarono a proiettare la luce nel vuoto della campagna. Il mio amico aveva perso i sensi. Lo chiamai a gran voce, scotendolo e schiaffeggiandolo. Finalmente la sua bocca diede dei segni di vita: iniziò a macinare insulti senza posa. Dissi:
"Cosa è successo? Adriano! Cosa è successo?"
Si decise a guardarmi in faccia. La sua fronte era sormontata da un bernoccolo impressionante. Adriano mi fissava e bestemmiava. Poi con voce strozzata disse:
"Lo hai visto anche tu! Ci ha tagliato la strada! Guarda la mia auto!"
Il mio amico era sotto shock. Mi guardai attorno e dissi:
"Sì, ma cosa…Chi ci è venuto addosso?"
Adriano puntò il suo lungo indice come fosse stato una pistola. Disse:
"Quello! È stato quel miserabile! Adesso esco e faccio piazza pulita!"
Vidi quella cosa. Era nel fossato e sembrava uscita da un film di fantascienza. Sentii il panico elevarsi a ondate implacabili lungo la colonna vertebrale. Adriano scese dall'auto con la stessa foga di un toro introdotto nell'arena in giornata di corrida. Si posizionò di fronte all'auto. Aveva le lacrime agli occhi. Strinse i pugni e li picchiò sul cofano.
"La mia macchina! Guarda la mia macchina! Distrutta! Distrutta!"
Mosse alcuni passi verso la sagoma discoidale che si trovava ad una ventina di metri da noi.
"Ehi! Bastardo! Vieni fuori! Vieni a vedere come hai ridotto la mia macchina! Esci!"
Attinsi a piene mani dalla mia riserva di coraggio e uscii dall'abitacolo. Dissi:
Piantala! Piantala…Se quello viene fuori ci disintegra!"
Il mio compagno si voltò. La sua faccia gonfia e illuminata dai fari pareva una maschera mostruosa. Disse:
"Ehi! Ma da che parte stai tu?!"
"Cosa?" Risposi incredulo.
Poi continuai dicendo:
"Tu sei fuori di testa. Ma ti rendi conto contro cosa abbiamo cozzato?"
Egli reagii pestando i piedi per terra. La sua voce divenne isterica.
"Già l'anno scorso quell'albanese del cazzo mi ha distrutto la macchina! E non ha tirato fuori un soldo! A questo non gliela faccio passare liscia! Nossignore! Manco per il cazzo!"
Tentai di impormi sui suoi deliri.
"Tu sei uscito di cervello! Quello dell'altra volta era un extracomunitario! Questo è un extraterrestre!"
In tutta risposta piantò le nocche sul parabrezza e diede inizio ad un turpiloquio:
"Ehi! Ehi! Non incominciare a tirare fuori cazzate! Non è assolutamente una questione di razze! Tu lo sai bene che io non ho niente contro gli extracomunitari! Io amo tutti…cinesi, albanesi, keniani e cazzi vari! Anzi, sai cosa ti dico? Che se avessi quattro soldi da parte io adotterei molto volentieri un bel keniano del cazzo! Anche uno di trenta, trentacinque anni! Sissignore! Me lo porterei a casa, e gli metterei in mano la mia carta di credito senza fare storie! Ma non è questo il punto!"
Ebbi la netta impressione di trovarmi sull'orlo della follia. Dissi:
"Ah no? E qual è il punto?"
L'altro non si fece certo pregare per continuare l'esposizione del suo pensiero.
"Il punto è che quel bastardo può anche arrivare da un'altra galassia, ma non se ne andrà di qui senza aver compilato il foglio amichevole! Questo è il punto!"
Non potei far altro che ribadire la cosa più ovvia del mondo:
"Adriano, devi calmarti. Sei sconvolto. Sei fuori di testa. Devi calmarti."
Il mio amico si mosse deciso. Allungò il suo mastodontico bernoccolo verso il mio naso. Disse:
"Stammi bene a sentire cazzone! Sei liberissimo di infischiartene di questa storia. Puoi anche fregartene del fatto che la mia assicurazione tirerà fuori un sacco di storie per i risarcimenti! Ma non venire a dirmi cosa devo o cosa non devo fare! Chiaro?!"
Avevo già visto Adriano litigare. Sapevo per esperienza che quando dava del cazzone a qualcuno, quel qualcuno faceva meglio mettersi in disparte e lasciar perdere il diverbio, se non voleva correre il rischio di farsi frantumare le ossa. Si portò sul retro dell'auto scagliando bestemmie verso i quattro angoli dell'universo. Rovistò furiosamente nel bagagliaio. Ripartì alla carica mulinando il crick al di sopra della testa.
"Esci di lì, brutto porco! Esci fuori!"
Era una situazione così folle che mi abbandonò anche la paura. Non potevo contare nemmeno più su quella. Adriano coprì la distanza che lo separava dal suo nuovo nemico con un scatto olimpionico. Sferrò una decina di mazzate terrificanti sullo scafo del disco volante. Piangeva e al contempo urlava disperato.
"Pezzo di merda! Esci da lì! Esci da lì se sei un uomo!"
Ripetei mentalmente:
"Se sei un uomo?"
Poi mi sgolai a mia volta.
"Adriano! Porca di quella troia! Là dentro può esserci qualsiasi cosa… Ma di sicuro non ci sono uomini! Via! Vai via da lì!"
Quando il mio amico ebbe terminato la sua sfuriata ai danni di quell'inverosimile mezzo spaziale, cadde in ginocchio e incominciò ad ansimare dallo sforzo. Mi avvicinai lentamente al disco, con la stessa prudenza di un gatto al quale venga offerto del cibo da una mano sconosciuta. Ero a pochi metri dal mio amico. Egli continuava ad inspirare ossigeno voracemente, restituendolo all'ambiente circostante sotto forma di bestemmie e parolacce inventate per l'occasione. Anche se ormai non aveva alcun senso, mi sforzai di parlare sotto voce.
"Andiamo. Forza, alzati e andiamo via prima che ci succeda qualcosa."
Lui si girò verso di me. La sua intonazione non aveva più nulla di umano.
"Andare via dici? Sei proprio un bell'amico! Ma come? Un pezzo di merda dello spazio mi distrugge l'automobile e tu…E tu vuoi andartene come niente fosse?"
La sua figura massiccia si ricollocò in posizione eretta. La sua faccia pareva la corteccia di un tronco rinsecchito. Disse:
"Tu a questo punto mi costringi a trarre delle considerazioni di tipo pessimistico sui nostri rapporti. Sissignore! Tu mi costringi a farlo!"
Aveva detto proprio così. Non lo avevo mai sentito esprimersi in quel modo. Adriano, di norma, faticava parecchio a mettere in fila tre parole e a dar loro un senso compiuto. Infatti tutti i vuoti lessicali e di contenuto li riempiva con bestemmie e volgarità. Lui gridava, io bisbigliavo. Una scena davvero comica a ripensarci. Dissi:
"Ti costringo a fare cosa? Ma ti rendi conto di dove siamo e in che casino ci troviamo? Quelli là dentro possono uscire da un momento all'altro con un disintegratore…Metterci dentro un panino e…"
Lui sollecitò le proprie corde vocali fino a ottenere il massimo dei decibel consentiti in luoghi aperti.
"Anche tu sei un pezzo di merda! Maledetto Giuda! Quante volte ti ho parato il culo?! Dimmelo! Quante volte?! Non lo sai nemmeno tu! E adesso, il signorino, visto che si cacca addosso dalla paura dice che dobbiamo andarcene. E chi se ne frega della mia macchina?! Eh!? Chi!?"
Fissai per qualche istante quegli occhi stravolti che parevano volermi ingoiare. Dissi:
"Ma che t'inventi? Che vuol dire che mi hai parato…Senti bello, sono io adesso che devo trarre delle considerazioni di tipo pessimistico al riguardo dei nostri rapporti!"
Roteai il mio indice come una scimitarra, perforando quell'aria che iniziava a surriscaldarsi pericolosamente tra le nostre facce, e lo puntai come un cannone verso l' abnorme e orripilante bozzolo sulla sua fronte. Dissi:
"Ehi, ma non ti è mai passato per la testa che tu senza di me ti ritroveresti solo come un cane rognoso?! Eh?! Ma cosa credi! Anche questa sera…Credi che ti avrebbero invitato alla festa se non ci fossi stato io? Eh?! E vogliamo parlare di tutte le figure di merda che mi fai fare?! Lo sai che la gente comincia ad evitarmi se sono in tua compagnia!?"
Adriano rimase immobile. Pareva una statua. Solo il suo bernoccolo continuava a gonfiarsi e a dimenarsi su quella fronte grande come un campo da calcio. Aggiunsi:
"Sì, hai capito bene quello che ho detto. Le cose stanno proprio così. Quindi pensaci dieci volte prima di offendermi. Io sono l'unico che ha pietà di te! Ricordatelo. Tu sei solo! Sei volgare e stupido! La gente non ti vuole attorno! Ma lo sai che per permetterti di venire alla festa di questa sera, ho dovuto supplicare il padrone di casa perché invitasse anche te!? Hai capito?!"
Era sempre immobile. Pensai che forse avevo esagerato con quelle ultime frasi. Adriano dilatò la bocca in uno spasimo di odio. Disse:
"Sei un bastardo! Sei un bastardo molto raffinato! Ma ora dimmi una cosa. Quando al sabato sera andiamo in giro a bar, com'è che vanno a finire le serate? Eh?! Non dire niente! Te lo dico io. Ti ubriachi come un imbecille! E quando sei ubriaco come un'imbecille, cosa fai? Eh!? Incominci a rompere le palle a chiunque incontri. Quante volte hai rischiato di prendere un sacco di legnate? Diciamo quaranta, diciamo cinquanta volte? E chi è che ti ha sempre difeso? Chi è che si è preso i cazzotti al posto tuo? Eh, razza di bastardo?! Il sottoscritto! Ecco chi ti ha sempre salvato il culo! Ti credi uno elegante, vero? Ti credi uno che sa vivere, vero? La gente non ti evita perché sei in mia compagnia. Ti evita perché sei un fanfarone alcolizzato del cazzo!"
Le sue parole furono come delle coltellate. Mi avevano procurato un dolore acuto e profondo e insopportabile al ventre. Cercai sollievo a quelle fitte allo stomaco vomitando qualche parola:
"Sei un figlio di puttana! Mi hai sentito Adriano? Ti ho detto che sei un figlio di puttana!"
Mi caricò con ferocia. Sentii la mia mascella scricchiolare. In circostanze normali sarei finito a terra implorando pietà. Ma in quel momento ero determinato. Molto determinato. Mi giostrai con un buon gioco di gambe, fintai di sinistro e partii con un destro prepotente e carico di aspettative. Centrai il bersaglio. Ma non poteva finire lì. La lucidità venne meno a tutti e due e iniziammo a dare e ricevere colpi alla cieca. Ci aggrappammo uno all'altro come due piovre impazzite. Rotolammo a terra sull'erba corta e congelata, e continuammo la nostra battaglia richiamando sulle mani tutte le nostre energie. Stavamo ancora lottando ferocemente quando degli arti estranei, robusti e luccicanti ci separarono con violenza. Ruotai sbalordito la testa. Gli individui che erano intervenuti erano chiaramente gli occupanti del disco volante. Erano in quattro. Erano alti e massicci ed indossavano degli scafandri simili ad armature. Due erano su di me. Due su Adriano. Tentai di mettere a fuoco quelle incredibili immagini con i miei occhi tumefatti e cerchiati dall'odio. Il mio cervello vorticava affannosamente nel tentativo di trovare delle parole adatte da rivolgere agli alieni. Mi serviva qualcosa di solenne. Qualcosa di storico. Un incontro del genere non è certo cosa da tutti i giorni. Ma non me ne diedero il tempo: iniziarono a picchiarci e a batterci come due vecchi tappeti polverosi. Ci lasciarono sul terreno come due sacchi di immondizia. Risalirono sul loro formidabile mezzo spaziale e decollarono agilmente in uno sfavillio di luci colorate. Ero disteso su di un fianco e osservavo Adriano che aveva la faccia e la pancia rivolta a terra. Si lamentava sommessamente. Non provai nemmeno a rialzarmi, perché il più piccolo movimento mi procurava dei dolori atroci. Anche muovere semplicemente la bocca era molto doloroso. Ma mi sforzai comunque di parlare. "Adriano, mi senti? Come stai?" Giunsero alle mie orecchie un paio di bestemmie forti e chiare. Poi disse:
"Perché? Perché ce ne hanno date così tante?"
Dissi:
"Io…Io credo che fossero incazzati quanto te. Forse…Dal loro punto di vista…Si sono convinti che siamo stati noi a tagliare loro la strada."
Sputò. Poi disse:
"E perché diavolo ci hanno messo così tanto a uscire dal quel coso volante?"
"Boh." Risposi.
Quindi aggiunsi: "Forse subito avevano paura. Come ne avevo io."
"O forse stavano terminando una partita a carte, quei quattro bastardi." Mi fece eco.
Dissi:
"Ehi, Adriano. Ti rendi conto? Abbiamo avuto un contatto con una civiltà aliena. Non è incredibile?"
Tentò di rialzarsi, ma ricadde pesantemente al suolo come fosse caduto da un albero. Disse:
"Sai una cosa? Avrei qualche altra considerazione di tipo pessimistico da fare. Ma non su di te. Vorrei farla su quei quattro rotti in culo spaziali, che oltre ad avermi distrutto la macchina mi hanno distrutto anche le ossa."
Adriano era così. Quelle parole ebbero il potere di farmi ridere. Le mie mascelle erano squassate come le portiere di un'auto da demolizione, ma non mi fu proprio possibile trattenere una lunga e fragorosa risata. A quel punto non ci rimaneva altro da fare se non aspettare l'aiuto di un qualche automobilista di passaggio. Anche se, vista la piega che aveva preso la nottata, l'idea mi faceva un po' paura: chi poteva assicurarmi che il suddetto automobilista, invece di prestarci soccorso non avrebbe preferito rapinarci? E in effetti andò proprio così. Ma quella è un'altra storia.

 

 

  Avvicendamenti di stati d'animo
(più o meno imposti da circostanze mentalmente e fisicamente usuranti)

 

"Una birra. Con poca schiuma."
Il barista non mi degnò di uno sguardo. Era intento a lustrare un paio di grandi boccali con estremo impegno e dedizione. Mi arrampicai su di uno sgabello posizionato a ridosso del robusto bancone fatto di legno scuro e metallo dorato. Ero sfinito. Ripetei pazientemente la mia richiesta. L'uomo si gettò con stizza lo strofinaccio su di una spalla.
"La gente, qui dentro, quando vuole qualcosa mi chiama per nome."
"Oh, cazzo!" Mormorai nervosamente tra i denti.
"D'accordo. Come ti chiama la gente qui dentro?"
Nessuna risposta.
"Forza, vuoi dirmi il tuo nome bell'uomo?"
Sottolineai la parola bell'uomo con sarcasmo. Sì, perché a quel punto la mia intenzione era quella di prenderlo per i fondelli. Il barista infatti era tutto tranne che bello. E doveva essere sicuramente cosciente dei suoi limiti estetici. Ma la sua reazione mi spiazzò: evidentemente il mio appellativo lo prese come un complimento. Sorrise amichevolmente e con voce mielata disse:
"Qui dentro tutti mi chiamano Ignazio."
"Bene Ignazio, pensi di riuscire a farmela una birra senza schiuma?"
Divenne serio.
"Lo vedi bene anche tu straniero: il bar è vuoto e io sto per chiudere."
Le mie mani furono percorse da un intenso formicolio. Sapevo bene cosa avrebbero voluto fare. Ma ero troppo stanco per una lite.
"Straniero hai detto? Ehi, ma qui non siamo in Italia?"
"Sì, qui siamo in Italia. Ma per noi del posto sono tutti stranieri quelli che vengono da fuori. Comunque devi stare tranquillo, perché siamo tutti ben disposti e ospitali verso chiunque."
"Davvero? Allora come la mettiamo con la mia birra? Eh, Ignazio?"
Afferrò un boccale e si diresse verso la spina della birra.
"Vedi cosa intendevo dire? Avevo già deciso di andarmene a letto, ma tu mi hai fatto una richiesta e io sono pronto a soddisfarla. Ora riesamina tutta la questione. Non è forse vero spirito fraterno il mio?"
"Che razza di giornata!" Pensai tra di me.
Fino a mezzogiorno era filato tutto liscio. Ero rientrato a casa per il pranzo allegro e spensierato. Lo facevo puntualmente da molti anni. Ma il mondo mi crollò addosso quando oltrepassai la soglia. Non c'era il solito piatto di pasta ad attendermi. Vi era mia moglie inferocita. Spaccava piatti e bestemmiava e sputava. Aveva trovato due lettere che testimoniavano contro di me. Erano le lettere che Alice mi aveva consegnato a mano alcuni mesi prima. E Alice non era mia moglie, era quella che voleva prendere il suo posto. E io non avevo fatto nulla per scoraggiarla, anzi. I contenuti di quelle lettere erano fin troppo chiari e non permettevano alcun genere di arringa difensiva. Nel momento in cui fui scoperto, mi sentii come uno di quei vermi grossi e scuri che vivevano felici nella terra grassa del mio orto. Una sensazione veramente sgradevole da provare sulla propria pelle. Le prove con cui fui inchiodato erano sepolte nel ripiano più alto della libreria. E più precisamente all'interno di un imponente libro munito di una copertina in cuoio nero. Era la Divina Commedia. Quel volume lo reputavo un forziere inespugnabile, dal momento che per mia moglie Dante richiamava alla mente solo una marca d'olio. Be', a voler essere onesto questo valeva anche per me. Chissà per quale maledetto motivo era andata a ficcare il naso in quel posto. Così, messo a nudo, non potei far altro che ridiscendere in giardino mentre mi piovevano letteralmente addosso urla, piatti e bicchieri. E anche qualche vaso. Durante la fuga mi vergognai realmente di esistere. E non solo a causa degli occhi dei vicini costantemente incollati addosso; ma anche e soprattutto perché ero solito vantarmi di come il mio rapporto coniugale fosse solido e improntato sul reciproco rispetto. Amavo molto dimostrare al prossimo i miei presunti sani principi morali. E in base alle mie belle prediche, amici, vicini, e semplici conoscenti, mi additavano sempre come esempio da seguire. Salii in auto sotto quel nubifragio di insulti, e lasciai fare il resto alle mie mani. Loro puntarono la macchina verso nord senza alcuna indecisione. Chilometri su chilometri. In autostrada, poi su di una statale. E ancora per provinciali. Solo qualche sosta per il carburante in tutte quelle ore. Con il buio ero giunto lì, nel centro di quella minuscola piazza, in un paese di cui non conoscevo nemmeno il nome.
La birra era senza schiuma proprio come piaceva a me. La feci scorrere giù per la gola come un fiume in piena. Entrò un uomo. Figura massiccia e mustacchi di altri tempi. Fece un cenno con il capo verso Ignazio, quindi si accomodò sull'altro sgabello libero.
"Rosso o bianco?" Disse il barista.
Il baffuto puntellò i gomiti sul banco e ponderò molto attentamente la questione. Infine deliberò.
"Rosso. Non c'è niente di meglio che di un rosso per affrontare una notte fatta di niente."
"Ben detto!" Gli fece eco Ignazio.
Mi rivolsi a quest'ultimo dicendo:
"C'è qualche posto dove si può dormire da queste parti?"
"Sei un ricercato straniero?"
Girai la testa verso il nuovo arrivato. Usai un tono di sfida.
"Stai forse parlando con me?! Abbiamo forse qualcosa da dirci?"
Quello si portò una mano sul volto. Unì l'indice e il pollice sotto il naso. Distese le dita con cura per tutta la lunghezza dei baffi. Ignazio intervenne con vera enfasi dicendo:
"Hai visto che movimento elegante? Hai visto come ha rinvigorito tutti i peli dei suoi magnifici baffi? Devi sapere una cosa straniero: quello è il suo classico movimento di preludio ad una sentenza. Ascoltalo. Enzo è uno che sa il fatto suo."
Senza distogliere lo sguardo dall'intruso dissi:
"Un preludio a cosa? Ma come parlate da queste parti?"
La lingua particolarmente appuntita di Enzo fece capolino tra le labbra e le inumidì. Poi disse:
"Tu mi sembri uno che è nei guai fino al collo."
"Cazzo!" Sbottai. "Volevo solo bermi una birra in santa pace. E trovarmi un letto per questa notte. Non ho voglia di sentire prediche o consigli. E non ho nemmeno voglia di farmi accusare di non so quali delitti!"
Enzo ritornò alla carica.
"Io ho naso per certe cose. Lo vedo che sei nei guai. E puoi star ben sicuro che potrei darti un buon suggerimento per venirne fuori."
Lo sguardo di quell'uomo, e le sue ultime parole in particolare, placarono il mio stato di irritazione. Abbassai la guardia.
"Venirne fuori? Davvero? Sentiamo."
Sorseggiò il suo vino. Poi disse:
"Devi scaricarti la coscienza. Quando l'avrai fatto ti sentirai meglio e potrai andartene a casa tua."
Ritornai in assetto di guerra.
"Maledizione! E dovrei scaricarmi la coscienza con voi due?! Ah, questa è davvero bella!"
Enzo continuò dicendo:
"No. Noi due non ci occupiamo di questioni così delicate."
Ignazio chiese e ottenne la parola.
"Vuoi spedirlo dal don?"
"Proprio così. Non vedo altra soluzione. Solo quel santo uomo è in grado di fornirgli l'aiuto necessario."
Rispose il suo compare con sicurezza. Scesi dallo sgabello.
"Va bene, va bene. Credo che vi siate divertiti abbastanza. Dimmi quanto ti devo per la birra."
Enzo mi si avvicinò.
"Dammi retta. Devi fare come dico io. Ma non ti sei visto? Sei addirittura ingobbito anche fisicamente sotto il peso dei tuoi crimini."
Lo fissai negli occhi. E mi sentii anche pronto a colpirlo.
"Piantala! Nessuno ti ha chiesto niente! Non racconterò i fatti miei né a te, né a nessun altro!"
Per nulla impressionato si distese i suoi baffi ribelli, e continuò dicendo:
"Non devi raccontarmi proprio niente. Guarda là fuori. Quella è la nostra chiesa. Là dentro, nel confessionale, troverai il nostro don. Vai da lui con fiducia. Quel pio uomo colmo di virtù ti riporterà sulla giusta strada."
Anche Ignazio volle dire la sua.
"Vai straniero, vai. Il nostro don trascorre tutte le notti in confessionale ad aspettare i peccatori. E come puoi ben vedere questa sera non vi è alcun movimento. Ti accoglierà subito e a braccia aperte."
Guardai la chiesa debolmente illuminata da quell'unico lampione che era di guardia nella minuscola piazza. Dissi:
"Non siete ancora stanchi di prendermi per le palle? Non ho mai sentito parlare di preti che confessano di notte."
"Il nostro don è un tipo davvero speciale. È un buon pastore. Dispensa amore a piene mani. Lui sa bene come redimerti." Concluse Enzo.
Guardai i due con disprezzo. Misi un paio di monete sul banco e uscii senza salutare. Enzo mi fu subito dietro.
"Straniero, dammi retta. Vai. Io e Ignazio ti aspetteremo qui. Poi quando ti sentirai meglio berremo qualche bicchiere insieme."
Puntai diritto verso la mia auto. L'aria era fredda e prometteva poco di buono. Inserii le chiavi nel cruscotto. Mi guardai attorno. Non vi era anima viva. Sulla mia destra si stagliava la figura della chiesa. Era stretta e alta e con la facciata che ispirava fiducia. Rimasi lì con la mano sulla chiave.
"E se avesse ragione quel tipo? È maledettamente invadente, ma potrebbe avere ragione. Forse confessandomi potrei riacquistare la calma necessaria per ritornare a casa. Forse a quel punto potrei risistemare tutto. Forse potrei capire quando e come e perché ho iniziato a commettere degli errori. Perché è evidente che ne ho commessi."
La chiesa avvolta dalla penombra e immersa nel silenzio mi ispirava sempre maggior fiducia e speranza.
"Ma come posso entrare là a quest'ora? Non ho mai sentito dire che ci si possa confessare in piena notte. Però effettivamente io sono uno straniero, come dicono quei due. Forse qui usano così. E poi, cosa mi costa provare?"
Scesi dall'auto e mi avviai con passo sicuro verso la scalinata d'ingresso. Superai i trenta scalini di pietra grigia e consunta sentendomi sempre più leggero. Varcai la soglia. L'ambiente era flebilmente illuminato da una decina di ceri, che erano posizionati a intervalli regolari lungo tutto il perimetro della piccola chiesa. Guardai in alto. Ma la poca luce disponibile non consentiva di vedere il soffitto. Era come osservare il cielo in una notte nuvolosa. Mossi alcuni passi in avanti e inciampai su di una panca. Lo stridio che produsse il piccolo incidente mi fece trasalire.
"C'è nessuno?" Chiesi timidamente.
"Da questa parte, figliolo."
La voce era solenne e penetrante. Cercai di individuare il punto da cui mi era giunta la risposta. Mossi con cautela un altro paio di passi in avanti. "Forza, ti sto aspettando." Disse ancora la voce.
Le parole provenivano da una piccola struttura di legno che prendeva forma dinnanzi a me, man mano che i miei occhi si abituavano all'oscurità. Era il confessionale. Lo raggiunsi. Dopo qualche attimo di esitazione varcai la porta. L'interno era davvero strettissimo.Solo una candela ridotta ai minimi termini rischiarava appena appena quell'angusto spazio. Presi posizione sull'inginocchiatoio. Rimasi alcuni istanti a fissare la parete di legno che avevo di fronte. Mi accorsi che vi era una finestrella all'altezza dei miei occhi, solo nel momento in cui quella si aprì. Vi era una grata, anch'essa di legno, che mi separava dal viso del sacerdote. Ma dalla sua parte il buio era totale, e mi sentii molto a disagio per il fatto di non poterlo vedere in faccia. Poi il mio disagio aumentò ulteriormente, al pensiero che oramai erano vent'anni che non mi trovavo in un luogo simile.
"Forza figliolo, sono qui."
Quelle parole mi ridestarono dalla malinconia. Sentivo che nulla era perduto e che tutto si poteva riparare. Esordii con voce mite.
"Mi perdoni padre, perché ho molto peccato."
La voce solenne e rassicurante al di là della grata, diede il via alla confessione.
"Parla figliolo, il Signore ti ascolta."
"Ecco io…Non so da dove iniziare."
"Forza campione! Non posso rimanere ai tuoi ordini per tutta la notte. Ci sono altre centinaia di peccatori che devono prendere il tuo posto prima dell'alba!"
Il suo tono era decisamente cambiato. Ero perplesso. Mi feci forza e dissi:
"Io ho desiderato la donna d'altri. In un certo senso."
"Di un po'! Credi di essere uno sportivo?"
"Come scusi?" Risposi sbalordito.
"Sei venuto qui a farmi perdere del tempo?! L'hai desiderata o no la donna di qualcun altro?"
"Sì. Cioè, lei non è una donna d'altri. Non è sposata. Sono io quello sposato."
La voce divenne minacciosa.
"Il tuo peccato si chiama adulterio. Ed è un peccato gravissimo! Temo proprio che non si possa rimediare."
Avvicinai la faccia alla grata. Dissi:
"Ma sta scherzando? In fin dei conti l'adulterio non è così grave come il furto o l'omicidio! E io so per certo che anche quei crimini sono costantemente perdonati."
Quello alzò la voce.
"Apri bene le orecchie testa di cazzo! L'omicidio e il furto al confronto del tuo misfatto sono delle marachelle da bulletti di periferia! Sei venuto qui con l'intenzione di insegnarmi il mio mestiere per caso?!"
Ero frastornato. Dissi:
"No! Io non le voglio insegnare proprio niente!Ma di che parla?"
"Sì, sì…Dite tutti così voialtri miserabili che venite a mendicare perdono e comprensione al mio cospetto! E tu campione, con la tua faccia scaltra da cane imbastardito, non sei certo diverso dai tuoi simili!"
Stentai a credere a quelle parole così pesantemente offensive. Appiccicai il naso alla grata e urlai:
"Cosa hai detto della mia faccia?! Ripetilo se hai coraggio!"
La rabbia mi stava montando implacabilmente lungo la colonna vertebrale.
"Ho detto che hai una faccia da cane bastardo! E già che ci sei ti dirò anche che sarà meglio se ti levi dalle palle, prima che ti infili l'assoluzione su per il culo!"
A quel punto ero furioso.
"Non penserai che io sia venuto fin qui per farmi offendere, vero?! Perché se era per quello era sufficiente che mi recassi da mia suocera! Lei ci riesce benissimo a insultarmi! E molto meglio di te, prete da strapazzo!"
Non ebbi il tempo di dire o fare altro: il poderoso pugno del confessore divelse la grata che ci separava, colpendomi al volto e facendomi sbalzare violentemente fuori dal confessionale. Ero ancora steso di schiena sul pavimento impegnato a muggire come un vitello appena marchiato a fuoco, che il don mi afferrò per un piede e iniziò a trascinarmi verso l'uscita. Era stata una mazzata terrificante quella che avevo ricevuto. Di conseguenza non potei opporre la benché minima resistenza, a quell'ennesima mortificazione per il mio corpo e per il mio spirito. Nel buio della navata potevo distinguere poche cose di quell'uomo con l'abito talare. Il suo cranio per esempio. Lucido e abnorme. E la barba. Un intrico di peli arruffati che parevano essere stati sottoposti ad una deflagrazione di una bomba a mano. Mi portò sul sagrato. Ma non si limitò a lasciarmi sulla pietra bianca e fredda. Si prese anche la briga di farmi rotolare giù dagli scalini. Atterrai malamente sulla piazza. La stessa piazza che solo pochi minuti prima avevo percorso con animo colmo di speranza e di buone intenzioni. Infine il sacerdote mi scagliò un paio di anatemi mulinando le braccia, e rientrò soddisfatto nella casa del Signore. Respiravo con fatica. E di rialzarsi neanche a parlarne. Mi convinsi di avere almeno un paio di costole incrinate. Dopo qualche minuto si precipitò su di me il settimo cavalleggeri: Enzo e Ignazio. Il baffuto disse concitato:
"Abbiamo visto tutto! E allora? Almeno te l'ha data l'assoluzione?"
"Andate all'inferno!" Dissi rabbiosamente. "Quella testa di porco mi ha riempito di botte!"
Il barista si rivolse a Enzo.
"Mi sembra troppo scosso per poter parlare serenamente."
"Sì." Fece l'altro. "Anche se non capisco che motivi abbia per comportarsi così. Io per primo sono pronto ad affermare che quel sacro uomo del don, a volte, dimostri di essere un po' brusco. Ma non per questo sono pronto a giustificare il comportamento intollerabile dello straniero."
Impiegai le mie ultime energie nel tentativo di raccapezzarmi. Sia fisicamente che mentalmente. Ma non ci fu nulla da fare. Ignazio mi afferrò per le gambe, mentre il suo compare mi prese per le braccia. Riattraversammo la piazza deserta. Una volta dentro al bar, mi distesero sopra al lungo tavolo che si trovava sulla sinistra del bancone. Ignazio disse:
"Sono le due del mattino e io dovevo chiudere già da un pezzo. Comunque non preoccuparti. Ti lascio riprendere fiato. Dimmelo tu quando te la senti di andartene."
Avevo gli occhi fissi sul soffitto. L'odore di vino che emanava il tavolo mi dava la nausea. La rabbia era passata. In quel momento mi sentivo frustrato a morte. Il barista riprese il suo posto dietro il banco. Enzo si collocò su di uno sgabello. Ignazio disse:
"Dai, finisci di raccontarmi quella storia meravigliosa di prima."
Enzo si schiarì la voce.
"Vediamo, dove eravamo rimasti?" Si rispose da solo. "Ah, sì. Allora a quel punto mio nonno si alzò in piedi sulla piccola barca a remi e guardò fisso negli occhi il pescespada."
Ignazio era eccitatissimo e formulò una domanda.
"E il pesce? E il pesce cosa disse a quel punto?"
Girai la testa di scatto verso il bancone. Vedevo Enzo di spalle. Egli rispose:
"La vedi la spada che si trova sul mio muso? Questa spada di puro acciaio l'ho temprata nel sangue di voi pescatori assassini. Ed ora io ti taglierò a metà con questa preziosissima lama!"
Ignazio picchiò un pugno sul banco.
"Dannato pesce! Era pronto a dar battaglia! E tuo nonno? Tuo nonno cosa disse?"
Guardavo la schiena di Enzo con gli occhi sbarrati e la bocca aperta. Il baffuto, cambiando intonazione per far capire che il pescespada aveva un accento diverso da suo nonno, disse:
"Maledetto pesce! Se avessi saputo che dovevamo batterci avrei ingoiato molte grosse pietre, fino a riempire lo stomaco in maniera tale da poter rovinare la tua preziosissima lama!"
Mi sentii in dovere di intervenire.
"Ehi mustacchio! Ma che razza di stronzate ti stai inventando?! E si che non mi sembri ubriaco. Da quand'è che i pescispada parlano?"
Si girò verso di me. Mi rispose accigliato:
"Quello era uno degli ultimi esemplari."
Divenne improvvisamente triste, e scotendo la testa aggiunse:
"Purtroppo in giro non ce ne sono più pesci del genere."
Sembrava irrimediabilmente sconsolato.
"Devi sapere che sono passati almeno ottant'anni dal giorno in cui mio nonno Adolfo lo fronteggiò. E fatti del genere non ne sono più accaduti. Tempi eroici, quelli!"
"Che porcate!" Replicai con sdegno.
Ignazio fece la voce grossa.
"Senti straniero! Non approfittare della mia ospitalità! Non hai alcun diritto di interrompere l'esposizione di questi fatti importantissimi! Chiaro?!"
Per qualche attimo mi convinsi di trovarmi in un sogno. Le mia bocca si mosse meccanicamente.
"E dove si trovavano questi pesci parlanti?"
"Di fronte a Rimini." Rispose candidamente Enzo.
"Mio nonno, tanti anni or sono, faceva il pescatore da quelle parti."
Poi si girò verso Ignazio. E mi resi conto che non stavo affatto sognando. Il baffuto disse:
"Allora Adolfo impugnò la sua lunga fiocina e iniziò a duellare con l'enorme pescespada. Quel pesce era un vero guerriero. Egli brandiva la sua lama altrettanto lunga con una tale rapidità, che non si vedeva nulla tranne la bianca lucentezza del metallo."
Avrei voluto levarmi dal tavolo per andare a ridergli in faccia. Ma il torace mi doleva ancora troppo. Dissi:
"Piantala di dire cagate! O quel fesso che ti sta di fronte finirà per crederci!"
Enzo scese dalla sua postazione. Mi venne incontro minacciosamente. Fu rapidissimo. Mi sferrò, con la base del pugno, un colpo tremendo sul mio orecchio sinistro. Diedi sfogo al dolore senza alcun ritegno.
"Oh Dio che male! Oh Dio che male! Dio che dolore insopportabile!"
"Te la sei cercata straniero! Tu non solo metti in dubbia la mia parola. E quindi di riflesso anche la parola di mio nonno. Ma ti sei preso pure la libertà di offendere Ignazio!"
"Oh Dio, Dio che male! Oh Dio!"
Mi tenevo l'orecchio con entrambi le mani, dimenandomi sul tavolo come un'anguilla appena catturata. Il barista disse:
"Portiamolo fuori. Non voglio più vederlo dentro al mio locale! Tu Enzo hai visto tutto. L'ho accolto con umana misericordia e l'ho trattato come un fratello."
Puntò l'indice su di me.
"E lui mi ha ripagato con delle offese peggiori della morte! In casa mia! Egli ha avuto il coraggio di mordere quella mano che io avevo teso verso di lui in un gesto di fraternità!"
"Oh Dio che male! Aiutatemi. Vi prego! Portatemi al pronto soccorso. Oh Dio che dolore!"
Enzo disse:
"Qui non ci sono ospedali. C'è solo un medico che abita al di là della chiesa. Ma io dubito fortemente che ti presterà soccorso, perché lui è il fratello del don. E a quest'ora sarà già stato informato sui fatti che ti riguardano."
Io e la mia voce divenimmo molto umili.
"I fatti che mi riguardano? Cosa vuoi dire Enzo? Dimmelo ti prego. Non vedi come soffro?"
Accarezzò i baffi con molta cura. Ricordai che quello era il preludio alla sentenza.
"Tu sei fuggito dalla tua casa alla ricerca di perdono e comprensione. La provvidenza ha messo sulla tua strada il nostro don. Uomo di chiesa pio e devoto. Ha messo sulla tua strada Ignazio. Uomo timorato e amico del mondo. E ha messo sulla tua strada il sottoscritto. Uomo di mondo, e sempre pronto a sbrogliare gli intrighi del prossimo. Ma tu hai sputato malamente su tutto questo! Devi imparare l'umiltà straniero."
Il dolore all'orecchio era scemato. Esibii una faccia da pesce lesso.
"La sapete una cosa?" Dissi stringendo i denti.
"Qualche attimo fa mi sentivo umile. E io ora capisco che era un'umiltà dettata dal dolore. Tu Enzo sei da manicomio. E tu Ignazio faresti bene a spararti un colpo. E quel don del cazzo dovrebbe andare all'inferno! E adesso se volete, potete anche bastonarmi e farmi versare sangue! E quando avrete finito, farete bene a dirigetevi sulla collina più alta di questa striscia di terra schifosa a cercare un buon albero. E quando lo avrete trovato impiccatevi! E impiccatevi in alto in maniera che tutti possano vedervi!"
Mi sentii fiero di me stesso. Ero steso e indifeso su di un tavolo, ma avevo dimostrato tutto il mio coraggio. Perlomeno io ero convinto che si trattasse di coraggio.
"Usa davvero uno strano linguaggio lo straniero. Non ti sembra Ignazio?"
"Sì, è volgare come il letame! Portiamolo sulla piazza! Forse qualcuno di passaggio,vedendo tanto scempio, sarà mosso a pietà e gli darà fuoco!"
I due mi sollevarono e mi trascinarono fuori. Mi distesero sul marciapiede, e rientrarono nel locale scambiandosi congratulazioni e pacche sulle spalle. Guardai per diverse ore il cielo nero che mi separava dall'alba. Elaborai diverse strategie su come annientare quel paese e i suoi folli abitanti. Finalmente sorse il sole, e fu veramente piacevole farsi riscaldare dai suoi raggi. Le costole mi dolevano ancora, ma in compenso mi sentivo sempre più forte nello spirito. Enzo e Ignazio avevano trascorso tutta la notte dentro al bar, probabilmente a sparare cazzate su pesci parlanti. Il sole si alzava sempre più, ma non vi era alcuna traccia di persone. Iniziai a preoccuparmi. Le case recintavano la piccola piazza, e si vedeva chiaramente che erano abitazioni ben curate; sia pure molto modeste. Ma la gente dov'era? Riuscii a sollevarmi a sedere, appoggiando la schiena su di un muro. L'ansia stava per prendere il sopravvento. Che fosse una città fantasma? Poi finalmente il rimbombo dei passi di qualcuno, riuscì a spezzare quell'atmosfera da incubo. Un giovane uomo stava infatti attraversando la piazza dirigendosi verso il bar di Ignazio.
"Ehi! Signore! Mi aiuti. Ho veramente bisogno del suo aiuto."
Il giovane uomo con i capelli biondi e lunghi si avvicinò. Disse:
"Aiutarti? E perché dovrei farlo?"
Davvero una bella domanda. Me lo chiesi anch'io dentro alla mia testa ammaccata:
"Già, per quale motivo dovrebbe aiutarmi? Ho mai soccorso nessuno io?"
Quindi, dopo qualche attimo di riflessione, risposi tutto d'un fiato:
"Perché un figlio di puttana di nome Ignazio mi ha garantito che da queste parti siete ospitali e ben disposti verso chiunque. Ecco perché."
Il giovane si congelò, e i suoi occhi divennero particolarmente cattivi.
"Straniero! Dicendo Ignazio, intendi alludere al proprietario di quel bar?"
"Sì, proprio quello." Risposi intuendo vagamente di aver commesso uno sbaglio.
"Straniero! Quello che tu hai definito un figlio di puttana è mio padre!"
Chiusi gli occhi maledicendomi.
"No, no. Io non volevo dire questo."
"E cosa volevi dire allora?"
Feci ricorso a tutta la mia umiltà. Ed era genuina.
"Volevo dire che ho un disperato bisogno che qualcuno mi aiuti a salire sulla mia auto. Ho male dovunque, ma sono sicuro che riuscirò a guidare fino a casa in una maniera o nell'altra. Ecco cosa volevo dire."
Il giovane era ancora accigliato.
"È così importante per te arrivare a casa?"
Mi sciolsi in lacrime. Ancora adesso non saprei dire quanto spontanee fossero.
"Sì, è importantissimo per me. Voglio andare a casa da mia moglie. E voglio chiederle perdono per quanto le ho fatto. E voglio prometterle che non accadrà mai più. E se lei mi perdonerà e mi crederà io tornerò ad essere l'uomo più felice del mondo. Ecco perché ti supplico di aiutarmi a rialzarmi e a raggiungere la mia auto."
Tesi le mani verso di lui.
"D'accordo. Non so cosa tu abbia combinato, ma sembri veramente pentito. Però dobbiamo chiarire una cosa. Ti ho appena detto che ti aiuterò, e che possa sputarmi in faccia un cervo se non lo farò. Però, ora, dovrai convenire con me che sono autorizzato a spaccarti la faccia per quanto hai detto sul conto di mio padre! Non pensi di dovermi almeno delle scuse?"
Dentro di me non lo pensavo affatto. E di mazzate ne avevo già ricevute abbastanza per i miei gusti. Anzi, avevo proprio una gran voglia di restituirle con gli interessi. Una volta che mi fossi rimesso in salute chiaramente. Dissi:
"Sì, hai ragione. Puoi perdonarmi?"
Il biondo era estremamente soddisfatto. Mancò poco che si mettesse ad esultare in seguito alla vittoria ottenuta. Si ricompose.
"No straniero, non ti perdono. Ma ti aiuterò ugualmente per dimostrarti che quanto ha affermato Ignazio al riguardo dell'ospitalità di questo paese, è tutto vero."
"Va' al diavolo faccia da porco!" Il complimento, ovviamente, mi limitai a pensarlo.
Il biondo mi caricò sulle sue spalle senza sforzo apparente. Era più forte di un bue. Mi portò sino alla mia auto. Una volta nell'abitacolo, tra dolori atroci, mi preparai a intraprendere il lungo viaggio di ritorno. Una volta messo il motore in funzione, abbassai il finestrino laterale. Dissi:
"Qual è il tuo nome bel fusto?"
"Mio padre, in accordo col don, mi ha messo nome Ferdinando."
Ingranai la prima, mantenendo la frizione ben premuta con il piede sinistro. Con il destro mantenei il motore ben vispo. Mi stavo preparando ad una partenza a razzo. Dissi:
"Bene, volevo dirti una cosa Ferdinando. Tra i pochi abitanti che ho conosciuto di questo paese di merda, tu sei quello che più si avvicina al culo di una vacca. E puzzi anche come il culo di una vacca!"
Diedi gas e partii sgommando rabbiosamente. Trenta, quaranta, cinquanta metri. Poi il motore iniziò a tossire e a perdere clamorosamente colpi. Avevo finito il carburante. L'auto percorse altri cinquanta metri per forza d'inerzia. Ferdinando se la prese con calma. Tramite il retrovisore lo vidi avvicinarsi con passo fluido e ben disteso. Richiusi il finestrino laterale. Fui attraversato da un pensiero:
"Ora capisco cosa devono aver provato i tre porcellini quando si sono rinchiusi in una capanna di paglia. E Ferdinando ora sa sicuramente come ci si sente a fare la parte del lupo cattivo."
Bussò al mio finestrino. Avevo paura solo a guardarlo, e così mantenni lo sguardo fisso sulle miei mani che erano attanagliate sul volante.
"Ehi, straniero! Ora vado a prendermi un caffè da Ignazio. E lo metterò al corrente di quanto è accaduto tra di noi. Poi ritorneremo qui assieme, e ti daremo un assaggio della nostra ospitalità. L'ospitalità che riserviamo alla gentaglia del tuo stampo! Non andartene, eh?"
Lo vidi allontanarsi. Provai a smaterializzarmi con tutte le mie forze. Ma non ci fu nulla da fare. Ero sempre lì, in quella minuscola piazza di quel dannato paese senza nome.

 

 

Circostanze fuori del comune

Il protagonista del racconto è un rappresentante in viaggio d'affari. Avrà la sfortuna di ricercare un alloggio in un paese di cui non conosce il nome. Come conseguenza della sua scelta, sarà costretto a misurarsi con degli strani individui.

 

"Bene, allora prendo una stanza per questa notte. Le serve un documento?"
Il proprietario dell'albergo si decise a guardarmi in faccia.
"No, nessun documento. Qui è una procedura inusuale richiederlo. È la parola data, e solo quella, che conta veramente in questo paese."
Dissi:
"Davvero una prassi insolita signor Augusto. Davvero insolita. Io ho girato l'Italia in lungo e in largo, e le garantisco che nessuno si accontenta semplicemente della parola."
L'uomo puntò il moncone del suo braccio sinistro verso l'uscita e disse:
"Quel bel tipo che sta arrivando è mio fratello. Il suo nome è Germano e da questo momento si metterà al suo servizio."
Mi girai lentamente preparandomi a tendere la mano. Rimasi esterrefatto. A Germano mancava il braccio destro.
"Buonasera Augusto. Scusa per il ritardo."
Il fratello in tutta risposta levò gli occhi al cielo sbuffando. Guardai uno e poi l'altro. Fisicamente si assomigliavano molto. Erano sulla cinquantina. Facce lunghe e bianche e con mascelle cadenti. L'ultimo arrivato raccolse la mia valigia. Augusto mi appoggiò sul banco la chiave della stanza. Germano allungò il collo verso il fratello. Disse:
"Dove hai intenzione di sistemarlo?"
"Portalo nella stanza del generale."
"È una faticaccia arrivare là in cima. Perché non lo mettiamo al primo piano? Tanto l'albergo è completamente libero. Come sempre del resto."
"Sono l'unico cliente?" Dissi come riemergendo da un'apnea.
Germano agitò il suo moncherino.
"Certo. Cosa crede? Che la gente faccia a botte per venire nel nostro piccolo paese?"
Augusto a sua volta dimenò il suo di moncherino come se bruciasse, e redarguì il fratello.
"Stai perdendo del tempo prezioso! Forza! Il signore è impaziente di prendere possesso della stanza! Non ha nessuna voglia di essere infastidito dalle tue lamentele!"
Mi sentii in dovere di dire qualcosa.
"Non c'è fretta signor Augusto. Sono appena le nove di sera. E poi non sono affatto infastidito da…"
Augusto mi guardò in faccia per la seconda volta. Il suo accento divenne cupo.
"Questo, come avrà di certo notato, è un piccolo paese. Piccolo e tranquillo. I forestieri qui sono ben tollerati a patto che si mantengano entro un certo limite di discrezione. Ebbene, considerando tutto, il suo intervento difensivo a favore di Germano e da considerarsi certamente lodevole. Ma…C'è un ma. Faccia attenzione alle mie parole: io la invito vivamente a non immischiarsi nelle nostre faccende, proprio per non valicare quel limite di discrezione a cui ho appena accennato. Lei comprende quanto ho detto?"
Mi limitai ad annuire. Poi abbassai lo sguardo sul pavimento, chiedendomi se non fosse il caso di andarmene. Purtroppo la stanchezza, che avevo accumulato durante la faticosa giornata di viaggio, mi impedì di prendere una decisione così estrema. Germano mi fece cenno di seguirlo. Infilammo un corridoio a fianco della saletta di accoglienza. L'albergo doveva essere molto antico. I muri erano rivestiti di legno, e i pavimenti scricchiolavano ad ogni nostro passo. L'illuminazione era davvero scarsa e vi era una situazione di penombra costante. Affrontammo le scale. Le più ripide che avessi mai visto. Solo dopo pochi scalini fui costretto a fare i conti con il fiatone. C'erano molti dipinti posizionati a intervalli regolari lungo quel Calvario. Scene di caccia raccapriccianti e ritratti di uomini illustri. L'aria sapeva di vecchio, e forse a causa dello sforzo, fui colto da un leggero senso di nausea. Posi una mano sulla spalla di Germano che mi precedeva di qualche passo.
"Fermiamoci un istante per favore."
Rimase fermo senza voltarsi. L'incredibile silenzio che avvolgeva quella vecchia struttura mi trasmise un forte senso di disagio. Provai a porvi rimedio cercando il dialogo.
"È una mia impressione, o suo fratello è un tipo…Come dire? Alquanto scontroso?"
Speravo che si voltasse. Ma lui preferì continuare a mostrarmi la schiena. Disse:
"Vorrei evitare questo argomento, signore. Se giungesse anche solo qualche parola all'orecchio di Augusto, lo scontro sarebbe inevitabile. E questa volta non ci limiteremo di certo a strapparci un braccio l'un con l'altro. Nossignore. Questa volta sono sicuro che finirebbe davvero molto male."
Trasalii. Rimasi qualche attimo con la mente confusa. Poi esclamai:
"Strapparvi un braccio?! Ma sta scherzando?!"
"La prego di non insistere signore. Se solo dovesse sfuggirle qualche indiscrezione, che io stesso molto incautamente potrei confidarle, le assicuro…"
Lo interruppi alzando la voce.
"Ma per chi mi ha preso? Pensa davvero che mi permetterei di riferire a suo fratello quanto mi ha detto?! O quanto sta per dirmi?"
La sua schiena si irrigidì.
"Io non la conosco signore. Per quanto ne so la sua valigia potrebbe essere carica di alcolici. E lei, una volta giunto nella sua stanza, potrebbe benissimo ubriacarsi come un maiale. Con rispetto parlando."
"Con rispetto parlando?" Ripetei mentalmente.
"A quel punto per lei sarebbe davvero facile e comodo andar giù dritto sparato da Augusto, e riferirgli la nostra conversazione. Magari infarcendola pure con particolari molto coloriti, suggeriti dall'alcool da lei ingordamente ingerito. Io non ho proprio idea di che effetto abbia su di lei l'alcool. E non intendo correre rischi."
Gli posi una mano sulla spalla scotendolo. Ero incredulo e molto irritato. Dissi:
"Si volti!"
Germano mantenne la sua posizione.
"Mi ascolti bene! Ringrazi il fatto di avere un braccio solo, altrimenti l'avrei picchiata!"
"Sta tentando di impressionarmi, signore?" Rispose con voce tranquilla.
Sferrai un pugno sul corrimano. Quindi mi imposi con tutte le mie forze di mantenere la calma. Dissi:
"A questo punto sono proprio tentato di andarmene. La sa una cosa? Io sono un rappresentante di tessuti e sono sempre in viaggio. Ho soggiornato in tutti gli alberghi, in tutti i motel e in tutte le bettole della penisola, ma non sono mai stato accolto con tanta insolenza! E ora mi dica. C'è qualche altro posto dove si può dormire nei paraggi?"
"No signore. Il paese più vicino si trova a due ore di automobile."
"Maledizione! Cosa ho fatto per meritarmi tutto questo?" Conclusi sconsolato.
Fissai ancora per qualche istante la schiena di Germano. Poi in malo modo dissi:
"Avanti! Muovi il culo e portami a destinazione."
Ci rimettemmo in marcia.
Ero giunto nella minuscola piazza deserta del paese mezz'ora prima. Ero così stanco che quasi non l'avevo visto l'albergo. Visto da fuori sembrava poco più che una modesta casa stretta e alta, e solo una minuscola insegna ne indicava l'esistenza. Essa recitava pomposamente: "Hotel Internazionale." Avevo sorriso leggendola. E mi augurai di cuore che ci fosse almeno lo spazio per un letto in quella che sembrava essere una topaia. Ora che vi stavo camminando all'interno, fui costretto a ricredermi. Mi chiesi infatti di come fosse possibile che vi fossero così tante rampe, così tanti pianerottoli, e così tanti corridoi e camere. Era un fatto davvero inspiegabile.
Finalmente arrivammo sudati e ansanti di fronte ad una porta. Vi era un cartello sulla medesima. Leggendolo dissi:
"Stanza del generale? Che significa?"
Germano appoggiò la mia valigia e si deterse il sudore dalla fronte. Disse:
"Qui soggiornò un famoso generale, signore."
Entrammo. Era un caldo infernale. Anche il vecchio mobilio massacrato dalle termiti pareva sudare. Vidi una sciabola appesa in bella mostra sopra alla testiera del letto.
"Che generale?" Chiesi incuriosito.
"Il generale Custer, signore."
"Vuoi dire quello della cavalleria degli Stati Uniti?"
"Precisamente signore."
"Smettila di darmi del lei! Perché dopo quanto è successo non ha più alcun senso. E ora dimmi Germano: mi hai preso per un imbecille?"
"No signore. Non l'ho presa per un imbecille."
"Vuoi farmi credere che il generale Custer è venuto a caccia di indiani in Italia? E come non bastasse vuoi farmi anche credere che è venuto in questa catapecchia?"
I suoi occhi divennero due fessure.
"Mi sta dando del bugiardo, signore?"
Spalancò gli occhi di colpo. Scattai istintivamente all'indietro. Disse:
"Quanto le ho detto è vero! È vero come il fatto che io e mio fratello ci siamo tagliati le braccia proprio con quella sciabola! E posso garantirle che ci siamo battuti bene! E con onore! È stato un duello leale! Anche se come arma avevamo a disposizione solo quella sciabola!"
Mi aveva veramente spaventato con quello scoppio di esaltazione. Dissi:
"D'accordo, d'accordo. Questi sono fatti vostri e del generale. E io non voglio assolutamente metterci becco."
Germano abbozzò un sorriso che irradiava soddisfazione.
"Questo albergo appartiene alla nostra famiglia da innumerevoli generazioni. Il generale è stato solo uno degli innumerevoli ospiti di fama internazionale, che ha avuto l'onore di soggiornare tra queste mura."
"Sì, capisco." Risposi tentando di rabbonirlo.
I suoi occhi furono attraversati da una luce strana e intensa. Era la stessa luminosità che avevo visto da ragazzino negli occhi di mia nonna, quella volta che implorò i miei genitori di essere ibernata nel congelatore di casa. Germano era decisamente surriscaldato. Decisi di assecondarlo.
"Prima di mettermi a letto vorrei cenare. È possibile avere un pasto caldo?"
Avanzò di alcuni passi verso di me. Io indietreggiai. E lui avanzò nuovamente fino a che mi trovai con le spalle a ridosso di un grande armadio che odorava di muffa.
"Ci sono state anche molte donne famose in questo albergo!"
Parlava con vero trasporto.
"Donne bellissime! Donne eleganti e raffinate! E io ne ho amate tantissime di queste!"
"Certo." Dissi seriamente.
"Ma è possibile cenare?"
Fu come chiedere qualcosa al vento. Egli continuò con vera enfasi.
"Non è mia abitudine vantarmi, ma se il mio uccello potesse parlare le confermerebbe quanto le ho detto, e aggiungerebbe di sicuro molto altro ancora! Ho avuto delle incredibili storie d'amore con quelle donne!"
Rimasi immobile.
"Quella volta che io e Augusto ci demmo battaglia con la sciabola del generale, è stato proprio a causa di una di quelle donne bellissime."
Lui rimase con gli occhi fissi su di me e, e sapendo bene di avermi terrorizzato, allungò la mano verso il mio viso con il palmo rivolto verso il soffitto. Considerai il fatto che non era proprio il caso di rifiutargli la mancia. Era meglio non intraprendere un azzardo simile. Intascò agilmente il denaro. Varcò la soglia. Riacquistò la sua aria mite e frustrata. Disse:
"L'aspettiamo in sala da pranzo tra un'ora. Sia puntuale."
"Lo sarò." Risposi tremando nella voce e nel corpo. Finalmente la porta si chiuse. Mi stesi sul letto. Era molle e a dir poco sudicio. In circostanze normali non mi sarei assolutamente coricato su di una pattumiera simile. Ma in quel momento le mie gambe tremavano troppo e non ero proprio in grado di reggermi in piedi.
"Domani farò un'antitetanica. E anche un'antitifica." Pensai per farmi coraggio.
Tentai di capire quando e come la situazione si fosse ribaltata a mio sfavore. Non riuscivo a capacitarmene. Di gente strana, con il mio lavoro, me ne era capitata tra i piedi veramente molta. Ero convinto di essermi temprato nel corso degli anni: infatti avevo superato brillantemente situazioni ben peggiori. Ma quel diabolico monco era riuscito a mettermi al tappeto in un solo round, facendomi perdere quella sicurezza da venditore che riuscivo ad ostentare sempre con estrema facilità. Il caldo era opprimente. Mi decisi ad aprire la finestra. Scoprii così con sorpresa che era murata. Trascorsi sessanta interminabili minuti, osservando le travi del soffitto immerso in un silenzio insopportabile.
"Forza, coraggio. Andiamo giù a mangiare." Dissi a bassa voce.
Iniziai a ridiscendere le scale ripide e scricchiolanti. Il percorso, nonostante fosse in discesa, pareva molto più lungo e addirittura più faticoso di quello che avevo affrontato solo un'ora prima.
"Forse è la stanchezza." Dissi tra di me.
Poi mi arrestai di colpo. Qualcosa non quadrava. Fui addirittura colto dal sospetto che fosse un'altra scala.
"Maledizione! I quadri! Non ci sono più i quadri!" Mormorai inquieto.
Udii il rumore dei passi di qualcuno più in basso.
"C'è qualcuno?" Chiesi timidamente.
"Sono Augusto, signore." Giunse in risposta dal basso.
"Mancano i quadri." Dissi con voce strozzata.
Poi mi sporsi oltre il corrimano per tentare di individuarlo. Ma la luce era troppo modesta per poter distinguere qualcosa.
"Probabilmente sono stati rubati, signore."
"Rubati? Sta scherzando?"
"No, signore. Anzi, questo è un fatto che accade molto spesso."
Rimasi alcuni istanti come sospeso.
"Cosa faccio? Scendo?" Dissi scrutando l'oscurità sottostante.
"Sì, scenda. Io credo che oramai non ci sia più alcun pericolo."
"Pericolo? Che genere di pericolo?" Chiesi allarmato.
"I ladri, signore. Oramai hanno fatto man bassa e di sicuro se ne saranno andati. Scenda. L'aspetto in sala da pranzo."
"Mi aspetti signor Augusto. Sto scendendo."
Non mi giunse alcuna risposta. Scesi di corsa. Una corsa lunghissima, alla fine della quale non trovai alcuna traccia dell'albergatore.
"Almeno sono al piano terra tutto intero." Pensai infilando la porta a fianco della sala di accettazione.
Mi ritrovai in sala da pranzo. Tre enormi lampadari emanavano una luce accecante. Il locale era rettangolare e basso. Potevo toccare il soffitto alzando semplicemente un braccio. Vi erano almeno venti tavoli accuratamente apparecchiati e grandi macchie scure di muffa sulle pareti. "Signor Augusto?"
Augusto entrò da una porta laterale che non avevo visto.
"Ero in cucina. Si sieda in quel tavolo."
"Aspettate altri ospiti per questa sera?"
"No. Ordino sempre a mio fratello di apparecchiare molti tavoli. È un buon modo per tenerlo occupato. Ora comunque ha staccato il suo turno di servizio."
Presi posizione nel posto assegnatomi.
"Vuole dire che suo fratello è andato via?" Dissi con sollievo.
"Sì, era molto, molto stanco. Mi occuperò io di lei."
Mi sentii molto più rilassato. Dissi:
"Mi perdoni la domanda, anche se le sembrerà un po' stupida. Davvero sono stati i ladri a portar via i quadri?"
"Le porto un antipasto signore?"
Osservai i bottoni dorati della sua giacca di un bianco impeccabile.
"Ma io le avevo chiesto…Sì, vada per l'antipasto."
Girò i tacchi e si avviò in cucina. Pensai:
"Che manicomio questo posto!"
Augusto mi servì delle fette di pane lunghe e sottili accompagnate da prosciutto. Si distanziò di un paio di metri dal tavolo, e si mise ritto come una sentinella di fronte a me. Guardai le pietanze. Dissi:
"Questo pane è raffermo. E il prosciutto è rancido."
"Non è di suo gradimento, signore?"
Sbuffai.
"No per Dio! Come potrebbe esserlo?"
Augusto raccolse i piatti. Disse:
"Passiamo al primo?"
Non attese una mia risposta.
"Abbiamo dell'ottimo riso questa sera."
Scossi la testa.
"Voglio essere sincero. Io odio il riso."
Augusto divenne molto serio.
"Lo supponevo, signore."
"Davvero? Perché lo supponeva?"
"M'intendo di psicanalisi, signore. Mio padre mi ha iniziato a quella nobile arte."
"Suo padre era uno psicologo?"
"No, lui gestiva questo albergo. Mio padre è stato iniziato da mio nonno."
"Allora suo nonno era uno psicologo?"
"No, anche lui gestiva questo albergo. Ma qui, tanti anni fa, veniva a soggiornare abitualmente un famosissimo psicanalista. Ebbene, quel genio di fama mondiale non pagava il conto con il vile denaro, ma bensì con delle interessantissime lezioni di psicoanalisi. E il mio caro nonno fece tesoro di tutti quegli insegnamenti."
Ridacchiai nervosamente. Dissi:
"Ora mi verrà a dire che quel famoso ospite era Freud. Vero signor Augusto?"
"Certo. Glielo ha detto forse mio fratello?"
Distolsi lo sguardo da quell'uomo, e lo appoggiai sulle mie mani.
"Oltre al riso, c'è dell'altro?"
"No, signore. Solo riso."
"Cosa c'è di secondo?"
"Braciola di porco. E patate."
Valutai la parola porco.
"Va bene. La braciola va bene."
"Devo andarmene al più presto." Pensai sorridendo.
Comunque Augusto non mi aveva messo in soggezione come Germano, e mi sentivo decisamente più a mio agio. La braciola e il contorno erano di fronte a me, assieme a un litro di vino rosso. Augusto si ricollocò di fronte al tavolo. La braciola era bruciacchiata. Non reclamai. Dissi a me stesso che evidentemente non si poteva pretendere di meglio in un posto del genere. Era decisamente imbarazzante mangiare con gli occhi di Augusto incollati addosso. Pareva un morto in piedi. Pensai di fare un po' di conversazione tra un boccone e l'altro. Almeno così, pensai, ascoltando la sua voce mi sarei sentito meno a disagio.
"Senta. Se dopo mangiato mi venisse voglia di fare quattro passi, dove potrei andare?"
"Il paese è tutto raccolto intorno alla piazza, signore. Ci sono solo due posti dove può recarsi: al bar da Ignazio, oppure in chiesa. Ma tenga presente che Ignazio non tiene mai aperto fino a tardi."
Deglutii un grosso boccone di carne. Dissi:
"Perché la chiesa rimane aperta fino a tardi?"
"Sì, il nostro don la tiene aperta tutta la notte."
"Interessante." Risposi fingendo interesse.
Guardai l'orologio. Erano le undici e mi pareva, tutto sommato, di controllare la situazione magnificamente.
"Senta, devo aver sbagliato qualche incrocio quando ero sulla statale alcune ore fa. E sono ancora piuttosto confuso. Non ho capito in che paese sono arrivato…Consultando la cartina geografica non risulta esserci nessun centro abitato da queste parti. E inoltre, fuori da questo paese non ho visto nessun cartello stradale che indichi il nome di questo posto. Come si spiega?"
Augusto roteò il suo moncherino. Disse:
"È semplice. Non ha visto nessun cartello con su scritto il nome del paese, perché non c'è nessun cartello con su scritto il nome del paese."
"Ha voglia di scherzare? Deve esserci un cartello con il nome del paese."
Augusto mosse un passo verso di me.
"E io le dico che non c'è nessun cartello."
Diedi un leggero pugno sul tavolo. Dissi:
"Ma non è possibile. Tutti i paesi grandi o piccoli che siano, devono avere un cartello che ne indichi il nome."
Mosse un altro passo verso di me.
"E io le ripeto che qui non c'è nessun cartello del cazzo in cui sia indicato il nome di questo paese!"
Aveva cambiato tono. Somigliava quello di suo fratello Germano.
"Oh no! Deve essere un vizio di famiglia!" Pensai atterrito.
Quindi tentai di riaggiustare la situazione.
"D'accordo. Qui non c'è alcun cartello. Ma può almeno dirmi come si chiama questo paese?"
"No, signore. Non posso."
"Perché?" Mi feci sfuggire dalla bocca.
"Perché quando lei tornerà a casa sua lo potrebbe dire ai suoi amici, e in men che non si dica qui ci ritroveremo invasi dagli stranieri. Ecco perché non posso dirglielo!"
"Giusto." Dissi osservando il suo unico braccio.
Anche i suoi occhi stavano cambiando luce, proprio come era accaduto a Germano. Decisi di distoglierlo da quella questione che pareva averlo infastidito oltre misura. Dissi:
"È stato…È stato un incidente? Al suo braccio voglio dire. Sono indiscreto a chiederglielo?"
La sua faccia divenne ancor più lunga di quello che già era. Mi resi conto che non avrei potuto scegliere argomento peggiore. Soprattutto se considerato che era stato proprio uno dei motivi che aveva fatto andar fuori di testa suo fratello.
"Sì, lei è molto indiscreto."
"Mi scusi." Mi affrettai ad aggiungere.
"Volevo solo scambiare qualche parola."
"Già, lo supponevo infatti." Disse Augusto.
Stavo nuovamente scivolando verso una posizione d'inferiorità. Si guardò il moncherino. Disse:
"É stato in guerra. Ho ricevuto un'importante onorificenza militare per questo."
"Dannato cacciaballe!" Pensai innervosito.
Non riuscii a resistere alla tentazione.
"Ma come? Abbia pazienza. Lei durante la seconda guerra era sì e no un bambino in fasce esattamente come lo ero io."
I suoi occhi brillarono. Brillavano più dei suoi bottoni dorati, che facevano bella mostra su quel petto che si stava gonfiando di rabbia.
"E chi ha parlato della seconda guerra?!"
Lasciai cadere la forchetta sul piatto. Dissi:
"Ma allora a quale guerra si riferisce?"
Lui di rimando:
"Lei è sempre così maledettamente curioso?!"
Era evidente che dovevo rallentare. Dissi:
"No, non sono curioso. Glielo avevo detto che volevo solo scambiare qualche parola."
Oramai era a ridosso del tavolo. Capivo chiaramente che tratteneva la collera a stento. Disse:
"E io glielo avevo detto che gli stranieri sono pregati di mantenersi entro i limiti della discrezione! O no?!"
Risposi:
"Sì, lei me lo aveva detto. Era stato chiaro."
Piantò le nocche della sua grande mano sul tavolo.
"E perché allora continua a oltrepassare quel limite?"
Dissi:
"Io…Io non lo so."
Lui continuò la sua carica.
"Glielo dico io il perché! Per una mancanza cronica di disciplina! Ecco perché!"
"Sì, deve essere per quel motivo." Risposi fissando i suoi bottoni dorati.
Mi allungai incredulo verso il centro della tavola: i bottoni riportavano le insegne del settimo cavalleggeri.
"E adesso?" Dissi con un filo di voce.
"E adesso, se vuole farmi ritornare di buon umore, mi chieda perdono per la sua insolenza. Subito!"
La mia paura cresceva unitamente alla rabbia. Una combinazione di sentimenti che non avevo mai provato prima. E che non avevo idea di dove potesse condurmi. Mi alzai in piedi. E feci alzare in piedi anche tutto il mio coraggio. Per qualche istante prevalse la rabbia. In quel frangente feci una scelta precisa: decisi che non mi sarei fatto mettere i piedi in testa un'altra volta. Mi avvicinai all'uomo senza braccio. Usai un tono umile. Non volevo insospettirlo.
"Mi dica Augusto: c'è qualche formula particolare con la quale desidera che le presenti le mie scuse?"
Si comportò esattamente come mi aspettavo: ghignò felice dondolandosi sui piedi, per la vittoria ottenuta. Disse:
"Mi piacerebbe vederla in ginocchio."
Gli mollai una sberla così forte che lo scaraventai a terra.
"Bastardo di un monco!"
Era steso su un fianco. Singhiozzava dicendo:
"Vigliacco, vigliacco. Prendersela con un disabile è da codardi. Ti senti un grand'uomo ora che mi hai picchiato?"
"Non farla tanto lunga! Ti ho dato quello che meritavi!" Dissi con voce ferma.
Però in realtà, scaricata la rabbia, non mi sentivo molto fiero di ciò che avevo fatto. Mi diressi verso la sala di accettazione. Mi voltai un'ultima volta a guardarlo. Lui era là sul pavimento e continuava a piagnucolare. Varcai la porta con l'intenzione di andare a prendere la mia valigia e andarmene. Presi il corridoio che conduceva ai piani superiori. Nella penombra vidi un bambino che stava venendo nella mia direzione. Era di spalle e trascinava una grossa valigia dalla forma inequivocabile: era la mia valigia.
"Ehi! Ragazzino! Metti giù quella valigia."
Quello si voltò. Lo osservai bene e mi corressi.
"Dannato nano! Metti giù quella valigia!"
Lui rimase ancorato al mio bagaglio. Disse:
"Io eseguo solo degli ordini."
Lo afferrai per le braccia.
"Gli ordini di chi?"
"Gli ordini del signor Germano. Mi lasci! Mi sta facendo male!"
Strinsi le mie mani ancora più forte.
"Dov'è quel monco maledetto?!"
Il nano soffriva. La sua faccia non lasciava dubbi in proposito.
"Il signor Germano è fuori che mi aspetta sul furgone."
"Mollala!" Dissi rabbiosamente.
"No! Il signor Germano mi punirà severamente se non esco con la refurtiva!"
Strinsi le sue braccia così forte che mi fecero male le mani.
"La refurtiva?! Razza di bastardi!"
Ero inferocito. Sollevai nano e valigia insieme e mi avviai verso l'uscita. Il furgone era posteggiato ad una ventina di metri dall'albergo. La piazza, tanto per cambiare, era vuota. Il nano si mise a strillare.
"Signor Germano! Signor Germano! Mi aiuti la prego! Lo straniero vuole farmi del male!"
Germano scese dall'abitacolo. Pareva tranquillo. Disse:
"Alvaro, lascia pure la valigia del signore. Finisci di caricare i quadri piuttosto."
Finalmente il nano mollò la presa e si mise in disparte. Gridai con tutto il fiato:
"Ma che diavolo state combinando!? Voglio delle spiegazioni!"
Germano mi venne incontro. Si fermò a un paio di metri e disse:
"Non credo di dovergliene, signore."
"Io penso proprio di sì invece!" Replicai rabbiosamente.
"Visto che questo schifoso nano stava per fregarmi la valigia!"
Alvaro fu percorso da un fremito. Molto coraggiosamente si posizionò di fronte a me. Mi arrivava appena alla cintola. Disse:
"Ritira quello che hai detto!"
Lo guardai in faccia. Caricai la mia voce con tutto il disprezzo possibile.
"Stammi a sentire nano di merda! Ho appena finito di picchiare quel monco del cazzo là dentro! Levati di torno o ti do una ginocchiata in faccia che ti faccio uscire il naso dal culo!"
Alvaro mi afferrò per le natiche, e mi sferrò con la testa un colpo tremendo ai genitali. Caddi piegato in due dal dolore. E dalla vergogna. Era stato piuttosto umiliante farsi prendere a testate nelle palle da un nano. Il piccoletto mi saltellava attorno fintando di sinistro e di destro, con scarti improvvisi del busto e incitandomi a rialzarmi.
"Fermo Alvaro! Basta così! Ti ho detto di caricare i quadri sul furgone!" Disse perentorio Germano.
"Vuoi forse farmi arrabbiare?! Vuoi costringermi a riportarti al circo dal quale sei fuggito? Eh?!"
"No signor Germano. Farò quanto mi ha ordinato. Ma non si arrabbi, la prego."
Il monco portò i piedi vicino alla mia faccia. Disse:
"Si alzi, e si comporti da uomo una buona volta."
Provavo ancora molto dolore, là steso sull'asfalto. Dissi:
"Che vuol dire? Che significa?"
"Cosa significa? Glielo spiego subito. Lei stesso ha detto di aver picchiato mio fratello. E non ancora soddisfatto voleva picchiare anche Alvaro. Non si vergogna? Perché non se la prende con quelli della sua taglia?"
Risposi:
"Augusto si stava comportando veramente male. E quel tipo, Alvaro, voleva fregarmi la valigia. Avevano entrambi bisogno di una bella lezione. E anche tu ne meriteresti una."
Mi tese il braccio. Lo afferrai e mi rialzai in piedi. Il monco mi guardò negli occhi. Disse:
"Prenda la sua auto e se ne vada. Non c'è alcun motivo per il quale deva rimanere."
"Sì, sì me ne andrò immediatamente. Però, prima, mi devi delle spiegazioni su quella storia dei quadri. Credo di averne diritto."
Mosse un paio di passi.
"Lei è un osso duro, eh? D'accordo. E per via dell'assicurazione. Lei è un uomo d'affari. Capisce di cosa parlo, vero?"
"Vuoi dire che frodate le assicurazioni? Inscenate dei furti a questo scopo?"
"Frodare è una brutta parola." Fece lui di rimando. "Io preferisco dire che usiamo qualche piccolo trucco per mandare avanti l'albergo."
"Bel modo di tirare avanti!" Ribattei. "Fregando le assicurazioni e derubando i malcapitati che hanno la sfortuna di passare di qui. Davvero molto elegante. Complimenti!"
I suoi occhi divennero due feritoie. Sapevo per esperienza che si sarebbero spalancati all'improvviso.
"Maledizione! Un'altra volta!" Pensai. "Eccolo che rincomincia!"
"Una volta non eravamo costretti a questi sotterfugi! Una volta questo hotel pullulava di clienti facoltosi pronti a spendere a piene mani i loro denari! Uomini e donne straordinari!"
Mi affrettai a gettare acqua sul fuoco.
"Lo so. Lo so. Prima mi aveva già accennato questo discorso."
"Lei non mi crede, vero?"
"Sì, le credo. Ora voglio solamente andarmene." Risposi rispettosamente.
Udii Alvaro ridacchiare. Mi voltai e lo vidi sull'ingresso assieme ad Augusto. Parlottavano tra di loro. Nonostante la scarsa luce notai che il piccoletto era tutto sporco. Germano mi richiamò.
"Sarà meglio che vada."
Pareva più tranquillo. Dissi:
"E così è tutto sistemato. Non è vero? Ti senti con la coscienza a posto. Non è così?"
"No, ora non mi sento affatto la coscienza a posto. Ma tra un paio d'ore andrò là. La vede? Quella è la nostra chiesa. Mi confesserò e il don mi darà l'assoluzione. Allora, e solo allora, la mia coscienza sarà a posto."
Dissi:
"Ora si spiega perché la chiesa è aperta tutta la notte. Il vostro prete è costretto a fare gli straordinari." Conclusi mestamente.
"La pensi come meglio crede." Concluse Germano.
Augusto nel frattempo aveva sprangato la porta dell'albergo ed era salito sul furgone assieme al nano. Anche Germano li raggiunse. Rimasi lì a guardarli pensando:
"Cazzo! E adesso chi guida tra quei tre disgraziati?"
Germano si portò al posto di guida. Alvaro si sedette sulle sue ginocchia. Lui teneva il volante e il cambio, mentre il monco usava i pedali. Partirono. La mia auto fino a quel momento era rimasta nascosta dalla sagoma del furgone. Ora la vedevo bene, e capii per quale motivo alcuni minuti prima il nano era divenuto tutto sporco e ridacchiava assieme al monco che avevo schiaffeggiato. Il tappo, infatti, era stato lestissimo: gli erano bastati solo pochi istanti per fregarmi le ruote.

 

 

Caccia grossa

Due cognati sperimentano le emozioni di un safari. La loro eccentrica guida farà in modo che l'esperienza diventi qualcosa di indimenticabile.

 

"Pachiderma del cazzo! Questa non ci voleva! Non ci voleva proprio!"
Le imprecazioni della nostra guida parevano arrivare da molto lontano. Io e Giulio, mio cognato, ci eravamo assopiti sui sedili posteriori della jeep. Eravamo fermi e domandai allarmato:
"Che succede?! C'è qualche pericolo?"
L'uomo al volante sferrò un pugno sul cruscotto.
"Ma siete ciechi? Non lo vedete?!"
Si passò una mano sulla pelata sudaticcia. Disse:
"Ma guardate un po' dove ha deciso di farsi un pisolino quel grosso imbecille!"
L'elefante era steso di traverso sulla strada. Solo trenta metri ci separavano dal grande animale. Ci mostrava la sua enorme schiena. Un vero e proprio muro di carne grigia e infangata. Scendemmo dall'auto imbracciando i fucili. Fummo sottoposti al solito fastidioso attacco da parte di mosche e insetti delle specie più varie. Capo Bianco, così voleva essere chiamata la nostra guida, si avviò con passo deciso verso l'ostacolo dicendo:
"Niente paura. So io come trattare questi cialtroni!"
Giulio mi afferrò una spalla e, con tono molto preoccupato, si avvicinò al mio orecchio. Disse:
"Non si sarà messo in testa di fare incazzare quel bestione, spero?!"
Risposi con accento tranquillizzante:
"È la prima volta che vedo un elefante così da vicino. Ma quello mi sembra morto. Credo che non ci sia alcun pericolo."
Giulio mi strattonò facendomi male.
"Ma come puoi dire che è morto? La guida ha detto che sta dormendo!"
Mi divincolai dalla sua presa e a bassa voce dissi:
"Sono tre giorni che andiamo a spasso con quel demente. Ma non ti sei reso conto che non fa altro che sparare cazzate?"
Capo Bianco alzò il calcio del fucile e percosse con violenza il sedere del pachiderma gridando:
"Avanti brutto stronzo! Muovi questo culo puzzolente e vai a dormire da qualche altra parte!"
Giulio mi trascinò dietro al fuoristrada. Puntò il fucile sulla massa grigia. Io lo imitai. Eravamo tesi e con il fiato corto. La guida si voltò verso di noi.
"Abbassate i cannoni per Dio! E venite qui a darmi una mano!"
Giulio ricercò i miei occhi. Era terrorizzato. Dissi:
"Devi star calmo. Sta solo cercando di impressionarci. È un buono a nulla e non sa fare altro."
L'altro ci richiamò a gran voce.
"Allora?! Devo far tutto da solo?!"
"Una mano a far cosa?" Disse mio cognato con voce strozzata.
"A smuoverlo dalla strada per Dio! Avanti, venite qui a sollevargli una gamba in maniera che io possa dargli un calcio sulle palle. Vi garantisco che partirà come un razzo!"
Rimisi la sicura sul fucile. Dissi:
"La pianti Capo Bianco. Non vorrà sul serio che noi…E poi si vede chiaramente che quella bestia è morta stecchita! Lei non si sarebbe mai avvicinato a quel gigante se fosse stato ancora vivo."
I suoi occhi erano lontani, ma li vidi ugualmente divenire cattivi. Mi rispose con voce alterata.
"Ah sì?! Se siete sicuri che è morto, per quale motivo ve ne state dietro alla jeep a cagarvi addosso?"
Giulio di rimando:
"Io non ho detto che è morto. E poi non mi sto affatto cagando addosso!"
"Stai zitto tu!" Urlò Capo Bianco.
"Sto parlando con l'esperto di elefanti morti!"
La sua testa luccicava come un faro sotto il sole africano di mezzogiorno. Ritornò alla carica.
"Allora signor esperto? Vuoi spiegare a questo idiota che fa la guida da vent'anni, e dico vent'anni, da cosa deduci che questa bestia è trapassata?"
"La pianti di darsi arie da super uomo Capo Bianco!"
Poi aggiunsi:
"Sono tre giorni che ci mena per il naso. Sono tre giorni che la paghiamo, e tutto quello che abbiamo visto è stata un'orma che lei ci ha spacciato per una traccia di leone!"
In tutta risposta gettò il fucile per terra. Si rivolse a mio cognato.
"Avanti piccoletto! Vieni qui. Cambiamo tecnica."
Giulio serrò le mascelle. Non gli piaceva essere chiamato piccoletto. Capo Bianco afferrò la proboscide del bestione e disse:
"Dai maledizione!Vieni ad aiutarmi a trascinarlo a lato della strada."
Bisbigliai nell'orecchio di Giulio.
"Deve aver preso un colpo di sole. Saliamo in macchina e torniamo indietro prima che diventi pericoloso."
Giulio parve non sentirmi. Disse:
"Senta Capo Bianco: non possiamo passare a lato della bestia?"
"È da non credere!" Rispose mollando la proboscide.
"Come pensi di passare attraverso il terreno circostante? Apri gli occhi per Dio! Ci servirebbe un carro armato!"
Portò la sua schiena a ridosso di quella dell'elefante. Disse:
"Adesso ascoltatemi attentamente. O si passa per questa pista del cazzo che i selvaggi della zona chiamano strada, o si torna indietro. Uscire anche solamente di mezzo metro da questa pista significa solo una cosa: impantanarsi e rimanere a piedi. E qui non c'è niente nel raggio di cento chilometri. Niente di niente. Solo melma, negri, e cannibali! È chiaro il concetto?"
"Cannibali? Che cazzo significa cannibali? Io non ho mai sentito dire…"
"Piantala Giulio!" Dissi irritato.
Mossi qualche passo avanti. Dissi:
"Torniamo indietro. Ci riporti all'agenzia. Là pretenderemo un'altra guida. I soldi che abbiamo depositato erano buoni. E di conseguenza dovranno darci una guida buona!"
Quello disse qualcosa a bassa voce. Intuii che non dovevano essere di certo dei complimenti. Poi ci venne incontro.
"Be' i soldi sono vostri. Se vi va di sprecare tempo e denaro…fate un po' come vi pare."
Giulio disse:
"Certo che facciamo come ci pare. Abbiamo altri dieci giorni a disposizione e possiamo ancora recuperare il tempo perduto."
La guida si asciugò il cranio con uno straccio unto. Disse:
"Io sono il migliore da queste parti. Datemi retta. Sono italiano come voi. E lo sanno tutti che gli italiani sono i migliori in questo mestiere. Ho il coraggio e l'esperienza e l'astuzia necessaria. Solo con il sottoscritto è possibile portare a termine una caccia grossa che sia degna di tal nome."
Era di fronte a noi. Usai un tono ironico.
"Nessuno qui mette in dubbio le sue qualità. Ce ne ha appena dato una dimostrazione. Lei ha veramente coraggio da vendere. Afferrare un elefante per il naso non è cosa da tutti."
Capo Bianco sorrise nervosamente. Disse:
"Sei un tipo davvero divertente grassone."
"Non sono grasso." Replicai a denti stretti.
"E io non sono un imbecille." Fece lui di rimando.
Guardai per aria.
"Capo Bianco. Io non ho detto che lei è un imbecille. Ho solo detto che voglio un'altra guida."
I suoi occhi scuri si fissarono sul mio naso.
"Non mi hai mai detto in faccia quello che pensi solo perché non hai il coraggio di farlo. Vero?" Disse molto seriamente.
Molto saggiamente evitai di ribattere. Quello si distanziò di un paio di passi e disse:
"Bene, ora che tutto è stato chiarito possiamo ritornare indietro. Anche se questo comporterà una perdita di prestigio notevole da parte mia."
Giulio era molto più tranquillo. La sua voce era di nuovo normale.
"Perdita di prestigio? Che vuol dire?"
Capo Bianco afferrò la sua borraccia.
"Voglio dire che nel momento in cui un cliente mi protesta, io ci faccio una figura di merda con l'agenzia. Spero che non mi licenzino."
Poi aggiunse mestamente:
"Purtroppo anche questo fa parte del mestiere."
All'improvviso sembrò divenire un uomo mite. Pensai che questo cambiamento fosse dovuto all'inaspettato esonero che aveva appena subito. Infatti ora non doveva dimostrarci più niente. Non doveva venderci la sua immagine da duro cacciatore sempre pronto ad affrontare pericoli e insidie. Presunti o reali che fossero. Non era più costretto a venderci emozioni; intendo dire quelle emozioni che il turista è disposto a pagare a peso d'oro. Dissi:
"È la prima volta che un cliente espone dei reclami nei suoi confronti?"
Prese il suo cappello dal sedile anteriore e iniziò a farsi aria. Era una figura triste. Quasi quasi preferivo il suo atteggiamento da super uomo di qualche minuto prima. Disse:
"No, mi è successo anche l'anno scorso. Un deficiente di olandese si è sparato in un piede e poi ha incolpato me. Diceva che lo avevo messo in soggezione e altre stronzate del genere."
"Be', sarà meglio tornare indietro." Disse Giulio.
Guardai la faccia larga e brutta di Capo Bianco.
"Non ne abbia a male. Come dire? Niente di personale. Capisce cosa intendo?"
La sua reazione mi spiazzò.
"Certo che capisco per Dio! Due mocciosi viziati vengono qui a giocare ai grandi cacciatori, ed essendo due mammole frustrate se la prendono con la guida! È un fatto che succede in continuazione! Te l'ho detto anche prima. Non sono un imbecille. Le capisco le cose."
"Lei è davvero insolente Capo Bianco." Dissi.
Poi continuai:
" Lei aveva appena gettato la maschera. E non c'era alcun motivo perché se la rimettesse per continuare con la sua farsa. L'abbiamo licenziata! Ricorda?"
"Maschera?" Disse lui.
"Di che stracazzo di maschera parli?"
Non sapevo se rispondergli. Intervenne Giulio.
"Senta Capo! Non siamo due mocciosi alla ricerca di avventure. Siamo due uomini di oltre quarant'anni! E abbiamo un mucchio di responsabilità a casa! Abbiamo un'azienda con oltre duecento operai. Io e mio cognato siamo due uomini d'affari con un'unica passione. La caccia appunto. E possiamo permetterci solo pochi giorni all'anno a causa dei nostri impegni. E inoltre le dirò anche che siamo due ottimi cacciatori. Vada un po' a chiedere in giro dalle nostre parti. Lei non ha idea dei caprioli e dei camosci e…"
Capo Bianco alzò la voce.
"Basta così per Dio! Ho letto in agenzia tutto ciò che riguarda voi due. L'azienda non è vostra. È di vostro suocero. E la vostra fortuna è stata quella di accalappiare le sue due pollastrelle. Altro che storie!"
"Adesso la pianti!" Gridai.
"E ci riporti indietro facendo la cosa che le riesce meglio! E cioè tenere la bocca chiusa!"
Si collocò al posto di guida. Disse:
"Forza salite in macchina. E durante il viaggio continuate a fare quello che avete sempre fatto."
Giulio cadde nella trappola del cacciatore.
"E cioè?"
"Continuate a dormire come ghiri! E soprattutto evitate di rompermi le palle!" Rispose compiaciuto.
Riprendemmo la via del ritorno. Giulio si rimise subito a sonnecchiare. Io osservavo gli spazi ampi senza fine e sconnessi che ci circondavano. Vi era stato un anticipo delle grandi piogge in quei giorni. E quella parte di Africa era molto diversa da come me l'aspettavo. Alle televisione l'avevo vista diversa. E l'avevo considerata una terra secca e solida e ricca di prede. Ma la realtà era differente. Era una realtà melmosa e apparentemente senza forme di vita. Niente animali. Se si escludeva l'elefante steso sulla strada. Niente uomini neri nei loro variopinti costumi. Solo una jeep con a bordo tre individui probabilmente fuori posto. E comunque, di sicuro, stanchi e spazientiti. La monotonia del paesaggio fece depositare il mio pensiero sulla mia casa tanto lontana, e sui mille problemi che avrei dovuto affrontare da lì a poco. La crisi petrolifera di quegli anni settanta ci aveva creato non pochi dissesti. Io e Giulio sapevamo che avremmo dovuto ridurre il personale dell'azienda almeno della metà, in maniera da poter consentire alla stessa di sopravvivere. Sapevamo che probabilmente molto presto avremmo dovuto rinunciare a molto di più che alla semplice passione per la caccia.
Da ovest giungevano veloci delle grandi nubi, e il cielo, che per tutta la mattinata era stato di un azzurro scacciapensieri, ora si incupiva di pari passo con il mio stato d'animo. Alla fine mi addormentai. Ripresi conoscenza nel momento in cui il fuoristrada rallentò bruscamente sino a fermarsi. Portai istintivamente lo sguardo sul mio orologio da polso. Erano le quattro di pomeriggio. E nonostante gli ammassi di nuvole che ci proteggevano dal sole, il caldo era ancora asfissiante. Precedentemente avevo fatto conto che saremmo rientrati al campo base non prima delle otto di sera. Dissi:
"Be', che succede ora?"
Capo Bianco si voltò verso di noi. Disse:
"Succede che alla nostra sinistra non dovrebbero esserci delle colline."
La voce che fuoriuscì dalla bocca di Giulio non era quella di un uomo tranquillo.
"Vuole dire, vuole dire che ci siamo persi?"
"Sì, potrebbe anche essere." Rispose la guida senza dar peso alla questione.
"Magnifico!" Esclamai.
"Davvero magnifico! E prima ha avuto anche il coraggio di incazzarsi perché lo abbiamo licenziato! Porca puttana! E adesso?"
Non mi rispose e scese dal fuoristrada. Io e Giulio lo seguimmo a ruota. Capo Bianco mise mano al binocolo.
"E allora? Cosa sta guardando? Se ci sono uccelli per aria?" Disse concitato Giulio.
L'altro rispose:
"C'è un filo di fumo laggiù. Saranno sicuramente dei Masai. Vado a dare un'occhiata. Voi rimanete di guardia alla jeep."
Mi portai al suo fianco.
"Senta, andrà un'altra volta a socializzare con gli indigeni. Ora deve riportarci indietro."
Si voltò dalla mia parte osservandomi con i binocoli.
"Così sembri ancora più grasso." Disse con tono esilarante.
"La pianti di fare il buffone! Ci ha già divertiti abbastanza con la storia dell'elefante! Ora deve riportarci al campo base!"
Mi girò le spalle e disse:
"Hai fretta di ritornare a casa? Devi forse correre in borsa a speculare sulle spalle della povera gente?"
"Ci riporti indietro!" Gridò Giulio.
Il pelato gettò il binocolo a terra. La sua era una faccia cattiva.
"Vedete forse il duomo?!"
"Cosa?" Rispondemmo all'unisono.
"Qui non siamo a Milano, bambocci! Qui siamo nella merda! E non sarà certo frignando e lanciando squittii di aiuto che ne usciremo! Tutti i vostri soldi e tutta la vostra arroganza qui non servono a un bel cazzo!"
"Sbruffone!" Dissi a denti stretti.
Rimase qualche attimo come sospeso. Poi la sua faccia si distese. Solo i suoi occhi erano ancora cattivi.
"Adesso vado laggiù a chiedere qualche informazione. Punto e basta."
"Laggiù dove?" Chiese Giulio.
"Dove ho visto il fumo." Rispose Capo Bianco.
"E non possiamo andarci con la jeep?" Chiese ancora mio cognato.
"Oh cazzo!" Ribatté il pelato.
"Ti decidi ad aprire gli occhi? La vedi la vegetazione? E il terreno? È tutta melma, rocce e buche!"
"E questa è una jeep!" Dissi con accento di sfida.
Capo Bianco scosse la testa. Poi sollevò il mento e annusò l'aria. Disse:
"Chiudetevi dentro. C'è aria di rinoceronte. Sissignori! Un rinoceronte grosso e cazzuto!"
Giulio mi strattonò per un braccio interrogandomi con una certa apprensione.
"Ehi! Non starà dicendo sul serio, vero?"
Il pelato rise di gusto.
"Che due cacciatori coraggiosi. Proprio due veri uomini della giungla."
Riprese fiato e aggiunse:
"Sono pronto a scommettere che il piccoletto finirà con il pisciarsi addosso prima di sera."
"Vada all'inferno!" Replicò Giulio.
"Volevo solo sapere se era il caso di prendere i fucili!"
Tra una risata e l'altra, Capo Bianco disse:
"Certo piccoletto, certo. Come no?"
Poi, con il sorriso sulle labbra, si avviò fuori dalla pista. Lo richiamai.
"Ehi! Grand'uomo! Non prende nemmeno un fucile? Vuole proprio dimostrarci di essere un super eroe?"
Lui continuò a camminare dicendo:
"Ti preoccupi per la mia pelle grassone?"
"No!" Gridai.
"Non è per quello. Lei è l'unico a saper parlare la lingua del posto. O almeno è quello che vuole farci credere. Mi preoccupo solo del fatto che se quel famoso rinoceronte dovesse infilarle le corna nel culo, io e mio cognato saremmo costretti a imparare lo swahily. Tutto qua!"
Era già sparito nell'intrico verde, ma udimmo comunque la sua risposta.
"Ho il mio coltello. Ed è più che sufficiente per uno che sa usarlo! Il fucile serve solo ai monelli viziati che vengono qui a giocare a fare i grandi. Chiudetevi dentro all'auto, e se proprio non sapete cosa fare, smanacciatevi il salame. Mi raccomando: senza esagerare, eh?"
"Pezzo di merda!" Disse ferocemente Giulio.
Poi le risate di Capo Bianco si persero nella strisciante, misteriosa e umida vegetazione che ci circondava. Le due ore successive trascorsero silenti e monotone.
"Maledetti insetti! E maledetto quel Capo Bianco! Ma quando si decide a tornare?"
Dissi:
"Ora dobbiamo rimanere calmi, Giulio. Però quando ci ripresenteremo all'agenzia, allora sì che mi sentiranno! Cazzo se mi sentiranno!"
Salii sul tettuccio del fuoristrada e scrutai l'orizzonte. L'erba alta era ferma immobile a perdita d'occhio. Non c'era un filo d'aria. Il cielo era grigio in maniera uniforme.
"Ci sta rovinando il sogno di una vita!" Disse mio cognato.
"È il tuo sogno di una vita." Risposi.
"A me stava bene anche cacciare solo qualche capriolo dalle nostre parti. Lo sai bene che ti ho accompagnato perché altrimenti tua moglie non ti avrebbe mai permesso di venir qui da solo."
"Non inventarti storie! Sarei venuto qui ugualmente. Che le stesse bene o no!" Rispose Giulio.
"Certo, certo." Dissi per tagliare corto.
Scesi dalla capote. Lui disse:
"Siamo stati davvero sfortunati a incappare in un impostore del genere."
Annuii dicendo:
"E chi poteva immaginarselo che l'agenzia ci avrebbe rifilato un pagliaccio simile?"
Giulio stava per dire qualcosa, ma l'improvviso aprirsi della boscaglia alla nostra sinistra ci fece trasalire. In pochi attimi una decina di uomini neri, ed esageratamente alti, si disposero in cerchio attorno a noi. Le loro facce severe erano di bei lineamenti. Portavano delle corte tuniche dai colori sgargianti, e impugnavano delle lunghe lance.
"Cosa vuole questa gente?" Mi domandò Giulio afferrandomi per un braccio.
Risposi mantenendo lo sguardo sugli uomini alti:
"Saranno dei cacciatori. Sono solo curiosi, io credo che non ci sia alcun pericolo."
In realtà non mi sentivo per nulla tranquillo. E i fucili erano dentro alla jeep. L'uomo nero che portava dei segni distintivi pitturati sulla faccia, mosse un passo in avanti e disse:
"Hai detto bene. Siamo cacciatori. E voi siete sulla nostra terra."
Ripresomi dalla meraviglia, dissi:
"Parlate l'italiano?"
"Sicuro. Siamo in molti in questa regione a parlarlo."
Anche se gli uomini alti e neri mantenevano un'espressione severa, io e Giulio ci guardammo in faccia rincuorati. Mio cognato disse:
"Chi l'avrebbe mai detto? Chi vi ha insegnato la nostra lingua?"
Quello che sembrava essere il capo del manipolo, rispose:
"I vostri nonni hanno insegnato la vostra lingua ai nostri nonni."
Sputò per terra. Contrasse la faccia e con tono decisamente ostile disse:
"E sapete come gliela hanno insegnata? A frustate e a fucilate!"
"Siamo nella merda." Mi limitai a pensare.
Anche Giulio afferrò la situazione al volo, e prese la parola.
"Ascoltate. Noi siamo qui solo di passaggio da queste parti e vi garantisco che ci dispiace per quello che hanno fatto i nostri nonni."
"Sì." Mi affrettai ad aggiungere.
"È così. Sentite: volete del cibo? Dell'acqua? O qualche bottiglia di birra? Abbiamo molta roba nella nostra auto. Che ne dite?"
L'uomo con la faccia dipinta disse qualcosa nella sua lingua, e tutto il gruppo che ci circondava rise nervosamente. Poi disse:
"Mio nonno è stato torturato e ucciso dal tuo. Perché ora credi che dovrei accettare qualcosa da te? Sei davvero convinto di sistemare in questo modo tutti i torti che abbiamo subito?"
Il cerchio si strinse su di noi. Giulio disse:
"Ma cosa volete da noi? Non vi abbiamo fatto niente. Siamo solo di passaggio. Stiamo solo aspettando un uomo che deve riportarci indietro."
"È così." Ribadii.
"Stiamo solo aspettando la nostra guida che si è allontanata alla ricerca di qualche informazione. Ci siamo persi. Capite? Non avete trovato un uomo bianco senza capelli? Deve essere qui intorno."
La loro aria diveniva sempre più minacciosa. Il loro capo disse:
"Un uomo bianco senza capelli? Sì, l'abbiamo trovato. Ma io non credo che ritornerà da voi."
L'angoscia ebbe il sopravvento su di me. E mio cognato non stava di certo meglio. Dissi:
"Cosa vuoi dire? Perché non credi che ritornerà da noi?"
Lui parlò brevemente ancora nel suo idioma. Il gruppo rise di nuovo nervosamente. Poi disse:
"Abbiamo messo un po' di pepe nel culo del vostro amico. Tanto per usare una vostra espressione. Ecco cosa intendo dire."
Le mie gambe tremavano. Dissi:
"Lasciateci andare per favore. Prendetevi quello che volete ma lasciateci andare."
L'uomo con la faccia dipinta disse:
"Andare? Sì, uno di voi due potrà andarsene."
Gettò un machete ai nostri piedi. Disse:
"Ora ti insegnerò un gioco che i vostri nonni facevano spesso con i nostri. Le regole sono semplici: battetevi tra voi due con quell'arma. Chi rimarrà vivo potrà andarsene. Avete la mia parola."
Le mie gambe cedettero e caddi in ginocchio.
"No. Non potete farci questo." Dissi con voce strozzata.
Giulio era immobile. L'unico movimento sulla sua piccola figura, era determinato da una macchia che si allargava rapidamente sui suoi pantaloni. Disse:
"Mi sono pisciato addosso."
Mise una mano sulla mia spalla.
"Mi hai capito? Mi sono pisciato addosso." Ripeté con voce atona.
Mio cognato sembrava molto lontano da lì. Forse si era convito di essere da qualche altra parte. Il capo sputò per terra. Disse:
"Se non vi batterete, vi uccideremo senza nessuna pietà!"
Giulio cadde in ginocchio di fronte a me. Sempre con lo sguardo perso e la voce inespressiva disse:
"Io non voglio morire. Non voglio morire. Chiudiamo gli occhi. Forse così se ne andranno."
Misi le mie mani sulle sue spalle. La mia voce faticava parecchio a farsi strada nella mia gola annodata dalla paura.
"Giulio…Giulio è finita. È finita per noi."
"Basta! Basta così. Hai fatto un buon lavoro M'Bou."
Era la voce di Capo Bianco. Il pelato sbucò dalla vegetazione.
"Eh sì. Ve la siete proprio guadagnata una buona cassa di birra."
"Grazie Capo Bianco. Lo sai che ti diamo sempre volentieri una mano al bisogno." Rispose M'Bou.
Poi aggiunse:
"Ora dobbiamo andare. La marcia è ancora lunga."
Ero ancora paralizzato dalla paura. Non riuscivo a muovere un muscolo. Solo la mia lingua era sciolta.
"Figlio di una grandissima troia! Capo Bianco! Mi hai sentito? Ti ho detto che sei un grandissimo figlio di troia!"
Giulio era ancora assente. Mormorava tra di sé:
"Non voglio morire. Non voglio."
M'Bou disse:
"Capo Bianco. Sei sicuro di poter rimanere da solo con i tuoi amici? Non ti faranno del male?"
Il pelato allargò la sua faccia sgraziata in una smorfia simile ad un sorriso. Rispose:
"Andate tranquilli. Tu mi conosci e sai bene che so badare a me stesso."
Ero sempre fermo sulle mie gambe prive di vita. Gli uomini alti e neri fecero un gesto di saluto verso Capo Bianco e scivolarono silenziosi nella boscaglia. La nostra guida si voltò ai margini della pista per urinare. Disse:
"Allora? Vi è piaciuta la sceneggiata? Sono o non sono un buon regista?"
Rise fragorosamente. Poi aggiunse:
"Ne avrete di cose da raccontare quando ritornerete nei vostri comodi salotti a Milano, eh? Farete un figurone con le vostre pollastrelle."
Rise di nuovo. La sua pisciata pareva non avere fine. Disse:
"Comunque state tranquilli. Anche questa vostra ultima avventura è compresa nel prezzo."
Continuò a ridere. Giulio era sempre fermo sulle sue ginocchia. Finalmente riuscii a risollevarmi. Scattai verso la jeep. Afferrai rapidamente il mio fucile. Quando Capo Bianco si girò, mi trovò ad attenderlo con l'arma spianata.
"Capo Bianco! Se hai un Dio pregalo! Pregalo perché ora ti ammazzo!"
Era a dieci metri.
"Stammi a sentire bamboccio!"
La sua voce era ferma.
"Tu ora sei arrabbiato e hai paura. E quando si è arrabbiati e si ha paura non si può fare un cazzo di niente. Mi capisci!? È come quando si vuole piantare un chiodo in un muro. Se si ha paura di colpire con il martello la mano che regge il chiodo, va a finire che si colpirà la mano e non il chiodo."
Lo ascoltavo come ipnotizzato.
"E se si è arrabbiati, anche in quel caso andrà a finire che si colpirà la mano che regge il chiodo e non il chiodo. Le tue mani sono arrabbiate e hanno paura. Guarda le mie mani!"
Le protese verso di me.
"Guardale! Sono ferme e immobili. Non hanno alcuna sensazione di rabbia o di paura! E adesso ascoltami bene. Metti giù quel fucile. Mettilo giù perché altrimenti io non ti darò nemmeno il tempo di dire amen, che ti ritroverai morto ancor prima di toccare terra!"
Portò la sua mano destra alla cintola dove c'era il suo coltello.
"Metti giù quel cazzo di fucile!"
Dissi:
"Giulio, sali in macchina. Muoviti."
Le mie mani tremavano. Mio cognato mi ubbidì meccanicamente. Dissi:
"Può darsi che tu abbia ragione Capo Bianco. O può anche darsi che tu sia solo un pagliaccio fuggito dal manicomio. Ma tu muovi anche un solo passo verso di me, e io ti giuro che ti ammazzo come una cane!"
Incominciai a indietreggiare tenendolo sotto tiro. Aprii la portiera del fuoristrada. Dissi:
"Capo Bianco, già te l'ho detto. Ma ci tengo a dirtelo di nuovo. Sei il più gran figlio di troia che io abbia mai conosciuto."
L'altro disse:
"Povero bamboccio stupido e grassone. Perché non metti giù il fucile e provi a ripetermelo?"
Mio cognato aveva messo in moto la jeep. Salii al posto di guida e partii a tutta velocità. Guardai nel retrovisore. Capo Bianco ci stava inseguendo rapido come una gazzella e urlando a squarciagola. Poi sparì ingoiato dalla distanza. Guidai per venti minuti senza avere idea di dove stavo andando. Non dissi una parola fino a quando Giulio mi mise una mano sulla spalla.
"Dovevamo ammazzarlo!"
Guardai la faccia stravolta di mio cognato. Risposi:
"Non ne ho avuto il coraggio. Ma gliela faremo pagare! Riusciremo pure a ritornare all'agenzia prima o poi."
"No cazzo!" Sbraitò Giulio.
"Di questa storia non si dovrà mai sapere niente!"
Lo guardai sorpreso. Fermai l'auto. Spensi il motore. Dissi:
"Stai scherzando? Ma ti rendi conto di cosa ci ha fatto?"
Portò le mani sui suoi pantaloni ancora bagnati. Disse:
"Sì, me ne rendo conto. Vedi? Questo è piscio. Ed è sulle mie brache. E ti ripeto che di questa storia non si dovrà mai sapere niente! Chiaro?!"
Due zebre, le prime che vedevamo, ci attraversarono la strada al piccolo trotto. Per nulla intimorite, si fermarono a osservarci. Dissi:
"Va bene Giulio. Nessuno saprà mai niente. Va bene."
Rimanemmo lì a guardare le zebre. Erano due splendidi animali. E ripresero a trottare felici sulla loro terra.

 

Australia

Alcuni italiani viaggiano per lavoro in Australia, terra che si dimostrerà ricca di sorprese. E forse, in qualche modo, anche ricca di saggezza.

 


"Non ho mai visto un uomo con un uccello così tosto." Disse Sara ostentando un'aria disinvolta.
"Ho visto cose più inquietanti nella mia vita." Risposi beffardamente, mantenendo lo sguardo fisso sull'aborigeno nudo.
Poi aggiunsi:
"Penso sia meglio svegliare il professore. Così forse sapremo cosa vuole questo tizio."
Il nativo australiano si manteneva ad una decina di metri dal nostro piccolo accampamento, e pronunciava delle parole incomprensibili alle nostre orecchie. Gesticolava animatamente e indicava le colline che si stagliavano nella luce diafana alle sue spalle, mantenendo comunque un portamento molto dignitoso. Sara disse:
"Sì, è una buona idea. Ma vai tu. Non vorrei che il vecchio si mettesse in testa strane idee vedendomi entrare nella sua tenda."
Oltrepassai la piccola tenda di Sara e quella grande degli aiutanti. Giunsi di fronte a quella del vecchio professore. Pensai:
"Speriamo bene. Non mi piace proprio per niente l'idea di farmi mandare a quel paese all'alba."
Lo chiamai un paio di volte usando la massima cautela. Non giunse alcuna risposta e, sollevato il telo d'ingresso, mi avventurai all'interno. Il vecchio dormiva profondamente. Mi avvicinai a lui nella penombra. Il mio piede scalzo calpestò qualcosa di freddo e viscido.
"Porca puttana!" Mormorai a denti stretti. "Ecco dove è andato a finire l'alcool che si è tracannato ieri sera!"
Lo toccai sulla spalla.
"Professor Alberti. Si svegli. Abbiamo bisogno di lei."
Quello scattò a sedere sul suo materassino. Era sudato. I suoi occhi grigiastri si spalancarono di colpo. Come sua abitudine iniziò a gridare.
"Chi ha sparato al koala!? Chi cazzo ha sparato al mio koala?!"
Mulinò un pugno nella mia direzione.
"Sei stato tu brutta faccia da tonno?!"
Rimasi immobile. Detestavo quell'uomo da molti anni. Era il mio datore di lavoro, e da sempre, di fronte a lui, non riuscivo far altro che rimanere immobile. Alberti ripiombò di peso nel mondo della veglia.
"Che vuoi?! Chi ti ha invitato qui?!"
Parlai a bassa voce.
"Professore, c'è un aborigeno là fuori. Credo voglia qualcosa."
Si rituffò sul materassino dicendo:
"Dagli una noce di cocco e mandalo fuori dalle palle!"
"Professore, potrebbe trattarsi di qualcosa di importante. Si alzi, la prego."
Dopo una breve pausa, aggiunsi ingenuamente:
"E poi non abbiamo noci di cocco."
Lui si strofinò energicamente la sua piccola faccia ovale e antipatica dichiarando:
"Dammi due minuti. Solo due minuti. E uscendo fai attenzione a dove metti i piedi. Ho avuto alcuni problemi di digestione questa maledetta notte. Probabilmente un colpo d'aria fredda."
"Come no!" Pensai. "Aria fredda un cazzo! Vecchio alcolizzato della malora!"
L'aborigeno era ancora al suo posto. Anche Sara si trovava sempre al suo posto. Fece una richiesta con tono malizioso.
"Mi prendi la macchina fotografica?"
Volsi lo sguardo verso le colline.
"Non credo che sia il caso, Sara. E poi ho sentito dire che se li inquadri in un obiettivo si arrabbiano di brutto. E poi guarda il mio piede. Adesso ho altro da fare."
La luce rossa del sole tagliava il piccolo accampamento facendolo sembrare irreale. L'aria era frizzante ed aveva qualcosa di innaturale per delle persone abituate allo smog. Erano solo tre giorni che eravamo sbarcati sul continente. Cercai subito rimedio a quell'aria strana infilandomi una sigaretta in bocca. Alberti si presentò tossendo e lamentandosi di aver dei crampi allo stomaco. Poi affrontò con decisione l'aborigeno.
"Chi sei piccolo uomo? Cosa vuoi?" Poi aggiunse indispettito: "Ascolta piccolo uomo: la tua improvvisata a quest'ora del mattino non è certo segno di buona educazione!"
L'altro ci faceva segno di seguirlo, e saltellando, continuava a esprimersi nel suo oscuro idioma. I nostri quattro robusti aiutanti, richiamati dal trambusto, uscirono dalla loro tenda sbadigliando e stiracchiandosi. Il professore si rivolse verso il caposquadra.
"Aldo, tu capisci qualcosa? Tu che sei nato in questo isolotto fuori dal mondo, riesci a comprendere quanto dice questo piccolo uomo?"
Aldo sgranò gli occhi:
"Isolotto? Questo è un continente di tutto rispetto professore."
"Non perdiamoci in dettagli." Rispose Alberti. "Dimmi se capisci cosa vuole questo primitivo."
Il caposquadra alzò le sue possenti spalle.
"Boh! È la prima volta che mi muovo dalla costa."
Il vecchio si passò le mani tra la sua zazzera rossa. Quindi puntò l'indice su di me.
"Tu. Tu che dici di sapere un mucchio di lingue, ti decidi a tradurre?"
"Io? Non ho mai detto di sapere un mucchio di lingue. So solo qualche parola di francese. Posso solo dirle che questo tizio non parla in francese. Ecco tutto."
Il professore scosse la testa sconsolato.
"Che spedizione sgangherata. Non avrei mai dovuto accettare questo incarico."
L'aborigeno, nel frattempo, non aveva dato alcun segno di cedimento: anzi, continuava imperterrito con le sue richieste aumentandole di tono e di intensità. Alberti si schiarì la voce.
"Be', state a sentire cosa faremo. Tu Aldo rimani qui con i tuoi ragazzi. Date una ripulita al campo; e già che ci siete date anche una lavata al camion. Mentre io…"
Il biondo e grosso uomo lo interruppe.
"Una lavata al camion? E dove andiamo a prenderla l'acqua?"
Il vecchio rispose infastidito:
"E che ne so! Fate la danza della pioggia! O scavate un buco per terra! Un po' di iniziativa per Dio! Non vorrete rimanervene qui a giocare a carte, spero?!"
Girò rapidamente su se stesso. Quello era il suo modo di calmarsi. Quindi riprese il discorso.
"Allora, voi rimanete qui. Mentre io, Sara, e la faccia da tonno, prenderemo la jeep e andremo con l'alieno a vedere cosa c'è di così importante su quelle colline."
"L'alieno?" Disse divertita Sara.
"Be', quel tipo nudo insomma." Rispose esitante Alberti. "Allora? Tutto chiaro? Forza diamoci da fare."
"Non facciamo un minimo di colazione?" Mi azzardai a chiedere.
La chioma rossa del vecchio si gonfiò a causa della brezza mattutina.
"Pensi solo a mangiare faccia da tonno? Ti ricordo che non sei qui in vacanza. Sei qui per lavorare! Prendi la cinepresa. Forza, forza! Scattare! Chissà che non troviamo qualcosa che valga la pena di essere filmato."
Aldo ordinò a uno dei suoi di caricare sull'auto una tanica di benzina, un fucile, birra, e del cibo in scatola. Mi posizionai al posto di guida. Sara fu subito al mio fianco, e si lasciò cadere mollemente sul sedile. Alberti disse:
"Avanti piccolo uomo. Noi montiamo di dietro. E tieni le mani a posto. Hai capito?"
L'aborigeno non voleva saperne di salire. Il professore dopo alcuni tentativi perse la pazienza. Si rivolse verso Aldo.
"Dagli un pugno sulla testa e caricamelo sulla jeep! Non posso perdere il mio tempo così!"
L'australiano dribblò il gigante biondo con un guizzo, e iniziò a correre facendomi segno di stargli dietro. Richiesi istruzioni al professore. Egli mi rispose con voce alterata:
"Dai, dai! Vagli dietro! Tra cento metri sarà lui a supplicarci di prenderlo a bordo!"
Ci mettemmo finalmente in marcia. Il piccolo uomo correva veloce, voltandosi di tanto in tanto per incitarci con un braccio ad aumentare la velocità. Mantenevo l'auto ad una ventina di metri da lui, facendo attenzione a schivare rocce, arbusti e buche. Lo seguimmo per circa cinque chilometri in direzione delle colline. Dissi:
"Altro che cento metri. Questo va via come un treno. Secondo me uno così non lo si ferma nemmeno con una fucilata!"
Alberti mi riprese sgarbatamente.
"Pensa a guidare tu, faccia di tonno! Quell'alieno è senz'altro drogato! Solo Dio sa che porcherie usano da queste parti!"
Guardai di sottecchi Sara. Oramai avevo capito da molto tempo che si divertiva ogni volta che il vecchio decideva di umiliarmi. Infatti ridacchiava. Ridacchiava come aveva fatto un paio d'anni prima, quando avevo provato a farle maldestramente la corte. Era una bella donna di trent'anni. Mora, alta, con la schiena dritta e con tutte le cose giuste al posto giusto. Ma purtroppo per me, era una che puntava in alto. Non era nella sua natura accontentarsi di un semplice operatore di ripresa. Quella volta, ridacchiando, si difese dicendo che non voleva mettersi con uomini più giovani di lei. Le avevo fatto notare che in fin dei conti erano solo due gli anni che ci separavano. Ma lei con il suo modo di fare e il suo sorriso affilato, mi aveva fatto intendere molte cose quella volta.
Attaccammo il dolce pendio della collina. Un altro chilometro e l'aborigeno si fermò. Aveva il fiatone. Scendemmo dalla jeep. Mi guardai attorno, respirando con fastidio l'aria che stava diventando secca sotto il sole sempre più caldo. Giù in lontananza era visibile il nostro accampamento.
"E allora?" Alberti era impaziente. "Dico a te piccolo uomo! Adesso mi devi delle spiegazioni!"
Feci correre lo sguardo oltre le nostre tende. La pianura era di mille colori. Vi erano delle zone grigie delimitate da rocce della tinta dei capelli del professore. Poi verso sud, delle chiazze verdi e poi gialle che si innestavano in una profonda striscia beige. E ancora oltre una lunga fascia blu corvino, che ricordava i morbidi capelli di Sara, andava a perdersi verso l'orizzonte.
"Porca puttana!" Strillò rabbiosamente il vecchio. "Inventati qualcosa alieno! O ti metto sotto con la jeep!"
"Ah! Ma siete miei compaesani allora."
Ci voltammo di scatto verso la nostra sinistra. Un uomo bianco, alto e nudo, stava emergendo da un piccolo avvallamento. Si muoveva con passo deciso e fluido. Rimanemmo con l'espressione di chi fosse stato colpito da una badilata sul viso. Quello avanzò dicendo:
"Salve fratelli! Qual buon vento vi ha sospinto in questo paradiso?"
Alberti fu il primo a riaversi dalla sorpresa.
"Si copra dannazione! Passi pure per quel selvaggio! Ma lei è un uomo bianco! Non si rende conto che si trova in presenza di una signora?!"
L'uomo nudo ci raggiunse. Si posizionò di fronte a Sara e, dopo aver eseguito un inchino, si esibì in un baciamano impeccabile. Disse:
"Buongiorno splendida creatura."
Sara ritrasse la mano con faccia nauseata. Alberti si frappose tra il nuovo arrivato e la donna.
"Faccia di tonno! Prendimi il fucile! Voglio dare una lezione di buone maniere a questo maleducato!" Vociò il vecchio con tono asmatico.
"Calma, calma." Fece l'uomo dai bei lineamenti e i capelli ricci e scuri. "Lasciatemi almeno il tempo di presentarmi."
Fui pervaso da una strana sensazione e mi volsi di scatto verso l'aborigeno. Mi ero completamente dimenticato di lui e non mi piaceva l'idea di averlo alle spalle. Era rigorosamente fermo ad osservare la scena.
"Sono padre Giovanni. Lui è il mio amico Mupuku, che già avete avuto l'onore di conoscere. Con chi ho il piacere di parlare?"
Vi furono dei lunghissimi secondi di silenzio.
"Lei è un prete?" Esclamò sbalordita Sara.
"Dica un po'!" Attaccò Alberti. "Lei è sicuro di quello che sta dicendo?"
"Certo che sono sicuro. Che domande!"
Continuammo a squadrarlo dall'alto in basso. L'uomo bianco e nudo ci invitò a sedere all'ombra di alcuni alberi poco lontani. Lo seguimmo titubanti e ci accomodammo in cerchio sul terreno pietroso. Mupuku rimase in disparte, rigorosamente in piedi e mantenendo un'aria austera. Il professore effettuò delle rapide presentazioni di rito. Quindi ritornò alla carica.
"Allora? Non intende coprirsi? Almeno un po'!"
"Paese che vai, usanze che trovi." Sentenziò il prete. "Io mi sono adeguato. Casomai dovreste essere voi a spogliarvi."
Alberti provò ancora per un po' a contestare la tesi di quello strano sacerdote. Poi si arrese.
"D'accordo. Lasciamo perdere. Mi dica dunque: per quale motivo ha inviato il suo fattorino a chiamarci?"
"Mupuku non è affatto il mio fattorino. Casomai è un mio buon amico, nonché valido collaboratore."
"Collaboratore di che cosa?" Indagò puntigliosamente il vecchio.
"È così per dire. È un titolo che gli ho affibbiato io. È un po' come nel suo caso."
"Cosa? Che vuol dire?"
"Lei ha detto di essere un professore. E di che cosa poi?"
Alberti strinse i pugni dicendo:
"Cosa vuole insinuare?"
Il prete insistette gagliardamente. "Mi dica allora che genere di professore lei è."
L'altro tacque, perché io e Sara eravamo lì presenti e sapevamo la verità. Infine il vecchio si decise.
"È un titolo che mi sono guadagnato nel corso degli anni. È una forma di rispetto che le persone importanti di Roma usano nei miei confronti."
Padre Giovanni sorrise soddisfatto.
"Vede cosa intendevo dire? Anche a lei hanno affibbiato un titolo. Ed è esattamente quello che io ho fatto con Mupuku."
Provai del piacere nel vedere il vecchio messo alle strette e in condizione di non poter reagire. Alberti, paonazzo in volto, nonostante la sconfitta provò a contrastarlo con fare beffardo.
"Però! Che intuito! Le è bastato uno sguardo per mettermi a nudo."
E sottolineò la parola nudo con vero disprezzo.
"E ora mi dica: che vuole da noi?"
Il prete non accusò minimamente il colpo per la provocazione, e continuò a parlare con tono disteso.
"É presto detto: ieri sera vi ho visti laggiù mentre preparavate il campo, ed ero curioso di sapere chi voi foste. Erano diversi anni che non si vedeva passare gente da queste parti. Intendo dire gente bianca. Per non parlare di questo splendido fiorellino."
Sara non fece una piega al complimento. La faccia di Alberti si tese.
"Così lo scopo di questa adunata è soddisfare la sua curiosità. E va bene. Siamo una piccola troupe con l'incarico di girare un documentario. Io sono il capo comitiva. La nostra bella Sara ha il compito di illustrare e commentare le immagini."
Fece una breve pausa e ammiccò verso la donna.
"Chi meglio di lei potrebbe apparire nel video? Mentre i quattro ragazzotti che sono rimasti laggiù si occupano della parte logistica e di facchinaggio, ovviamente. Sono tutti del posto. Gente in gamba comunque: sono tutti di origine italiana. Li ho richiesti espressamente alla direzione ancor prima di partire. Sono stato chiaro a suo tempo: non voglio anglosassoni. Si riempiono di birra e poi piantano casini! Ho già avuto a che fare abbastanza con quelli! Questo è tutto."
Mi intromisi. "Ehm, veramente ci sarei anch'io."
"Ah sì." Disse Alberti. "Lui e l'addetto alle riprese."
"E lei padre Giovanni? Cosa fa qui di bello?" Chiese Sara con il suo sorriso affilato.
"Il mio lavoro, mia bella giovane."
"Sì, ma in cosa consiste il suo lavoro?"
"Mia cara amica, il mio lavoro consiste nel ricondurre sulla buona strada la gente di questi luoghi selvaggi."
Dissi:
"Quanti anni ha? E da quanto tempo è qui?"
Contrasse il viso come se stesse provando a fare un difficile calcolo.
"Mah! È difficile dare una risposta così. In che anno siamo?"
"Nel millenovecentosettanta." Risposi prontamente.
"Be', allora in questo caso ho cinquant'anni. E sono qui circa da dieci."
Il professore tamburellava con le dita sul terreno. Era evidente che considerava tutta la faccenda una grossa perdita di tempo. Infatti prese la parola.
"Senta padre, noi abbiamo un mucchio di lavoro da svolgere. È stato bello conoscerla eccetera eccetera. Ora però, se non le dispiace, dobbiamo proprio andarcene. Dobbiamo trovare koala, canguri, alligatori, ragni, serpi e un mucchio di altre cose."
Fece per alzarsi, ma padre Giovanni lo afferrò per un polso.
"Ehi dico! Sono anni che non scambio una parola con dei compaesani, e voi volete andarvene così?"
Alberti trattenne qualche parola nel gozzo e mi guardò con aria severa.
"Dai faccia di tonno. Prendi un paio di bottiglie di birra dalla jeep."
Poi si rivolse all'uomo al suo fianco.
"Solo dieci minuti. Non è per scortesia, mi creda."
Il suo tono lasciava decisamente credere il contrario. Gli bruciava ancora troppo il fatto di essere stato colto in flagrante, al riguardo dell'usurpazione del titolo accademico a cui teneva tanto.
"Ma devo render conto di ogni minuto e di ogni centesimo speso, ai nostri finanziatori che se ne stanno belli comodi in poltrona a Roma."
Ritornai con le bottiglie stappate. Ne porsi una a Sara.
"No, non ne voglio. Come fate a bere birra a quest'ora?"
L'uomo nudo colse la palla al balzo.
"Be', se lei non la beve potremmo darla a Mupuku. Sono sicuro che gli piacerà."
Alberti fece spallucce. Portai la bottiglia all'aborigeno, e quello l'afferrò senza fare tanti complimenti. Il professore alzò la sua birra.
"Bene. Brindiamo a questo incontro. Nonostante tutto."
"All'incontro." Dicemmo all'unisono io e padre Giovanni.
Mupuku si era distanziato di una ventina di metri. Aveva già iniziato a bere per conto suo. E ruttava felice. Fui il primo a staccarmi dal collo della bottiglia. Osservai Alberti. Ero sicuro che sarebbe riuscito a vuotare la sua senza riprendere fiato. Invece arrivò appena alla metà. Evidentemente era fuori forma dopo la nottataccia che aveva trascorso. Chi invece riuscì a stupirmi, e a stupirci, fu il prete: vuotò la sua bottiglia dando l'impressione che sarebbe riuscito a berne ancora senza difficoltà.
"Non ho mai visto un prete bere in questa maniera." Commentò irritato per la nuova sconfitta Alberti.
Sara, come al solito, sorrideva.
"Non era freschissima, comunque non era niente male." Replicò soddisfatto l'uomo nudo.
Quindi guardò dritto in faccia il vecchio.
"Ma mi dica: perché i preti come la devono bere la birra?"
"Devono essere almeno vestiti." Replicò l'altro, ghignando e cercando la nostra approvazione.
Sara gliela fornì senza esitare, ghignando a sua volta.
Padre Giovanni disse:
"Ha mai sentito dire che l'abito non fa il monaco?"
L'alcool incominciava a fare il suo effetto.
"Certo che l'ho sentito dire brutto pretaccio!" Rispose compiaciuto il vecchio. "Il punto è che lei è nudo. Lei non può andarsene in giro a far prediche in quelle condizioni. Fosse per me la farei radiare dall'albo!"
"Casomai si dice scomunicare. Finto professore dei miei stivali che non ho." Riabbatté spiritosamente il sacerdote.
Mi convinsi che a quel punto la birra ci aveva oramai presi tutti. Poi il prete aggiunse:
"E allora? Di che vogliamo parlare? Dell'Italia? Di canguri? Forza! Sono disposto a parlare di tutto questo e di qualsiasi altro cazzo che vi passi per la testa."
Il professore strinse nuovamente i pugni.
"Eh no! Lo dicevo io che c'era qualcosa che non andava! Io non ho mai sentito uscire dalla bocca di un prete la parola cazzo!"
"Be'? E allora?" Fece l'altro.
Il viso di Alberti era più rosso dei capelli che aveva in testa.
"E allora?! Lei è già ubriaco! E i preti non si ubriacano e non dicono quella parola!"
Padre Giovanni si levò in piedi.
"Ma io ve lo avevo detto anche prima che quando si va in un paese ci si adegua alle usanze locali."
Dissi timidamente:
"Non vorrà farci credere che gli aborigeni dicono cazzo, vero?"
"Sì invece!" Mi rispose con la faccia inebriata dalla birra. "Questi piccoli uomini scuri dicono cazzo in continuazione. È così vi dico! Quando due aborigeni si trovano per strada lo dicono sempre."
Eravamo attoniti e fermi immobili a osservarlo. Quello iniziò a imitare il portamento e la postura di Mupuku. Usò un tono farsesco.
"Ehi cazzo! Lo sai che ieri, cazzo, un canguro mi ha tagliato la strada, cazzo?! Cazzo, e tu cosa hai fatto, cazzo!? Ho preso il mio boomerang cazzo! E gliel'ho infilato nel culo, cazzo! Cazzo, hai fatto bene cazzo!"
Io e Alberti rimanemmo inchiodati a terra con un'espressione da idioti. Sara rideva divertita. Il prete riacquistò un atteggiamento apparentemente normale.
"Non c'è alcun motivo di scandalizzarsi. Vi garantisco che qui fanno così."
Alberti muoveva aritmicamente le labbra senza riuscire ad emettere alcun suono. Io non riuscivo a decidermi se sentirmi imbarazzato o divertito. Sara in compenso, parlò con un tono decisamente esilarante.
"Che ne dite se facciamo qualche ripresa? Sarebbe un buon modo di incominciare il documentario."
Il vecchio non colse il senso di quelle parole.
"Ti è bastato l'odore della birra per ubriacarti? Ci danno l'ergastolo se ritorniamo indietro con un filmato di un prete nudo e sbronzo che parla di boomerang e di cazzi!"
Padre Giovanni non dimostrò alcun interesse alle osservazioni del vecchio.
"Ehi amici. Avete qualche altra bottiglia di birra?"
Sara puntò l'indice verso Mupuku.
"Ma guardate quello!"
L'aborigeno sfoggiava fieramente un'erezione di tutto rispetto.
"Razza di maiale!" Gridò Alberti scattando in piedi. "Pervertito di un selvaggio! Adesso ti darò una lezione che…"
Il prete afferrò il vecchio per gli avambracci.
"Stia calmo! Sono altre le cose che devono scandalizzarla in questo mondo! E poi è colpa mia. Non avrei dovuto dargli la birra. Anche se non potevo immaginare che gli avrebbe fatto un simile effetto."
Poi con dei versi gutturali redarguì il piccolo uomo scuro. Quello reagì pestando i piedi per terra. Data fine alle rimostranze, si incamminò verso la cima della collina in preda a dei conati di vomito. Il vecchio parve calmarsi.
"Andiamocene. Ne ho abbastanza di questo manicomio. Forza! Ritorniamo al campo."
Si diresse verso la jeep. Sara lo seguì. Ero ancora sconcertato e seduto a terra. Dissi flebilmente:
"Mi dica la verità: lei non è un prete, vero?"
Si accovacciò di fronte a me.
"Non più. Una volta, in Italia, dirigevo una piccola parrocchia in un paesino di montagna. Poi però mi hanno cacciato."
"L'hanno cacciata?"
"Sì, mi ero spogliato dei miei vestiti. Ma quei bigotti non capirono il perché."
"Poveracci." Dissi ironicamente.
Alberti stava salendo in auto.
"Allora?! Faccia di tonno! Ti muovi?"
Giovanni mi diede una leggera spinta sulla spalla.
"Dai faccia di tonno, muoviti il padrone ti chiama."
"No! Non le permetto di chiamarmi così."
"Perché no? Quel vecchio lo fa senza problemi."
Sorpresi me stesso mentre conficcavo le dita nel terreno.
"Ma cosa crede? Che non mi sia mai venuta la voglia di prenderlo a pugni in faccia?"
"E perché non lo fai?" Mi rispose candidamente Giovanni.
Scossi la testa.
"Si vede che lei vive fuori dal mondo. Siamo nel millenovecentosettanta, e io ho bisogno di lavorare. Ecco perché."
"Dovresti gettare i vestiti e divenire un uomo libero. Ecco cosa dovresti fare. Guarda me. Io vivo libero e non ho alcun bisogno di lavorare."
Sorrisi.
"Sfido che lei Giovanni non ha bisogno di lavorare. Se ne va in giro nudo, bevendo acqua dalle pozzanghere e sgranocchiando insetti! Questa è forse libertà?"
Lui di rimando:
"Quello che hai detto è vero. Ma per quale motivo tu hai così paura di bere dalle pozzanghere e sgranocchiare insetti?"
Alberti strombazzò il clacson. Uno stormo di uccelli piccoli e dai colori sgargianti, si alzò in volo impaurito da quel rumore che udivano per la prima volta in vita loro. Giovanni era molto serio.
"Quel vecchio si diverte a pulirsi le scarpe sulla tua faccia. E quella donna ti disprezza. Ti considera uno smidollato. Uno che non arriverà mai a niente. E non chiedermi come so queste cose, perché questo fa parte del mio lavoro. E ora rispondimi se te la senti: tu trascorri la maggior parte del tuo tempo in queste cattive condizioni, sei tu forse un uomo libero?"
Alberti strombazzò di nuovo. E i pochi uccelli che erano rimasti lì, si arresero e presero anch'essi il volo. Un pensiero nitido e solitario aprì una breccia nella mia mente.
"E se questo pazzo avesse ragione?"
Era stata una disamina impietosa la sua, ma quanto aveva detto erano cose evidenti anche per un cieco e udibili per un sordo. Giovanni si avvicinò al mio orecchio. Bisbigliò.
"Io lo so cosa ti sta passando per la testa ora."
"Davvero? Me lo dica. Cosa mi sta passando per la testa?"
"Ti stai chiedendo se era proprio necessario andare dall'altra parte del mondo, per sentirti dire da un ex prete nudo e probabilmente ubriaco, quello che già sapevi."
Il vecchio strombazzò nuovamente e con rabbia il clacson. Non poteva levarsi più nulla in aria, se non un mio grido feroce. Mi voltai di scatto.
"Piantala brutto coglione!"
Ritornai a riflettermi negli occhi di Giovanni.
"Mi sento confuso. Molto confuso. Ero convinto di aver capito tutto. Come è potuta succedere una cosa del genere? Io sono una persona razionale e ho sempre seguito scrupolosamente tutte le regole impartitemi. E voglio dire fin da piccolo. Mi hanno ben istruito. I genitori, la scuola, e tutto il resto. Ma ora non so da dove iniziare. Nessuno mi ha mai detto che forse io non sono un uomo libero. Nessuno mi ha mai istruito su cosa si deva fare in questi casi."
Lui rispose:
"Incomincia da dove avevi interrotto molto tempo fa."
"E cioè da dove?"
"Riparti da quando la gente ti chiamava per nome. Getta questo vestito che hai comperato in saldo ai grandi magazzini, e non permettere mai più che qualcuno ti chiami faccia di tonno. E di' pure a quella puttana di mettersi in ghingheri e di baciare la terra dove appoggi i piedi. Quella donna è corrotta e non ha il diritto di guardare in faccia la gente come te."
Delle formiche molto chiare si stavano arrampicando sulle mie scarpe. Dissi:
"Se farò come dici, perderò tutto."
"Hai appena dato del coglione a quell'ometto con i capelli rossi. Sei ancora vivo e non hai perso niente. Di che parli?"
Trasalii. Non mi ero nemmeno reso conto di quanto avevo fatto.
"Sono spacciato!" Mi uscì dalla bocca.
"Ehi uomo! Avevi appena gettato il tuo brutto vestito da quattro soldi. Non vorrai comperartene uno di ancora peggiore, spero?"
"Ma io ho un freddo del diavolo a rimanere qui nudo." Risposi davvero impaurito.
"Guardami. Non fare cazzate! Non devi fare altro che rimanere nudo, e ti garantisco che quello non oserà mai più a suonare il clacson."
Mi voltai verso la jeep. Alberti era sceso. Era in piedi, fermo come un tronco rinsecchito. I quaranta metri che ci separavano erano un abisso. Giovanni mi toccò sulla spalla.
"Io devo andare. Mupuku probabilmente starà vomitando come un suino. Vado a portargli un po' di conforto."
Si alzò.
"Dimmi la verità: ti sei o non ti sei divertito? Sai, non è la prima volta che io e Mupuku insceniamo lo spettacolo che hai visto prima. Ti sei divertito?"
Non risposi. Le parole parevano arrivare da molto lontano. Come se fossero state trasportate dal vento.
"Be', anche se non ti sei divertito quella scenetta è servita a scuoterti. Quello è l'importante."
"Come faceva a sapere che sarei arrivato da queste parti?"
"Io non sapevo niente. È Mupuku che fa dei strani sogni quando si reca in una montagna a un paio di giorni di cammino da qui. È conosciuta come Ayers Rock. Be', ovviamente gli aborigeni, i veri eredi di questa terra, non la chiamano così."
Si incamminò nella direzione dove era sparito l'aborigeno. Dissi:
"Padre Giovanni, io…"
"Lascia perdere." Rispose senza voltarsi. "Mi pagherai una birra un giorno o l'altro."
Dovevo decidere cosa fare. E dovevo farlo alla svelta. Partii di slancio verso l'abisso che mi divideva dalla jeep. Il vecchio sembrava molto più vecchio e molto piccolo.
"Cosa hai detto prima!?"
Lo guardai negli occhi senza timore.
"Le ho detto: piantala brutto coglione! Ecco cosa le ho detto. Suonando quel maledetto clacson aveva infastidito gli uccelli. E infastidendo loro ha infastidito me. Le è chiaro il concetto?"
Era sbiancato.
"E ora salga in macchina. Abbiamo un mucchio di lavoro da fare." Aggiunsi con voce ferma.
Presi posto al volante. Guardai Sara. E forse per la prima volta in vita sua, lei mi ricambiò lo sguardo con rispetto. Era sempre una bella donna, ma la sua schiena non era più dritta. Le sue spalle si erano curvate leggermente in avanti. Alberti era ancora fuori dall'auto incapace di muoversi. Sapevo che forse di lì a poco sarebbe esploso. Ma ora non me ne importava niente. L'idea di bere dalle pozzanghere e sgranocchiare insetti, non mi faceva più alcuna paura. E questa era una sensazione meravigliosa che valeva la pena di vivere. E l'aria era molto buona da respirare.

 

Rio delle Amazzoni

"Io me lo sbatto con le tue richieste! Anzi, ti dirò di più: io me lo sbatto tra la palla destra e la palla sinistra!"
Si deterse accuratamente il sudore dal collo grosso e lungo con un fazzoletto logoro.
"E con questo ho concluso. Esci. Ho un mucchio di cose importantissime da fare." Disse portando lo sguardo su dei fogli sgualciti.
Era appena l'alba e il caldo umido della foresta pluviale era già insopportabile. Rimasi lì a fissarlo. Nessuno aveva mai capito in che maniera fosse riuscito a diventare l'uomo più ricco di quel paese fatto di baracche. Però tutti sapevano che per ottenere un lavoro, o un prestito, o un permesso per pisciare, era indispensabile bussare alla sua porta. Ed era anche indispensabile trovarlo in giornata buona. Anche se oramai tutto pareva perduto, decisi di insistere.
"Signor Ortega, non le sto chiedendo la carità. Le sto solo chiedendo un paio di bidoni di nafta e della merce da barattare. Se me li concede, potrò rimettere in funzione la mia piroga a motore. So per certo che lungo il corso del Japurà vi sono centinaia di cercatori d'oro. Glielo ripeto: quelli pagano in contanti le provviste. Entro due settimane sarò di ritorno, e la rimborserò con gli interessi. È un affare sicuro. Lassù hanno trovato l'oro e…"
"Alt, alt!" Mi interruppe tracciando un ampio cerchio nell'aria afosa con la sua grossa mano.
"Questo me lo hai già detto ragazzo!"
Detestavo essere chiamato ragazzo. Questo perché avevo trentacinque anni. Dopo una breve pausa, partì alla carica.
"E io, in risposta, ti avevo già detto che ancor prima di darmi il buongiorno, devi prima farmi vedere il colore dei tuoi soldi! Nel mio ufficio passano straccioni a ogni ora per chiedere. E a chiedere, e a chiedere ancora! Ma io ho bisogno di garanzie! E poi dai retta a me che conosco questo schifo di Amazzonia meglio delle mie tasche. È tutta una balla. Non c'è oro su per il Rio Japurà."
Si dondolò sulla seggiola sgangherata producendo uno scricchiolio davvero fastidioso. Mi avvicinai di un passo verso quel tavolo vecchio che odorava di muffa, che lui definiva pomposamente scrivania.
"Garanzie? E la mia piroga a motore che cos'è? Non è una garanzia sufficiente?"
Diede un pugno sul tavolo.
"Non farmi ridere ragazzo! Quel tronco marcio a motore non è buono neanche per le termiti!"
Il suo tono non lasciava dubbi: era decisamente la giornata sbagliata per insistere. Guardai fuori dalla finestra che si trovava alla mia sinistra. Il Rio delle Amazzoni scorreva lento e imperturbabile. E il sole che si stava pigramente levando in cielo, di lì a poco sarebbe stato oscurato da un'incombente cappa di umidità pesante e odorosa come la polvere di cemento. Lo squarcio di foresta pluviale che avevo davanti agli occhi, era di un verde scintillante insostenibile per le pupille di un europeo come me. Quella foresta gli indigeni la chiamavano rispettosamente la madre. Per noi bianchi invece, era la maledetta. Mi ero arreso e stavo per uscire dalla baracca. Avevo già afferrato la maniglia, quando Ortega mi richiamò.
"Quello che mi hai chiesto non posso proprio dartelo. Però posso darti lavoro per quattro o cinque giorni. Che ne dici?"
Qualcuno mi aveva già messo in guardia sul fatto che usava delle strane tattiche per contrattare. Un insetto mi punse su di un braccio. Lo scacciai imprecando.
"E che posso dire? Che mi interessa. Di che si tratta?"
Si ripassò il fazzoletto sulla fronte madida. Poi lo esaminò attentamente.
"È presto detto: ho bisogno di un uomo da aggregare alla ciurma di una delle mie chiatte."
"Animale." Pensai. "Sa che ho bisogno di soldi, e adesso tenta di incastrarmi con qualche sporco lavoro."
Lui continuò a parlare battendo ritmicamente il piede.
"Mi serve un uomo che si metta agli ordini del capitano Antonio. Lui è un italiano."
Tornò a dondolarsi.
"Italiano come te." Aggiunse con una vena di disprezzo.
"Dovrete portare la chiatta giù fino a Manaus. E poi scaricarla."
Ritornai di fronte al tavolo. Guardai oltre la sua testa massiccia e rada. Sulla parete vi era una foto incorniciata che ritraeva Ortega. Ne fui sorpreso, perché qualche minuto prima, durante il colloquio, non l'avevo minimamente notata. Lì Ortega aveva circa trent'anni di meno. Si faticava un po' a riconoscerlo. Ma gli occhi erano uguali a quelli dell'uomo che avevo di fronte sulla seggiola: avidi, neri e nervosi. Dissi:
"Cosa trasportiamo?"
"Oro vero." Rispose con una smorfia. "Tronchi di cedro e di palissandro. Li ho fatti tagliare qualche settimana fa e ora sono pronti. Valgono molto di più dell'oro sul mercato nordamericano."
Infilai le mani in tasca. Ora il suo gioco era chiaro. Dissi:
"Credevo che fosse vietato il disboscamento in questa zona."
Assunse un'aria scaltra. Più del solito, intendo.
"È vietato ai fessi. A me è concesso. Basta ungere gli ingranaggi giusti. È una frase fatta, ma funziona così. E poi tu sei italiano e le sai bene queste cose."
"Quant'è la paga?"
"Ah! Non pretendo certo che tu ti stenda ai miei piedi per la generosa offerta. Ma incominciare a chiedere soldi ancora prima di lavorare, è un segno di scortesia."
Un altro maledetto insetto mi punse sul collo. Riuscii a schiacciarlo con estrema soddisfazione. Dissi:
"Dovrò rompermi la schiena per scaricare la sua chiatta. Per non parlare del fatto che potrei finire in galera, se ci fermano sul fiume. Voglio sapere quanto me ne verrà in tasca."
"Il minimo sindacale." Replicò ridendo.
Aveva due molari d'oro.
"Ti darò abbastanza cruizero per comperarti quei due famosi fusti di carburante, le provviste, e per andare con un paio di baldracche. E ne avanzerai anche. Accetti?"
Annuii. Lui prese carta e penna. Scribacchiò qualcosa. Usava una vecchia stilografica con la capacità e la grazia di un gorilla.
"Ecco, prendi questo foglio e dallo al capitano. Così lui saprà che ti ho mandato io."
Intrecciò compiaciuto le mani dietro la testa.
"E comunque non dovrai romperti la schiena. Ma cosa credi? Quello è il pontone migliore della mia flotta. Ha una magnifica gru sul ponte di carico. Una gru fabbricata in Germania. Dovrai solo dare una mano ad agganciare i tronchi e assicurarti che non cadano in acqua. Un gioco da ragazzi. E poi non rischi la galera. Ma cosa credi? Io sono il signor Ortega! Nessuno ficca il naso nei miei affari. E adesso vai. Il capitano partirà tra mano di mezz'ora, e io gli avevo promesso un uomo per questa mattina. Non vorrai farmi fare la figura di chi non mantiene le promesse, vero?"
Uscii dalla baracca accennando appena un saluto, e mi incamminai verso la banchina. Imbrattai le scarpe fino alla caviglia, nel fango delle stradine tortuose che attraversavano la baraccopoli. Incrociai un paio di mulatti che stavano ancora smaltendo la sbornia della sera precedente. Più in giù verso il grande fiume, ve ne era un altro che stava controllando meticolosamente la sua rudimentale attrezzatura da pesca. Davanti al magazzino di Ortega c'era già della gente in fila, nonostante fosse mattino presto. Tutta gente assonnata, come lo era da sempre quel piccolo paese di catapecchie perso nella foresta. C'era chi andava a impegnare qualcosa, altri che intendevano acquistare alcool, attrezzi da lavoro, e chissà cosa altro ancora. Quando fui alla banchina, non faticai a individuare la chiatta tra quell'ammasso di battelli che si reggevano sul pelo dell'acqua come per miracolo. L'imbarcazione era carica di legname fino all'inverosimile. Sulla prua bassa e quasi rettangolare appariva una scritta altisonante: il Diamante di Ortega.
"Ah, questa è buona." Dissi a bassa voce. "Meno male che quella bagnarola ce l'ha sul serio una gru."
Mi diressi verso la passerella.
"Ehi! C'è nessuno a bordo?"
"No." Rispose un uomo robusto sulla mia destra.
"Ma salpiamo tra poco. Cosa vuoi?"
Mi avvicinai all'uomo. Non diedi alcun peso a quel "salpiamo." Era trasandato e mi convinsi che fosse uno dei tanti perditempo che gironzolavano al molo senza sosta, sempre alla ricerca di qualcosa da razzolare.
"Sto cercando il capitano Antonio. Sai chi sia?"
"Sono io il capitano."
Lo guardai bene. Era sì trasandato, ma aveva gli occhi fieri. Da capitano, appunto.
"Bene." Gli risposi porgendogli il foglio di presentazione.
"Mi manda Ortega. Sono stato aggregato alla ciurma."
L'altro diede un'occhiata ai scarabocchi, quindi appallottolò il foglio e lo gettò in acqua.
"Così tu sei il marinaio che mi ha promesso quel vecchio bastardo, eh?"
Alzai le spalle. Lui continuò dicendo:
"Allora salpiamo."
"Dov'è l'equipaggio?"
Lui scosse la testa.
"Non c'è. Sei tu l'equipaggio. Uno ha avuto un incidente un paio di giorni fa. E l'altro, che è bastardo di indio, è ancora laggiù steso tra le mangrovie ubriaco fradicio. Dai andiamo."
Rimasi perplesso.
"Dai, sciogli gli ormeggi."
Quindi si diresse sulla parte rialzata a poppa, dove era situata la cabina di manovra. Non ero un marinaio, e mi trovai piuttosto impacciato a slegare quei nodi complessi. Il rombo dei motori fu come una scossa per me. E non solo per me: si levarono in volo un'infinità di volatili di tutte le specie, con versi e stridii tali che squarciarono definitivamente la quiete di quelle ore ancora troppo vicine all'alba. Raggiunsi il comandante. Egli manovrò con cura il timone, e si districò agilmente da quell'incredibile assembramento di imbarcazioni da museo. Portò con mano sicura il pontone al centro del grande fiume. L'acqua era una lastra scura. Quasi densa. Erano state le piogge torrenziali di un paio di giorni prima a darle quel tono tenebroso. I motori erano a mezza forza.
"Bene, ora il più del lavoro lo farà il Rio." Sentenziò compiaciuto il capitano.
"Devo fare qualcosa?" Chiesi nel tentativo di rendermi simpatico e utile.
""Sì." Fece l'altro. "Fammi compagnia."
Rimasi lì a fissare la sua mascella quadrata. Valutai quell'uomo. Doveva essere sulla cinquantina. E tutto sommato dava l'idea di uno che sapeva il fatto suo. Dopo alcuni minuti di navigazione, scorsi una piccola canoa in lontananza. Era ancora molto lontana, ma ci stava tagliando la strada. Antonio disse:
"Tu arrivi dal Veneto, vero?"
"Si vede così tanto?"
"Più che altro si sente. Il tuo accento è inconfondibile." Rispose sorridendo.
Avevo gli occhi fissi sulla canoa.
"E tu capitano? Da quale parte d'Italia arrivi?"
"Da nessuna in particolare." Rispose gagliardo.
Intuii che voleva dare di sé l'immagine dell'uomo vissuto. Forse lo era.
"Comunque, a titolo di cronaca, sono nato a Milano."
Mi sorpresi a pensare che era bello parlare con un connazionale. Lì, al centro del fiume e al centro dell'Amazzonia. Ma fui ben presto strappato dai miei pensieri. Dissi:
"Ma così li investiremo!"
"No, tranquillo. Quei bastardi di indio sono pieni di risorse. So tutto in materia."
Non ero affatto tranquillo. Lui riprese dicendo:
"Qui la precedenza ce l'ha sempre il più grosso. E non solo sul fiume. È come essere nel far west. Più o meno."
Rise divertito in seguito alle proprie constatazioni.
"Da quanto sei qui?"
Risposi:
"Da meno di un anno."
Mi guardò in faccia.
"E che hai combinato per doverti rintanare qui nella maledetta?"
"Ho avuto qualche problema in patria. Ma non mi va di parlarne."
Risposi un po' risentito per la sua curiosità. Ma ero anche irritato con me stesso per avergli confidato i fatti miei senza riflettere. Poi tentai un contrattacco per evitare altre domande.
"E tu capitano?! Che hai combinato?"
"Ehi ehi, calma. Facevo così per dire. Ho tirato a caso. E comunque io non ho niente da nascondere. Eh, non è che tutti quelli che si trovano in Amazzonia hanno combinato dei guai."
Lasciai cadere la questione. Anche perché ero sempre più preoccupato per quello che sembrava oramai uno scontro inevitabile con la piroga.
"Eh!" Fece. "Devi averla combinata bella grossa per essere stato costretto a rifugiarti da queste parti."
"Piantala capitano! Ti ho già detto che non voglio parlarne. E poi, non è il caso di rallentare?" Replicai con una certa apprensione.
"Così li centriamo in pieno!" Aggiunsi quasi gridando.
I due indio pagaiavano come disperati sulla loro minuscola piroga carica di frutta. E gridavano nella nostra direzione a squarciagola. Il capitano non diede alcun peso alla questione, e si accese una sigaretta. Mi aggrappai alle traversine laterali della cabina. Ero pronto all'urto. L'imponente carico di legname che avevamo sul ponte nascose i due indio dalla nostra vista. Guardai l'uomo con la mascella granitica: tranquillissimo. Il monotono pulsare dei motori divenne insopportabile per le mie orecchie. Gridai:
"Cazzo! Li abbiamo investiti! Ferma la chiatta!"
L'altro pareva un turista in gita sul Po. Fumava osservando un grosso uccello acquatico che volava a pelo d'acqua alla ricerca di prede. Poi vidi finalmente apparire la piroga sulla nostra destra. I due indio urlavano indemoniati. Uno mulinava la pagaia per aria. L'altro roteava i pugni maledicendoci.
"Hai visto?" Disse sorridente Antonio. "Non si sono fatti niente. Sono ancora interi sulla loro bella barchetta." Rise di gusto.
Rimasi con gli occhi fissi sui due indio seminudi. Erano in piedi e inferociti. E le onde provocate dal pontone erano così violente, che facevano correre il rischio a quei due disgraziati di essere rovesciati assieme a tutta la loro frutta.
"Lei è matto!"
Il capitano soffiò il fumo verso l'alto.
"Che fai? Mi dai del lei adesso?"
Avevo il cuore in gola.
"Mi lasci in pace."
Rimasi mezz'ora con gli occhi fissi sulla riva che ci correva appresso. Era verde e nera. Strisciante e umida. E il cielo era di piombo.
"Dai parliamo un po'." Disse Antonio.
"Ne affondi spesso di barche?"
La mia voce stava ritornando normale. E lui non capì che intendevo essere ironico.
"No, no." Mi porse una sigaretta.
"Il mio era un test."
"Cosa?"
"Sì, e tu non lo hai superato. Non c'è niente di male, intendiamoci. Però ti sono saltati i nervi. E non guardarmi così."
"Senti capitano, spiegati bene perché mi sto incazzando!"
Mi passò l'accendino dicendo:
"Io voglio sempre sapere con chi ho a che fare. Da queste parti è un attimo lasciarci la pelle. E volevo sapere come potevano reagire i tuoi nervi in una situazione che precipita. Chiaro?!"
Rimasi stupefatto in seguito a quelle parole. Non sapevo cosa rispondergli e uscii dalla cabina. Fumavo con scatti nervosi. Fui attirato dagli schiaffi sull'acqua, che si udivano distintamente nonostante il pulsare dei motori, provocati da una moltitudine di grossi pesci dal dorso argentato e striato di rosso. Guizzavano veloci nell'aria per afferrare gli onnipresenti e fastidiosissimi insetti, che volavano senza posa ovunque si indirizzasse l'occhio. Sorpassammo numerosi banchi di sabbia che emergevano bianchi e purpurei dal fiume. Qualcuno in precedenza mi aveva detto che quelle piccole isole si formavano a causa della corrente nel giro di poche ore. E sparivano con altrettanta rapidità. Ci lasciammo dietro anche alcune grandi isole galleggianti composte da tronchi, fogliame e rami, e carcasse di animali morti. Anche quello era il risultato dei violenti nubifragi appena trascorsi. Ora però il Rio delle Amazzoni era placido e invitava alla calma. Avevo già sperimentato altre volte il suo potere ammaliante, quando mi muovevo su di lui con la mia piccola piroga a motore. Rientrai in cabina. Antonio mi accolse dicendo:
"Tutto bene?"
Diedi un'alzata di spalle.
"Sì, sì. Comunque spero che tu non abbia in mente di giocarmi qualche altro scherzo. Perché la prossima volta non so proprio come potrebbe andare a finire."
Sottolineai le ultime parole molto seriamente.
"Niente più test. Hai la mia parola. Comunque rimango dell'idea che bisogna sempre sapere con chi si ha a che fare. Guarda il povero Josè, per esempio."
"Chi? Chi è Josè?"
Avevamo entrambi la camicia incollata alla schiena dal sudore. Disse:
"È il marinaio che hai sostituito. Quello che ha avuto l'incidente qualche giorno fa. Non ti ha detto niente Ortega?"
Lo interrogai con lo sguardo. Lui riprese a parlare.
"Eravamo su a Porto Bianco. Ci sei mai stato?"
"No. Mai sentito nominare."
"Be', è un buco fatto di baracche e di palafitte. Eravamo lì per scaricare della farina. Quel giorno c'era anche quel bastardo di indio che ora è di sicuro ancora ubriaco sulle mangrovie."
Lo sollecitai. "Vai avanti."
"Sì. Io ero alla gru. L'indio sulla chiatta, e Josè sul pontile per prendere i sacchi. Mi segui?"
"Sì, ti seguo."
"Si avvicina un cane. Non ho idea di che razza fosse. Comunque era un cane grosso. Hai presente un pastore tedesco?"
"Sì, ho presente."
"Bene. Josè e quel cane bastardo fanno amicizia."
"Amicizia? Che vuoi dire?"
"Voglio dire che Josè va avanti e indietro dal pontile al magazzino con i sacchi, e il cane gli è sempre dietro. Josè quando ha le mani libere lo accarezza e gli gratta il muso. E gli parla anche. Sai, le solite cose che si dicono a un cane. Diventano amici, insomma. Capisci cosa voglio dire?"
"Sì, ora lo capisco. Continua."
"Vanno avanti così per un paio d'ore."
"Con il cane sempre dietro?"
"Certo, sempre dietro. Ma Josè non sapeva con chi aveva a che fare."
"E questo che vuol dire?"
"Ascoltami e lo capirai. A un certo punto Josè si ferma a ridosso di una baracca per pisciare. Il cane gli si incolla di fianco. È lì e guarda curioso. È stato un attimo. Zac!"
"Zac? Come zac?"
"Sì, zac! Quel cane bastardo glielo addenta."
"Cosa?!"
"Sì, gli afferra l'uccello! Josè inizia a urlare come un matto. L'altro intanto tira. Josè urla, ed è costretto a seguire il cane che tira a tutta forza mentre cammina all'indietro. Josè è disperato e incomincia a dargli pugni sul muso. Ma il cane non molla! Arrivo io di corsa per aiutarlo. Prendo il cane a pugni sulla schiena. L'altro ringhia, ma non molla la presa. Ho anche provato ad aprirgli la bocca. Sangue dappertutto e Josè che urla a squarciagola. Ti lascio immaginare la situazione. Intanto l'indio salta giù dalla chiatta con il fucile. Proprio quello che è lì nell'angolo."
"E poi? E poi cosa è successo?"
"Troppo tardi. Il cane glielo strappa e se la dà a gambe."
"Mi stai prendendo in giro?"
"No per Dio! Non scherzerei mai sull'uccello di Josè! Comunque l'indio gli corre dietro con il fucile. Spara di qua, spara di là, e finisce i colpi senza prenderlo."
Lo interruppi.
"Dammi un'altra sigaretta per favore."
"Tieni. Comunque il cane stramazza a terra."
"Gli ha sparato qualcuno del posto?"
"No, ascolta. Corro a prendere un coltello e mi avvento sul cane. Gli apro la pancia per tentare di recuperare il maltolto. Ma non trovo niente che assomigli a quello che cerco. Così incomincio a tagliarlo a pezzi quel cane bastardo, fino a che non glielo trovo in gola. Quel cane bastardo era morto soffocato!"
"E cosa hai fatto?"
"Niente. Era maciullato. Non si poteva fare assolutamente più niente."
Mi scottai le dita con la brace della sigaretta tanto ero preso dal racconto.
"Adesso capisci cosa voglio dire? Devi sempre sapere con chi hai a che fare. E Josè non lo sapeva proprio con chi aveva a che fare."
Guardai fuori. Un grosso uccello dalle piume bianche e nere si tuffò nell'acqua. Riemerse tenendo nel becco un pesce lungo e sottile molto scuro. Dissi:
"Di' la verità: mi stai prendendo per le palle, vero?"
"No, proprio per niente. Quando torneremo indietro ti porterò da Josè. E te lo racconterà lui stesso. Sempre che non si sia ammazzato. Quello che gli è stato portato via era tutto per lui. Davvero tutto."
Fui colto da un senso di smarrimento. Ritornai fuori per farmi tranquillizzare dal grande fiume. Vi erano dei maiali selvatici che grufolavano sulla riva. Sembravano a loro agio, ma si fermarono di colpo protendendo il muso per aria. Erano come statue. Avevano avvertito qualche pericolo. Loro, al contrario di me, sapevano viverci, lì nella foresta. Sparirono in pochi attimi nell'intrico verde e misterioso. Pensai malinconicamente che era stato un errore fuggire in un posto simile. E non era neanche la prima volta che arrivavo a quella conclusione. Pensai che forse sarebbe stato meglio ritornare a casa e affrontare gli strozzini. Magari quelli mi avrebbero ammazzato. Magari no. Va anche detto, comunque, che se non mi avessero ammazzato loro, probabilmente ci avrebbe pensato mio padre. Ma almeno sarei morto in un luogo familiare. Con il vizio del gioco ero riuscito a bruciargli il negozio. E la casa. Aveva lavorato tutta un'esistenza per quelle cose. Poi ci ho pensato io. Avevo distrutto tutto. Mi diedi un leggero schiaffo sul viso per scrollarmi di dosso quei pensieri. Incrociammo un paio di piccole imbarcazioni cariche di merce. Ritornai dal capitano. Lui aveva sempre voglia di chiacchierare.
"Dimmi: che succede in patria?"
Scrollai le spalle e risposi:
"Boh, niente di particolare. Se si esclude il fatto che abbiamo vinto il campionato del mondo. Lo abbiamo vinto in Spagna. Lo sapevi?"
"Sì, ricordo di averlo sentito dire mesi addietro. In Spagna, eh? Bel posto. Ci ho abitato per qualche anno. È stato molto tempo fa."
Quell'uomo incominciava a incuriosirmi. Dissi:
"Sei uno che gira il mondo?"
"Sì e così. Sai, ho incominciato a lavorare da ragazzino. A Milano, in una maledetta catena di montaggio. Assemblavo pezzi tutto il giorno. Pezzi che non sapevo nemmeno a cosa servissero. Poi un giorno ho compiuto diciotto anni, ho fatto fagotto e sono partito. Canada, nord Africa, Argentina…Dieci anni fa sono arrivato qui. E da queste parti pensano che gli italiani siano i migliori navigatori del mondo. Be', pensano anche altre cose meno piacevoli su di noi. Comunque qui mi sono guadagnato il titolo di capitano. È stato facile. Ed eccomi qui sul Rio delle Amazzoni. La vuoi sapere una cosa curiosa?"
Non attese una mia risposta.
"Prima di arrivare qui non sapevo portare nemmeno una barca a remi. Ma è così, la gente è convinta che siamo tutti dei Cristofero Colombo. Lo pensa addirittura anche quel vecchio bastardo di Ortega. Divertente, eh?"
L'autostrada d'acqua iniziava ad animarsi: sulla nostra destra correva veloce un barcone, mentre poco più avanti oltrepassammo una zattera in giunchi di balsa. In lontananza si stagliavano le figure di tre grosse imbarcazioni che ci venivano incontro. Tutta gente che aveva qualcosa da fare. Come me e Antonio.
"Oh, bene. Ci siamo!" Esclamò con allegria.
"Ci siamo dove? Quello non è il porto di Manaus. Se tutto va bene ci arriveremo stasera."
Antonio aveva l'aria di un grosso e vecchio gatto.
"Infatti quello è il molo di san Felipe. Ho un affare da sbrigare. Roba da dieci minuti."
"Che affare?"
"Un affare privato." Replicò asciutto.
Quello che aveva definito un molo, era in realtà un piccolo pontile che si protendeva nel fiume per un paio di metri. E non vi era alcun genere di abitazione nei dintorni. Il capitano attraccò rapido e sicuro. Assicurammo il pontone con delle robuste gomene. Era chiaro che non aveva intenzione di informarmi ulteriormente su quella faccenda, ma richiesi comunque delle spiegazioni.
"Ortega non aveva parlato di tappe intermedie."
"Ho anch'io i miei affari da sbrigare. E a proposito di Ortega, tieni la bocca chiusa su questa storia. Capito? Bene, tu resta qui."
I suoi occhi seri mi ammonirono senza bisogno di altre parole. Ritornò in cabina di manovra. Lo vidi armeggiare con un sacco. Mi avvicinai curioso e senza fare rumore. Lo spiai attraverso un oblò laterale. Aveva in mano un paio di teste. Di quelle rimpicciolite. Ne avevo sentito parlare, ma non ne avevo mai viste. Non mi fu possibile tenere la bocca chiusa.
"Porca puttana! Che storia è questa?!"
L'altro sbuffò.
"Ti avevo detto di non impicciarti!"
Entrai in cabina. Lui senza battere ciglio, stava ravvivando con cura i capelli di quelle teste disgraziate e rattrappite. Quei crani erano la metà e forse anche meno di quello che ci si aspetterebbe dalla testa di un uomo. Erano scure e raccapriccianti.
"Senti, ho già visto prima che sei uno con lo stomaco delicato quando stavo per investire quei due indio. È per questo che devi rimanerne fuori."
Ero senza parole e con lo stomaco sottosopra. Chiuse il sacco di tela scura.
"Ho un appuntamento con dei mercanti. Te l'ho detto: roba da dieci minuti."
Puntai l'indice verso il sacco.
"Da dove salta fuori quella roba?"
"Che vuoi dire? Non le ho mica tagliate io! Le ho solo comperate da alcuni indio. E adesso le rivendo."
"Vuoi dire che fai delle speculazioni su quella roba?"
"Speculazioni? Non dire stronzate! Queste le hanno tagliate degli aguaruna. Lo fanno da mille anni. Ma che dico? Lo fanno da sempre. E lo faranno fintanto che esisterà l'Amazzonia! Che male c'è se ci ricavo qualche soldo?"
"Ehi! Capitano! Quelle sono teste umane per Dio!"
"Piantala! Questo è libero commercio! Pensa che fino a qualche tempo fa le vendevo a Ortega, ma quel vecchio spilorcio bastardo me le ripagava con delle stecche di sigarette! Adesso voglio farlo anch'io qualche soldo. E quindi tieni la bocca chiusa. Hai capito?"
"Ah, tutto qui il tuo problema? Non vuoi che venga a saperlo il vecchio? Roba da matti! Commerci in teste e…"
"Falla finita! E apri gli occhi perché altrimenti gli aguaruna taglieranno la tua di testa! Non l'ho fatto io questo mondo! E qui usano vivere così!"
L'aria era più pesante del solito.
"Ascoltami: ora vado in paese. Tu non muoverti da qui. E se qualcuno si avvicina alla chiatta, prendi quel fucile e spara. Sai usarlo il fucile?"
Non riuscivo a rispondere. Antonio scese a terra, si gettò il sacco sulle spalle e si incamminò verso il pendio fangoso che andava a perdersi nella foresta. Lo vidi giungere sulla sommità della salita e fermarsi a tirare il fiato. Poi si rimise in marcia nel caldo maledetto e sparì dalla mia vista. Al di là di quel dosso doveva esserci qualcosa che rispondeva al nome di san Felipe. Fuori da qualsiasi carta geografica e fuori dalla ragione. Trascorsi un paio d'ore a scacciare insetti. Ronzavano senza sosta. Iniziai anche a imprecare. Ma questo non servì a far ritornare indietro il capitano. Due indio con vestiti stracciati di taglio occidentale, discesero la stradina di fango che conduceva al pontile. Rimasero lì a guardare il pontone con le mani in tasca. Non parlavano e non facevano niente. Tenevo d'occhio i due e anche il fucile. Un breve e violento rovescio d'acqua li costrinse ad andarsene. Il tempo scorreva lento come il fiume. Ero oramai furioso: Antonio aveva detto dieci minuti. Le imbarcazioni sul Rio continuavano il loro viavai movendosi come delle vecchie tartarughe. Una di queste attraccò a pochi metri dalla chiatta. Era una barca moderna di media dimensione. Scesero a terra un paio di orientali. Forse giapponesi. O forse coreani. Si incamminarono su lungo il pendio. Gli altri due rimasero a bordo. Ridevano e parlavano ad alta voce nel loro incomprensibile idioma. Non mi parevano pericolosi, ma tenni comunque il fucile a portata di mano. Un'altra lunghissima ora. Avevo come l'impressione di imbarcare acqua. Ma non sul pontone, intendo. La stavo imbarcando nella mia testa. Ero davvero arrabbiato con il capitano. Udii gli orientali alzare il tono del loro inarrestabile vociare. Erano decisamente agitati. Uscii dalla cabina. Quello con i capelli lunghi imbracciava un fucile. Iniziò ad esplodere dei colpi in direzione del centro del fiume. Vi era un grosso animale impegnato a nuotare affannosamente. Mi sembrava un tapiro. L'orientale sparò un numero di colpi impressionante, mentre il suo compare lo incitava roteando le braccia e schiamazzando come un bambino. Un proiettile andò a segno sul dorso della bestia rilasciando un rumore sordo. Fu come un colpo d'accetta su di un tronco imputridito. La bestia emise dei versi da brivido. Rantolò e si rovesciò e si dimenò con scatti violenti. L'animale sapeva che di lì a poco sarebbe morto annegato. I due si scambiarono congratulazioni e pacche sulle spalle. Pensai che fossero proprio due idioti. Non avevo mai sparato a un animale. Non mi pareva una grande impresa uccidere una bestia mentre attraversava un fiume. Neanche per due cacciatori scalcinati come quelli. Li mandai mentalmente al diavolo e rientrai in cabina. Vi fu un altro breve acquazzone. Il caldo rimaneva comunque opprimente. Vidi ritornare indietro i due orientali. Quello più alto aveva un sacco di tela sulle spalle. Era quello di Antonio. E quelli erano i mercanti. Ripresero il largo chiacchierando e ridendo. Calò il buio e con esso anche un po' di frescura. Come accadeva ogni notte l'aria ritornava respirabile. L'aria fresca permetteva di ragionare. Non ero più arrabbiato, perché a quel punto mi convinsi che doveva essere accaduto qualcosa al capitano. Solo così si poteva spiegare il suo ritardo. Decisi di scendere e di andare alla sua ricerca. Presi il fucile e mi incamminai. La luna piena rischiarava bene il percorso e quando fui sulla sommità che digradava verso san Felipe, mi girai a osservare il pontone. Mi convinsi che non c'era alcun pericolo a lasciarlo incustodito, visto che in tutto il giorno erano giunti sul pontile due indio e quattro giapponesi. O quello che erano. Le baracche distavano due chilometri, e alcune di esse erano illuminate. I rumori notturni della foresta erano inquietanti. Almeno lo erano per me. Non c'era gente. L'unico segno di vita proveniva da una baracca molto grande e bassa dalla forma rettangolare. Man mano che mi avvicinavo il baccano era sempre più forte. Era un generatore di corrente a gasolio. Quell'edificio era una bettola. E dagli schiamazzi che si irradiavano nell'aria, lì dentro l'alcool doveva scorrere come l'acqua nel grande fiume che mi ero lasciato alle spalle. Mi affacciai ad una finestra. Molta gente era a ridosso di un bancone lercio in legno scuro fatto a ferro di cavallo. Su molti tavoli vi erano altri che giocavano a carte, fumando e bestemmiando. Al centro della stanza un enorme mulatto stava sfidando un indio a braccio di ferro, e intorno a loro molti altri li incoraggiavano a dare il meglio di loro stessi. Poi lo vidi in un tavolo d'angolo. Antonio fumava e teneva sulle ginocchia una donna indio. La donna era brutta e ancora più brutto era il vestito sgualcito che indossava. Entrai di slancio. Nessuno fece caso a me e al mio fucile.
"Capitano! Porca puttana! Avevi detto dieci minuti!"
L'altro strabuzzò gli occhi e rovesciò la donna per terra. Capii che non aveva alcuna intenzione di scusarsi, anzi. Era in piedi e menava un pugno per aria.
"Razza di imbecille! Ti avevo detto di rimanere sul pontone!"
Non mi persi d'animo. Avevo tutte le ragioni del mondo dalla mia parte.
"E tu avevi detto dieci minuti! È notte! E ti trovo qui con questa baldracca!"
Nessuno, ma proprio nessuno, fece caso al diverbio. Antonio gettò sul bancone alcuni cruzeiro e partì di corsa, lasciandomi lì come un cretino. Ero così sorpreso che non sapevo cosa fare. Infine mi decisi e partii a mia volta di corsa verso la chiatta. Antonio era ubriaco e velocissimo e non riuscii a mantenere il suo passo. Arrivai giù al pontile ansimando. A causa dello sforzo non mi ero ancora accorto di niente. Antonio era con le mani nei capelli. La chiatta era sparita. Mi si parò davanti. La sua faccia al chiaro di luna era una maschera mostruosa. La sua voce pareva provenire dall'oltretomba.
"Sono stati silenziosi. Silenziosi e astuti. Hanno tagliato le gomene e l'hanno lasciata scivolare sulla corrente. Poi avranno di sicuro acceso i motori, e a quest'ora…"
Mi ritornarono alla mente i due indio. Dissi:
"Ma come potevo immaginare?"
"Razza di imbecille! Ti avevo detto di non muoverti da qui! E ti avevo sottoposto anche alla prova questa mattina. E il responso era stato chiaro maledizione!"
"Il responso? Ancora con quella storia?!" Replicai fremendo.
"Sì, il responso! Tu sei uno incapace di muoverti per conto tuo! Che cazzo ti è saltato in mente di allontanarti dal pontone?!"
Sferrò un pugno verso il mio volto, ma lo mancò clamorosamente. Era troppo ubriaco. Tremavo dalla rabbia. E anche dalla paura. Non me la sentii di reagire. Si voltò verso il fiume e sputò nell'acqua.
"Siamo rovinati. È la fine per noi."
Dissi:
"Proviamo a riprenderli. Ci sarà pure il modo…"
Si voltò di scatto.
"E come li riprendiamo?! A nuoto?! O li inseguiamo con un taxi?! Eh?!"
Si riportò le mani sulla faccia.
"Sai cosa ci succederà ora? Ortega ci farà tagliare la gola! Dobbiamo lasciare il continente. E alla svelta!"
Sudavo come non avevo mai sudato prima nella foresta.
"Troveremo il modo di ripagarglielo. Raccontiamogli come sono andate le cose, io non credo che…"
"Stai zitto!" Gridò selvaggiamente.
"Dove li troviamo i soldi per ripagargli il pontone?! E il carico?! Siamo nella merda! Quel pidocchioso di Ortega ha fatto uccidere degli uomini per molto meno. È uno dei padroni di questo maledetto fiume. Siamo morti! Ed è tutta colpa tua brutto stronzo!"
A quel punto esplosi anch'io.
"Figlio di puttana! Avevi detto dieci minuti! E invece hai passato il giorno a ubriacarti!"
Mi incollò gli occhi addosso.
"Dieci minuti o dieci ore, qui nella foresta hanno lo stesso significato! Sei qui da un anno e non lo hai ancora capito?!"
Non mi lasciò il tempo per rispondere. Mi afferrò per il collo. Lo colpii con un pugno e lui non se ne accorse. Anche lui mi colpì con un pugno e mi scaraventò in acqua. Quando riemersi lui era lì sul pontile. Protese l'indice su di me come fosse stato una pistola.
"Non azzardarti a uscire da questa merda di fiume! Non farlo perché altrimenti ti ammazzo!"
Forse avrei dovuto uscire e prenderlo a pugni. Ma ero stanco. Molto stanco, e non solo fisicamente. E poi non avevo mai fatto a pugni sul serio in vita mia. Decisi di fare la cosa che forse mi era sempre riuscita meglio: il morto. Il fiume mi trascinava placidamente, e io altrettanto placidamente me ne stavo lì con la faccia rivolta verso il cielo e le gambe e le braccia allargate. Mi ero fatto trasportare dalla corrente per tutta la vita. Non avevo alcun motivo per non farlo in quel momento. Udii il capitano Antonio piangere e muggire disperatamente, là sul pontile.
"Mi ero fatto una posizione, e ora ho perso tutto per colpa di quel disgraziato. Dovrò ripartire da zero! Chissà dove e come…"
La mascella mi doleva ancora a causa del colpo subito.
"Una posizione?" Pensai. "Trasportare legname proibito e commerciare in teste? Che pagliaccio."
L'acqua era fresca, e aveva ancora un lungo viaggio da percorrere prima di arrivare all'oceano.

 

 

Più o meno disadattati.
Due sottoproletari tentano di dare una svolta alla vita. Ma non tutto va per il verso giusto.



"Non capita tanto spesso di prendere delle decisioni nella vita."
Lo guardai di sfuggita negli occhi. O meglio: nell'occhio. Infatti uno era di vetro. Dava l'idea di un fondo di bottiglia.
"Voglio dire che se anche ci sembra di prenderne in continuazione, la realtà è molto diversa."
"Davvero?" Dissi accendendomi una sigaretta.
"Sì, è già stato tutto incanalato da altri."
"Incanalato?" Ripetei facendo oscillare leggermente la testa.
"Sì, è già stato deciso tutto da altri."
Vuotò il bicchiere e disse ancora:
"No. Forse così non è corretto. Volevo dire che non è proprio deciso tutto dagli altri. È deciso dalle cose e dagli eventi che si muovono per conto loro. E così a noi resta l'impressione di aver fatto delle scelte. Ma non è così!"
Concluse con una certa enfasi. Fissavo la mia sigaretta che si fumava da sola. Dissi:
"Credo di non avere capito un cazzo. E te lo dico con una mano sul cuore. Sia chiaro. Senza nessuna intenzione di offenderti. Anzi apprezzo veramente il tuo sforzo."
Emilio era un gran chiacchierone. Da sempre. E non si perdeva mai d'animo. Fece schioccare le labbra. Si sforzò di riprendere in mano la situazione.
"Vediamo di ricapitolare. Tu mi hai appena detto che sei stanco di farti prendere per le palle da quella donna grassa e stupida che ora e anche incinta. Sono tue parole. Giusto?"
Alzai lo sguardo sulla tappezzeria verde marcio del suo salotto. Annui.
"Sì, ho detto così."
"Poi hai anche detto di essere stufo di fare un lavoro di merda per quattro soldi."
"Già."
La sua tappezzeria non si limitava a sembrare marcia. Emanava anche uno strano odore di uova avariate.
"E poi hai aggiunto di averne le palle piene di vivere in affitto in un buco di tre stanze. Giusto?"
Mi volsi verso la finestra alla mia sinistra. Era così unta che quasi non si vedeva fuori.
"Sì, all'incirca ho detto così."
"Bene." Fece lui soddisfatto.
Scoppiò improvvisa una lite nell'appartamento di fianco. Erano marito e moglie. I muri dovevano essere di cartone, perché sembrava che litigassero nel salotto di Emilio. Quest'ultimo continuò a parlare senza scomporsi.
"E io ti ho detto che ti trovi in queste condizioni perché non hai mai preso una vera decisione in vita tua. Ti è tutto rotolato addosso. La donna grassa, il tuo lavoro di merda e tutto il resto."
Udii anche degli strani rumori sotto il mobile di compensato alla mia destra. Forse erano topi.
"Bene. Tu come me sei stanco di essere un sottoproletario. Vero?"
Dissi:
"Un sotto cosa?"
L'inquilino di sopra tirò l'acqua dello sciacquone. Anch'io abitavo in una casa popolare. Era una cosa davvero triste. Emilio non si perse in spiegazioni. Voleva arrivare al dunque.
"Ora hai la possibilità di fare una scelta. Di decidere, appunto. Hai trentacinque anni e questa è la tua prima vera decisione che puoi prendere. E non capita a tutti."
Si versò un altro bicchiere. Sorrise. Mi era sempre piaciuto il suo sorriso. Fin da quando eravamo bambini. Disse:
"Puoi dare un calcio a tutto e cambiare vita."
La cenere della mia sigaretta cadde a terra. Cadde lentamente. Come al rallentatore. E io non potevo e non volevo oppormi a quel crollo. Poi dissi:
"Sì cazzo! Avrai anche ragione. Ma devo cambiare vita proprio con una rapina in banca?"
Emilio si rovesciò in gola l'ennesimo bicchiere. Poi dichiarò seriamente:
"E perché no?"
Quella chiacchierata, che nella realtà era durata parecchi minuti, mi si ripresentò nella testa con la velocità di un lampo, mentre uscivo correndo affannosamente dalla banca. Ero stravolto. E quando si è stravolti, nella nostra testa il tempo ne risulta deformato. Il cervello evidentemente si trova nelle condizioni di farti rivivere pezzi della tua vita in pochi attimi. Questo è quanto ho appreso in quella situazione.
"Dai! Dai parti!"
"Come parti?! E Lucio?"
"È là dentro steso per terra! Parti!"
Emilio fece sgommare rabbiosamente l'auto.
"È stato colpito?"
"Certo! Cosa credi? Che sia là dentro a farsi un pisolino?!"
"Che è successo?"
"Un casino! Ecco cosa è successo!"
"Spiegati cazzo!"
Schivò un uomo e il suo cane per un soffio.
"Ma ti sembra il momento questo?! Te lo racconterò dopo! Pensa a guidare!"
"Dimmi cosa è successo!"
"Ma che vuoi che sia successo? Non li hai sentiti gli spari là dentro?"
Passò con il semaforo rosso a velocità folle.
"No. Non ho sentito niente. Forse perché avevo il volume della radio troppo alto."
"Ma…Ma porca puttana! È da non credere."
Sorpassò un autobus sulla destra. Poi si infilò in un senso unico facendo sbandare un postino in bicicletta.
"Io e quell'altro stavamo rapinando una banca cazzo! Dico una banca! E tu ascoltavi la radio?!"
"C'era il mio programma preferito. E poi lo sai che la musica classica è l'unica cosa che riesce a rilassarmi!"
Dopo la gimcana nel senso unico, sbucammo in un incrocio colpendo di lato un'auto rossa. Qualche bestemmia ed Emilio ripartì di slancio con la macchina e con la lingua.
"Dimmi cosa è successo e dimmi quanti soldi ci sono nella borsa!"
"Piantala! E poi non li ho mica contati!"
"Più o meno! Quanti sono?"
"Se non la finisci ti butto fuori dalla macchina!"
Finalmente si decise a chiudere la bocca. La borsa era vuota. Era vuota come la mia testa.
Lo conoscevo da sempre. Eravamo nati nello stesso squallido quartiere e avevamo passato l'infanzia fianco a fianco. Come due buoni compagni d'armi in trincea. Di fronte agli altri si dava arie da filosofo. Gli piaceva far credere di essere colto. Era sempre stato un gran chiacchierone ed era simpatico a tutti. E con i suoi infiniti giri di parole riusciva a farti ammettere di avere torto, anche quando eri sicuro di avere ragione. Ma non riusciva mai a rendersi antipatico. A nessuno. E quella era una specie di magia. E gli piaceva anche farsi passare per un dongiovanni. Se tu vedevi una per strada che faceva la sua bella figura, lui ti diceva che se l'era già fatta. Emilio non aveva una bella faccia. Era lunga e anemica. Con quell'occhio di vetro poi…
Una donna era sulle strisce pedonali mentre spingeva la sua carrozzina. Chiusi gli occhi e sentii l'auto sbandare prima da una parte poi dall'altra. Lo sentii imprecare. Mi girai verso il lunotto. La donna era ancora là in mezzo alla strada con la sua carrozzina azzurra. Oltre alle mani mi tremava anche la gola. Dissi:
"Sei stato in gamba a lasciarla dov'era. Però adesso rallenta. Rallenta un po'. Non c'è l'ombra di un poliziotto in giro. Rallenta."
"Tranquillo. Lo sai che so sempre quello che faccio."
"Emilio non vantarti con me. Io ti conosco bene."
"Così mi offendi. Che vuoi dire?"
Lo sapevo io cosa volevo dire.
Avevamo quindici anni quando un suo zio gli regalò una canna da pesca scassata. Si presentò fieramente a casa mia dicendo:
"Andiamo alla vecchia cava. Voglio insegnarti a pescare."
Ricordo di avergli risposto:
"Come puoi insegnarmi una cosa che tu non sai fare?"
Lui si inalberò.
"Quand'è che capirai che so sempre quello che sto facendo?!"
La vecchia cava era stata abbandonata da anni, ed essendo colma d'acqua qualcuno aveva pensato bene di buttarci dentro dei pesci. Era là che andavano di norma i poveracci a rilassarsi. Emilio stava roteando la canna al di sopra della testa.
"Vedi? Il polso deve essere morbido. E la lenza deve andare avanti e indietro prima del lancio. Fa' attenzione! Osserva bene come si deve tuffare l'esca. Deve appoggiarsi sull'acqua senza creare dei rumori sospetti. I pesci sono estremamente diffidenti."
Diede un colpo secco alla canna. L'amo gli afferrò l'occhio destro e glielo trascinò nell'acqua. Credo che subito non se ne fosse neppure accorto. La sua lezione di pesca sportiva finì lì. E la cosa tragica, o comica, fu che mentre lo soccorrevo una grossa trota abboccò. Chissà, forse quel grosso pesce non riuscì resistere alla tentazione di addentare quella strana esca rotonda.
"Dai Emilio rallenta! Non serve più correre ora. Così attiriamo solo l'attenzione."
Sbuffò.
"D'accordo, d'accordo. Però ora dimmi come è andata."
Non sapevo da dove iniziare. Udimmo una sirena. Ci guardammo attorno. Disse:
"Ma da dove arriva? Tu vedi qualcosa?"
I nostri tre occhi non furono sufficienti in quell'occasione.
"Attento per Dio!"
L'auto della polizia sbucò da una laterale e la colpimmo in pieno. L'urto fu violento. Ci girammo attorno un paio di volte andando a sbattere su di un furgone in sosta. Avevo picchiato la testa sul finestrino laterale. Scendemmo barcollando tra le grida dei passanti. Non sapevano che eravamo dei rapinatori e qualcuno volle prestarci soccorso. Ero disorientato e la testa mi faceva male. Ricercai con lo sguardo l'auto dei poliziotti. Era finita dentro a una vetrina a trenta metri da noi. Gli occupanti parevano tramortiti. Sebbene Emilio si trovasse a un metro dalle mie orecchie, urlò a squarciagola:
"Prendi la borsa! Diamocela a gambe!"
"Non c'è niente nella borsa!" Gridai ancora più forte.
L'altro rimase impietrito. E la gente attorno a noi capì che non eravamo due turisti.
"Cosa?! E dov'è il malloppo?!"
"Non c'è nessun malloppo!"
La gente incominciò a correre in tutte le direzioni. Avevano capito ed erano terrorizzati. Una giovane donna si trovava di fronte a noi all'interno della sua auto. Non sapevo dove fosse la mia pistola e così la minacciai con un dito. In un'altra circostanza ne sarebbe risultata una scena davvero ridicola.
"Esci dalla macchina! Subito!" Le intimai ricorrendo a tutta la mia riserva di ferocia.
Lei era talmente impaurita che non riusciva a muoversi. Fui costretto a rimuoverla di peso dall'abitacolo. Emilio nel frattempo non aveva smesso di sbracciarsi e di gridare per un solo secondo.
"Che diavolo vuol dire che la borsa è vuota? Mi devi delle spiegazioni! Io adesso voglio saperlo!"
Ero al posto di guida e vidi uno dei poliziotti uscire dalla vetrina sostenuto da alcuni passanti.
"Sali per Dio! Quello tra poco incomincia a sparare!"
Girai la macchina con un'unica manovra e diedi tutto gas. L'altro continuava a strepitare. Ma non potevo badargli. Ero troppo occupato a spingere sull'acceleratore come un dannato.
Era stato Emilio a presentarmi Lucio. Fu antipatia a prima vista. Era un ruba galline ed era stato dentro qualche volta. Parlava lentamente, portava i capelli all'indietro ed era convinto di essere un gangster. Era solo un gradasso e si muoveva come solo un gradasso sa fare. Nel piano ideato da Emilio ero io che dovevo rimanere in auto fuori dalla banca. Ma Lucio quella volta, con il suo fare insopportabile, emise una sentenza.
"No! Niente da fare! Non voglio che sia un guercio a coprirmi le spalle dentro una banca."
Puntò entrambi gli indici su di me e disse:
"Anche se sei un cacasotto, voglio te là dentro."
Tentai di protestare in un primo momento. E stavo per mandare tutto al diavolo, in un secondo momento. Ma Emilio riuscì a riaggiustare il tutto con la sua infallibile favella. Intendo dire che mi convinse ad accettare la soluzione proposta da Lucio. In quell'occasione mi resi conto che forse ero diventato troppo succube di Emilio. E la cosa lì per lì mi infastidì. Ma poi pensai che in fin dei conti mi ero lasciato convincere per un valido motivo. E quel motivo si chiamava: prendere a calci la vecchia vita e farmene una di nuova.
Avevo perforato la periferia e la zone industriale in un battibaleno. Presi la direzione che portava in aperta campagna. Là c'era una cascina abbandonata dove avevamo nascosto un'auto per continuare la fuga senza dare nell'occhio. Di quella faccenda se ne era occupato il ruba galline qualche giorno prima del colpo. Io ed Emilio non avevamo la più pallida idea di come scassinare la portiera di un'auto e fummo ben felici di delegare il furto a Lucio. E lui da parte sua fu ben felice di far vedere di che pasta era fatto. Era un bulletto di periferia, ma almeno sapeva rubarle le macchine.
Diminuii la velocità deciso a esporre i fatti al mio socio che non accennava a darmi tregua. Avevo un forte mal di testa. Dissi:
"Se adesso ti calmi…"
Mi interruppi imprecando. L'auto infatti iniziò a tossicchiare e a perdere clamorosamente colpi. Emilio chiuse la bocca per qualche istante. Poi disse:
"E allora? Ti sto ascoltando."
Picchiai un pugno sul cruscotto. Il serbatoio era a secco.
"E allora? Che aspetti? Sono calmo. Parla! Parlami di quei dannati soldi!"
"Cosa aspetto?! Siamo a piedi Emilio. Non lo vedi cazzo che siamo a piedi?!"
Ci fermammo sul ciglio della strada deserta. Spingemmo l'auto sul fossato che delimitava la carreggiata. Poi ci inoltrammo nel campo in direzione del covo. Oltrepassammo un filare di viti. L'uva era bianca e matura e ne colsi un grappolo per tentare di placare la sete. Mi accorsi che Emilio zoppicava leggermente. Erano i postumi dell'incidente con i poliziotti. Non ci pensai neppure per un attimo a diminuire l'andatura. Ci infilammo in un campo di frumento. Il sole era alto e non c'era una nuvola a ripararci. Era caldo e la testa pareva dovesse esplodermi da un momento all'altro.
"Vai piano! Non ce la faccio più."
Lo avevo distanziato almeno di trenta metri. Mi fermai.
"Vuoi farti un riposino? Prego! Accomodati! Che fretta c'è?!" Lo ripresi infastidito.
Mi raggiunse.
"Solo un attimo. Lasciami riprendere fiato."
Lo guardai in faccia. Dissi:
"Siamo nella merda. Vero Emilio?"
Mi aspettavo uno dei suoi soliti discorsi. Uno di quelli in cui riusciva a convincerti del contrario. Ma lui tacque e annuì. Era la prima volta che lo faceva in vita sua e fui percorso da un brivido. Riprendemmo la marcia. Ci immettemmo in un campo in cui l'erba era stata tagliata da poco. L'odore era pungente. Pungente ma piacevole. Scorsi in lontananza una figura umana. Era un contadino. Quello piantò il forcone a terra e iniziò a gridare qualcosa. Di sicuro non voleva invitarci a bere il suo vino. Aumentammo l'andatura. Emilio oramai si trascinava. Sparimmo oltre un altro filare di viti e colsi un altro grappolo perché avevo la gola in fiamme. Camminammo ancora a lungo. Poi mi arresi. Dissi:
"Tu hai idea di dove siamo?"
L'altro sbarrò gli occhi, e quello di vetro per poco non gli uscì fuori dall'orbita.
"Vuoi dire che non lo sai?! Ma che cazzo! Io ti ho seguito perché ero convito che sapessi dove cazzo stavi andando!"
"Dobbiamo ritornare indietro sulla statale." Gli risposi con un filo di voce.
L'altro pestò i piedi per terra.
"No! Ora non è più possibile! Rimaniamo qui finché non sarà buio. Poi vedremo cosa si può fare."
Gli diedi ragione. Ci sedemmo all'ombra di un grande ciliegio. La campagna era quieta e stupenda. Mi accesi una sigaretta. Emilio dopo essere ritornato in forze si decise ad affrontarmi.
"Adesso abbiamo tutto il tempo che vogliamo. Dimmi cosa è successo là dentro. Perché sei uscito senza i soldi?"
C'erano dei piccoli uccelli che fischiettavano allegramente sulla cima del ciliegio. Tentai di individuarli. Volevo riordinare le idee.
"Allora?" Continuò l'altro. "Sei diventato un ornitologo?"
Avrei voluto essere anch'io lassù a cinguettare allegramente. Lo guardai in faccia. Dissi:
"Stava andando tutto bene. Lucio era davanti alle casse con la borsa in mano. Io ero dietro di lui e tenevo sottotiro i clienti e la guardia che già avevamo disarmato."
Aspirai voracemente una boccata di fumo. La sua faccia era fissa su di me.
"A un certo punto Lucio mi dice di farmi consegnare i portafogli e gli orologi dai clienti."
"Ma questo non era nei piani." Sibilò Emilio.
"Già. E quello che gli ho detto anch'io. Adesso non ricordo lo scambio di parole precise, ma a furia di parlare qualcuno mi ha riconosciuto."
"Qualcuno cosa? Stai scherzando spero!"
"Ti sembra che ti stia raccontando una barzelletta?"
"Ma avevi il passamontagna! Tu e anche quell'altro! Come hanno fatto a riconoscerti? E chi sarebbe stato poi?"
"Hanno riconosciuto la mia voce! Non la mia faccia!"
Avevo alzato il tono e i piccoli volatili sopra alla nostra testa si impaurirono. Smisero di fischiettare.
"Chi ti ha riconosciuto? Chi?!"
"Mia zia e mio cugino. Erano lì tra i clienti. C'erano almeno venti persone. E loro erano là in mezzo. Ero talmente agitato che non li avevo nemmeno visti." Risposi spegnendo la sigaretta sul tronco.
"Oh cazzo! Oh cazzo!" Fece l'altro.
Poi rimase lì a guardarmi.
"È stata una cosa imbarazzante." Mormorai appena.
Emilio riprese la parola.
"D'accordo, ma perché avete sparato? Non era tutto sotto controllo?"
"Eh, mica tanto a quel punto. Sì, perché mio cugino mi ha chiesto cosa facevo lì con una pistola in mano."
"E tu? Cosa hai detto?"
"Che mi stavo guadagnando da vivere. O qualcosa del genere."
"E Lucio?"
Gli uccelli ripresero timidamente a cinguettare. Mi piaceva sentirli. Dissi:
"Quell'idiota si è incazzato."
"Oh cazzo! Oh cazzo! E che ti ha detto?"
"Piantala di far conversazione con quel sacco di merda! Una di queste sere farete una rimpatriata e poi andrete a nanna insieme! Ma adesso fatti dare i portafogli! Così ha detto quello stronzo!"
"E tu?"
"E io? Io gli ho detto di farsi i cazzi suoi! Già ero teso che quasi mi mancava il respiro, e quello mi stava facendo fare una figura di merda davanti ai miei parenti!"
"Ma lui stava raccogliendo i soldi?"
"Sì certo."
"E tu hai preso i portafogli e l'altra roba?"
"No. E come potevo? Ero troppo confuso. I miei parenti erano lì e mi guardavano. Erano almeno tre anni che non li vedevo. Ero costretto a fare qualche parola con loro. Mi capisci? Se non altro per tranquillizzarli."
La sua faccia si era dilatata.
"Emilio."
"Sì?"
"Sta per saltarti fuori l'occhio."
"Cosa?"
"L'occhio per Dio!"
Lui rovesciò la testa all'indietro. Guardai il cielo. Un aereo volava altissimo e lasciava dietro di sé una lunga scia bianca. Avrei dato un braccio e anche dell'altro per essere lassù. Da di là avrei potuto guardare il mondo diversamente. Fregandomene di quei due poveracci senza speranza sotto un ciliegio.
"Dammi una sigaretta."
Dissi:
"Ma avevi smesso."
"Ti ho detto di darmi una sigaretta."
Aspirò e tossì.
"Raccontami il resto."
"Il resto? Quello continuava a rompermi la palle! Sbraitava!"
"Ma quanto sei andato avanti a parlare con quel cazzo di tuo cugino?! E poi cosa avevate da dirvi di così importante?"
"Ti ci metti anche tu?" Gli risposi risentito.
"Stavi facendo una rapina! Che diavolo avevate da raccontarvi di così importante?!"
Mi portai alle labbra un'altra sigaretta. Ne avevo altre due nel pacchetto. Mi erano rimasti anche quattro cerini. Era tutto quello che avevo.
"Mia zia era stata vittima di un incidente. Si era fatta sei mesi di ospedale. Che dovevo dirle? Guarda che non me ne frega un cazzo?! E questo che dovevo dirle dopo anni che non la vedevo?"
"Vittima di un incidente?"
"Sì, mi ha detto che stava attraversando la strada, sulle strisce pedonali sia beninteso, e una mercedes nera l'aveva travolta. E il conducente non si era nemmeno fermato. Era scappato a tutta velocità!"
"Che pezzo di merda!"
"E quello che ho detto anch'io. Be', a quel punto Lucio è andato fuori di testa. Più di prima, intendo."
"È ovvio! Cerca anche tu di capire. Eri lì per fare una rapina. Mi dispiace per tua zia, ma devi capire."
"No, no. Quello è andato fuori di testa per un altro motivo."
"Cioè? Spiegati. Che ha detto?"
Mi schiarii la voce. Provai a imitare il tono di Lucio.
"Brutta troia rimbambita! Quando attraversi la strada devi fare attenzione! Con i danni che mi hai fatto sul cofano e sul parabrezza di quella mercedes, sono stato costretto a piazzarla alla metà del suo valore!"
"Cosa?!"
"Sì, era stato Lucio a investirla! Era stato lui a fregare quella mercedes. E scappando l'aveva mandata a gambe all'aria!"
Si portò le mani sui capelli.
"Oh cazzo! Oh cazzo!! Oh cazzo!!! E poi?"
"Be', il resto puoi anche immaginarlo."
"Eh no bello! Io non immagino proprio niente! Cosa è successo dopo?"
"Gli ho detto di chiedere scusa a mia zia! E vorrei vedere! Prima la investe, e poi le dà anche della troia!?"
"E lui?"
"Be' lo sai anche tu che era un pezzo di merda. Quello ha incominciato a ridere. Ho dovuto puntargli la pistola addosso."
Si aggrappò al tronco del ciliegio. Picchiò ripetutamente la testa su di esso.
"Dimmi che sto sognando! Dimmi qualsiasi cosa! Ma non dirmi che vi siete sparati addosso! Dimmelo!"
"Eh, che vuoi che ti dica Emilio? Non volevo sparargli. Ero teso. Mi girava la testa e faticavo a respirare. Non volevo assolutamente sparargli. Non lo so come sia successo. È partito un colpo. Non ho mai maneggiato quegli aggeggi. Non l'ho deciso io. È come dicevi tu con quella storia delle decisioni. È tutto incanalato dagli altri e dalle cose che girano per conto loro. Non dicevi così?"
Gli uccellini sul ciliegio si erano abituati a noi. Erano allegri. Chissà di che cosa parlavano tra di loro. Emilio non fiatava. Era come una mummia con un occhio finto. Poi fui colto dal sospetto che i volatili stessero commentando quanto avevano udito uscire dalle nostre bocche. Qualcuno mi dava ragione. Altri no. O forse mi stava semplicemente dando di volta il cervello. Noi rimanemmo in silenzio per cinque minuti buoni.
"Sei sicuro che è morto?"
"Sì Emilio. L'ho preso nel petto. È caduto all'indietro sparando tre o quattro colpi sul soffitto."
Pareva invecchiato di cent'anni.
"E la borsa? Perché sei uscito con la borsa vuota?"
"Anche la borsa era caduta con lui. Si era rovesciata. C'erano soldi sparsi ovunque. Io l'ho raccolta e fuggendo sono usciti anche i pochi che erano rimasti dentro."
Il dolore alla testa stava passando. Dissi:
"E adesso?"
"Andiamo a costituirci. Non vedo altra soluzione." Rispose senza esitare.
Scattai come una molla.
"Eh no! Ho appena ammazzato uno! Mi daranno l'ergastolo!"
"Ma quale ergastolo! Hai accoppato un criminale! Ti daranno una medaglia. L'importante sarà che tu tenga la bocca chiusa. Lascia parlare soltanto a me. Hai capito? Sistemerò tutto."
"No, no Emilio. Tu hai già parlato abbastanza in questi ultimi trent'anni!"
Rimase zitto. Il suo silenzio era inquietate. Non ero abituato vederlo così. Rimanemmo sotto il ciliegio e sotto i cinguettii. Mi sarebbe piaciuto rimanere là per sempre. Senza dover dire o fare e senza preoccuparmi. Stare semplicemente là ad ammirare il cielo azzurro. E a incoraggiare l'erba a farsi alta e bella.


 

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