CRONACHE
DAL RISORGIMENTO
di Marco Maggioni
I racconti si sviluppano come tante telecronache d'epoca al servizio del quotidiano torinese "Risorgimento".
Alla stregua di pezzi redazionali si illustrano episodi marginali o eventi storici conosciuti, mediante la cronaca di ciò che avviene dietro le quinte, dove i comprimari del Risorgimento ci appaiono in un quotidiano fatto di compromessi, di errori, di intrighi, di esaltazioni e gesti eroici.
1948 - LO SCIOPERO DEL FUMO
E' il preludio alle famose 5 giornate di Milano, quando la popolazione insorge con le armi contro gli austriaci. Due mesi prima i liberali milanesi instaurano una singolare protesta: decidono di non comprare più tabacco da fumo, non solo per arrecare danno alle casse dell'Austria, ma soprattutto per dare un segnale politico di opposizione.
Nel marzo 1848 Milano insorge contro gli austriaci; dopo 5 giornate di lotta li caccia dalla città.
Due mesi prima delle famose giornate c'è stato un tentativo di agitazione legale che mette in imbarazzo le autorità austriache.
Speciale da Milano. Una singolare protesta ha coinvolto parecchi cittadini e impegnato forze dell'ordine e autorità pubbliche.
Già a dicembre i liberali milanesi hanno voluto chiudere il 1847 con un atto che è sembrato provocatorio alle autorità austriache. Hanno celebrato il 31 dicembre in S.Eustorgio, una messa speciale in onore di papa Pio IX, che con le sue recenti riforme è assurto a simbolo e guida del moto per le riforme.Gli ideali e i programmi del liberalismo moderato trovano difatti un forte appoggio nelle misure che il nuovo papa instaura nello stato pontificio:
un'amnistia politica, una relativa libertà di stampa, la creazione della consulta di stato, e di una guardia civica, danno l'immagine di un papato riformista e ciò incoraggia le diverse anime del movimento liberale in tutta Italia.L'Austria preme per una linea di fermezza e di contrasto: quando infatti il 1 e il 2 gennaio la grande maggioranza dei milanesi si astiene dal comprare tabacchi e dal fumare, le autorità sono preoccupate non tanto per le casse dello stato, ma per il significato politico che la protesta assume.
All'inizio la polizia mantiene un atteggiamento prudente.
Si limita ad affiggere per le strade avvertimenti e proclami.
In seguito comincia a rendersi conto di ciò che serpeggia per la città.
Il 1848 è un anno bisestile e, come si sa, preannuncia turbamenti: quindi nulla di buono per Milano!Agenti provocatori causano scontri che diventano gravi la sera del 3 gennaio:
molti cittadini sono aggrediti a sciabolate e nella confusione sono colpite anche persone estranee; secondo notizie attendibili vi sono sei morti e più di cinquanta feriti.La notizia del drammatico epilogo dello sciopero del fumo si è diffuso rapidamente per tutta l'Italia e ha sollevato proteste, manifestazioni di cordoglio e di solidarietà coi lombardi e di esecrazione per l'Austria.
Le novità si susseguono di giorno in giorno in questo fatidico '48. Ferdinando di borbone nelle due Sicilie, Carlo Alberto re di Sardegna, Leopoldo II di Toscana e infine Papa Pio IX concedono la costituzione. La vecchia Europa assolutista sta per essere travolta dalla giovane Europa sognata da Mazzini.
I sovrani italiani pensano tutti che sia meglio mettersi alla testa dei moti italiani e indirizzarli verso una soluzione confederale tra stati, anziché essere travolti da una rivoluzione repubblicana. Lo stesso Mazzini cede a questo compromesso pur di cacciare gli austriaci dall'Italia.
In questo quadro e in questa tensione ideale si collocano le manifestazioni dei cittadini lombardi.
L'insurrezione di Milano, insieme alla creazione della repubblica a Venezia, l'intervento di Carlo Alberto, la crisi dell'impero asburgico creano in tutti gli stati italiani nel 1848 una situazione di generale entusiasmo patriottico, di cui la singolare protesta del fumo è un civilissimo anticipo.
1849 - NOTIZIE DAL REGNO SARDO
Una misteriosa malattia del giovane Vittorio Emanuele II, appena insediato sul trono piemontese, mette in subbuglio la diplomazia italiana ed europea. E' l'occasione per un ritratto del sovrano che, nonostante la breve défaillance, si accinge ad affrontare i gravosi compiti che il destino gli ha assegnato per i prossimi ventinove anni di regno.
Torino, Maggio 1849, il Re Vittorio Emanuele II è tra la vita e la morte; il sovrano che ha appena 29 anni , è ai suoi primi mesi di regno.
Le notizie si susseguono imprecise e contraddittorie affidate a bollettini sporadici e a voci ufficiose.La primavera del'49 si presenta ben triste per i piemontesi.
L'illusione di poter battere l'Austria, riprendendo le ostilità interrotte con l'armistizio Salasco il 9 agosto 1848 al termine della prima fase della prima guerra d'indipendenza, è durata poco più di una settimana e si dissolve a Novara il 23 marzo. L'esercito piemontese cede di fronte all'armata austriaca e Carlo Alberto abdica sul campo a favore del figlio Vittorio Emanuele.
Ma chi è questo sovrano che eredita una situazione così drammatica, che con l'armistizio di Vignale ottiene certo condizioni più favorevoli di quelle che avrebbe ottenuto il padre, ma che consente agli austriaci l'occupazione militare di alcune piazzeforti piemontesi per l'intera durata della tregua d'armi?
che provoca così forti malumori un pò da per tutto, in particolare a Genova, roccaforte di democratici e repubblicani?Sulla valutazione del suo operato peseranno i giudizi degli storici. Intanto testimonianze italiane e straniere ci offrono di Vittorio Emanuele II un ritratto concorde:
robusto come un toro, forte come una quercia, di aspetto assai poco regale e, al contrario del padre, di gusti popolari dal cibo alle donne.E' tale la diversità con Carlo Alberto che si pensa e si scrive, anche da persone vicine agli ambienti di corte, che il vero figlio del re sabaudo, morto per ustioni a due anni, è stato sostituito con il figlio di un macellaio.
La stessa Regina Vittoria, che lo avrà ospite nel 1855, lo descriverà così:
"Il re ha una aspetto molto strano: più che a un re dei nostri giorni assomiglia a un cavaliere medioevale che viva della sua spada. Mi sono abituata ai suoi modi strani e rozzi e ai suoi occhi che roteano furiosamente. Il re a cavallo sembra essere un selvaggio, come in tutto il resto".
Per questo stupisce oggi sapere che il re è affetto da una misteriosa malattia che può mettere in crisi il regno.Fin dai primi di maggio si sono diffuse nel regno le prime voci sul male che ha colpito il giovane sovrano; è una forma di "reumatismo acuto", una malattia reumatica grave non soltanto per l'infiammazione che provoca nelle prime vie respiratorie e per i dolori alle articolazioni, ma anche per le possibili alterazioni cardiache, tanto più frequenti quanto più l'ammalato è in età giovanile.
Il male é giudicato subito molto serio e il 21 maggio Vittorio Emanuele II affida la direzione degli affari di Stato al fratello minore Ferdinando, duca di Genova.
Nel capoluogo ligure si diffonde addirittura la voce - come scrivono i fratelli De La Rue il 24 maggio a Cavour - che il re sia morto.
Anzi, l'ostilità verso la dinastia sabauda giunge al punto che il Municipio di Genova vota contro la proposta di un triduo per la salute del reMa la malattia del giovane re, anche se politicamente lo indebolisce nell'immediato, è rapidamente cancellata nell'immaginario collettivo.
Prevale subito una raffigurazione di Vittorio Emanuele II in cui la forza fisica si adegua all'altezza del compito fissato dal destino.
La stessa morte del padre, Carlo Alberto, avvenuta il 28 luglio in Portogallo ad Oporto, assolve, in certo modo, ad una funzione liberatoria lasciando tutta la scena al futuro re d'Italia.
1850 - PIO IX RIENTRA A ROMARoma 1850 : Il ritorno del Papa
Pio IX ritorna da Gaeta dove si era rifugiato a seguito della proclamazione della Repubblica Romana del '49. Grazie all'appoggio dei francesi e di Ferdinando II di Borbone rientra a Roma dopo circa un anno, organizzando un ingresso trionfale per apparire messaggero di pace e far dimenticare alla popolazione lo stato di oppressione vigente.12 aprile 1850: Pio IX è rientrato a Roma da porta San Giovanni. Proviene da Gaeta dove si é rifugiato un anno e mezzo fa dopo l'uccisione del capo del governo pontificio, Pellegrino Rossi
Sulle gradinate della basilica di San Giovanni in Laterano, il pontefice, scortato da truppe francesi, riceve le chiavi della città.Non manca certo una grande affluenza di pubblico, ma un osservatore attento e di sentimenti conservatori, come il ministro napoletano Giuseppe Costantino Ludolf, ha l' impressione che la gran folla riunita sia lì più per la curiosità che per l'affetto verso il sovrano.
Il ritorno del Papa, comunque, è in vario modo celebrato dentro e fuori lo Stato Pontificio. Pio IX in persona si prodiga in numerose apparizioni pubbliche.
La permanenza del papa a Gaeta, è durata un anno e mezzo: è in questo periodo che a Roma un'assemblea costituente, la prima in Italia eletta a suffragio universale, approva l'8 febbraio '49 la decadenza del pontefice "di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato romano;
e d'altro canto gli assicura tutte le garanzie necessarie per una piena indipendenza "nell'esercizio della sua potestà spirituale".La repubblica romana proclamata il 9 febbraio 1849 e dal marzo guidata da un triumvirato formato da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini, ha però vita breve
La repubblica infatti soccombe ai francesi chiamati dal papa..
Luigi Napoleone per ottenere l'appoggio dei conservatori del suo paese, si fa campione della causa pontificia. Le truppe francesi del generale Oudinot , il 3 luglio 1849, si impadroniscono della città proprio mentre in Campidoglio é promulgata una costituzione che non sarà mai applicata.
Ma il papa non è ritornato subito a Roma ; attende la primavera del 1850 , per rientrare nella sua capitale, cioè oltre 9 mesi dalla caduta della Repubblica.
Forse è la strenua resistenza opposta da Roma ai francesi e alle truppe di Ferdinando II di Borbone, respinte addirittura oltre i confini, a consigliare un rientro solo dopo una prima epurazione dell'elemento repubblicano.
Ora il pontefice può apparire come apportatore di pace.Lo stanno a testimoniare le medaglie commemorative coniate in questi giorni di aprile. Esse trasmettono un messaggio di pace.
Ma le formali gratificazioni di Pio IX nei confronti dei francesi che gli hanno restituito la capitale del suo Stato non riescono a celare le profonde frizioni tra le autorità pontificie e gli occupanti.
Non si tratta soltanto degli incidenti fra soldati francesi e popolani. C'è un contrasto politico di fondo . Il governo cardinalizio intende solo ripristinare l'ordine nello stato pontificio e punire i sobillatori.
I francesi invece si sforzano di cercare un punto di appoggio per il governo pontificio restaurato."Io riassumo così il ristabilimento del potere temporale del papa, scrive il 18 agosto 1849 il principe presidente Luigi Bonaparte, il futuro Napoleone III, a Edgar Ney:
"amnistia generale, secolarizzazione dell'amministrazione codice napoleonico e governo liberale".Nel clima della vittoria della conservazione in tutti i paesi in cui sono scoppiate le rivoluzioni del 1848-49, le possibilità di sviluppo democratico si trovano sostanzialmente bloccate.
Il liberalismo piemontese rimane l'unico punto di riferimento del moto di rinnovamento nazionale, nel quadro di questa restaurazione antiliberale e antinazionale, di cui lo Stato Pontificio è il più convinto assertore.
1851 - NAPOLI: UN PROCESSO POLITICO
La repressione di Ferdinando II di Borbone nei confronti del movimento liberale, coinvolge parecchi intellettuali napoletani, tra cui il più noto Luigi Settembrini. E' la storia di un processo politico, in cui il regno vuole da una parte dare una punizione esemplare, dall'altra dimostrare la propria magnanimità e benevolenza per non inimicarsi del tutto la popolazione.
Sono le due del primo febbraio 1851: La corte criminale di Napoli ha emesso la sentenza contro le setta dell'Unità italiana. Essa prevede la pena di morte per Salvatore Faucitano, Filippo Agresti e Luigi Settembrini.
Sono previsti inoltre due ergastoli, due condanne a 30 anni di ferri, due a 25 anni e così via via. Assolti otto.Ferdinando II di Borbone è il sovrano che venti anni fa, alla morte del padre Franceso I, suscitò grandi speranze, instaurando un buon rapporto con gli intellettuali e con la borghesia imprenditoriale.
Quelle speranze non durarono molto, è vero, ma più tardi, nel gennaio del '48, sulla scia delle riforme concesse da Pio IX, il Borbone, primo tra i sovrani italiani, concesse una costituzione.Tramonta presto l'idillio tra il pontefice e il movimento nazionale. Nello stesso anno, difatti, Ferdinando II sciolse il parlamento e ruppe definitivamente con il movimento liberale. Ritorna ad una politica volta a tenere il regno il più possibile isolato, protetto com'era, come soleva dire lo stesso sovrano, dall'acqua salata
( cioè a dire il mare) e dall'acqua santa ( cioè lo Stato pontificio).Il processo contro la setta dell'Unità italiana rappresenta l'attuazione di questa politica volta a colpire l'intellettualità meridionale , che, perseguendo l'ideale nazionale unitario, intende legare le sorti del Mezzogiorno d'Italia a quelle dell'intera penisola.
Il processo cominciato il 1° giugno 1850 dinanzi alla corte criminale di Napoli è durato otto mesi.
I 42 accusati sono quasi tutti ben noti a Napoli, per lo più nell'ambito delle professioni liberali; c'è anche un ex ministro: Carlo Poerio.Il procuratore generale, che sostiene l'accusa, conclude il 7 dicembre la sua requisitoria chiedendo la pena di morte per 6 imputati, tra cui Luigi Settembrini, noto intellettuale napoletano.
I prigionieri sono, da quel momento, divisi dagli altri e sistemati in due stanze nelle quali vivono per due mesi a conclusione dei quali, il 31 gennaio 1851, i giudici si chiudono in camera di consiglio.Ma dopo la lettura della sentenza di condanna a morte, né Settembrini, né Agresti, né Faucitano indossano gli abiti prescritti in questi casi. Ciò fa sperare. Difatti tre giorni dopo i condannati apprendono che la pena di morte è stata commutata nell'ergastolo da scontare a Santo Stefano, un'isola vicino a Ventotene, davanti a Gaeta. Settembrini ha 40 anni, Agresti 55, Faucitano 44.
Da Santo Stefano Settembrini scrive il 10 febbraio 1851 al cardinale Cosenza, arcivescovo di Capua, che aveva chiesto a Ferdinando II la grazia: "Ringrazio e benedico Iddio che ha toccato il cuore del Principe con la potente parola del suo Pastore"
La reazione borbonica determina il distacco definitivo dalla dinastia della parte più viva dell'intellettualità meridionale, che é stata nella sua grande maggioranza imprigionata o costretta ad esulare.
La denuncia clamorosa della politica repressiva di Ferdinando II, fatta dal noto statista inglese Gladstone , dopo un viaggio a Napoli alla fine del '51, è un colpo assai duro per il regime borbonico, che si trova nel momento della crisi suprema del Regno moralmente isolato in Italia e nel mondo.
Il Regno si avvia inevitabilmente verso la crisi finale, che nel '60 paralizzerà completamente l'apparato dello Stato.
1852 - NOVEMBRE: CAVOUR PRESIDENTE DEL CONSIGLIO
Cavour, per la prima volta, è nominato Presidente del consiglio, nonostante l'avversione del Re verso la sua politica delle riforme e le sue alleanze parlamentari 'audaci' (il connubio con la sinistra moderata).
Ma deve cedere ad una promessa: evitare che il Senato dia la fiducia alla legge sul matrimonio civile, e riprendere le trattative col Papa.Novembre 1852: Il Piemonte è pronto per una nuova direzione politica. Entrato in crisi il ministero d'Azeglio sul progetto di legge relativo al matrimonio civile, avversato dalle destre, dai clericali e dal re, Camillo Benso conte di Cavour, incaricato di formare il governo, dà vita al suo primo ministero.
Come si è arrivati a questa conclusione, dopo tante polemiche che hanno alimentato perfino le pagine dei giornali satirici? Procediamo per gradi.
Già l'altr'anno, dopo il colpo di stato operato in Francia da Carlo Luigi Bonaparte, d'Azeglio e Cavour danno una valutazione assai diversa dell'evento.
Per d'Azeglio il successo del bonapartismo comporta per il regno sardo un freno alla politica delle riforme; al contrario per Cavour, profondo conoscitore degli ambienti politici parigini, non esistono preclusioni da parte francese ad una alleanza parlamentare nel regno sardo che isoli la destra più conservatrice e l'estrema sinistra .
Il suo obbiettivo è attuare un programma liberale che punti su esigenze di progresso civile e di contrapposizione al predominio austriaco in Italia.Quindi Cavour si allea con Urbano Rattazzi, leader della sinistra moderata , avviando quella politica cosiddetta del "connubio" ; e riesce a far eleggere quest'ultimo presidente della Camera dei deputati contro Boncompagni, candidato presidente del consiglio e contro lo stesso sovrano, Vittorio Emanuele II.
E' inevitabile. Cavour pur controllando la maggioranza della camera lascia il governo d'Azeglio.
Ma nell'autunno il Re prende atto della situazione politica e, malvolentieri, dopo aver tentato, il 26 ottobre, di affidare l'incarico di formare il nuovo governo a Balbo, si rivolge a Cavour.
L'aveva già previsto Gioberti il 10 ottobre da Parigi giudicando Cavour come "il solo uomo capace di promuovere gli interessi del paese".
Il 2 novembre il sovrano riceve Cavour: un colloquio molto delicato nel quale il presidente incaricato mostra tutta la moderazione possibile senza però cedere su alcun punto fondamentale del suo programma di governo.
Un suo irrigidimento potrebbe spingere il sovrano ad adottare soluzioni extraparlamentari.Una promessa però la deve fare: non porre al Senato la questione di fiducia sulla legge che istituisce il matrimonio civile già approvata dalla camera e ,insieme, riprendere le trattative col Papa.
Cavour mantiene la promessa fatta e non pone la questione di fiducia sul progetto che va in discussione al Senato.
La Chiesa é fortemente impegnata contro la legge. Il sovrano, desideroso di giungere ad un ristabilimento di buoni rapporti col pontefice, esercita tutta la sua influenza sui senatori, che essendo di nomina regia, ascoltano con deferenza il re che desidera il rigetto del progetto di legge.Il 15 dicembre, all'inizio della discussione, l'opposizione difende il carattere sacro del matrimonio ma il giorno dopo Cavour ricorda i paesi nei quali la Chiesa ha accettato il matrimonio civile: la Francia, il Belgio, l'Olanda, l'Inghilterra.
Il 18 dicembre il giornale cattolico 'L'Armonia' pubblica una lettera inviata il 19 settembre da Pio IX a Vittorio Emanuele II, nella quale si illustra l'assoluta impossibilità per la dottrina cattolica di scindere nel matrimonio il "sacramento" dal "contratto " e di riconoscere all'autorità civile di amministrare quest'ultimo.Vittorio Emanuele agisce anche direttamente su Cavour :"se quella legge che non approvo passasse al Senato, io misero tiranno mi troverei in gravi imbrogli. Faccia quello che suo giudizio e la sua amicizia per me le detteranno.".
Il Senato vota il 1° articolo del progetto di legge il 20 dicembre:38 voti a favore e 38 contrari. Nella seconda votazione i voti contrari diventano 39, avendo votato anche il presidente dell'assemblea Manno, contro ogni consuetudine.
Il 22 dicembre il governo ritira la legge e Cavour non presenta più progetti sul matrimonio civile, che sarà introdotto nella legislazione italiana soltanto nel 1866.
In cambio della sua moderazione Cavour ottiene però qualcosa di molto importante: il riconoscimento da parte della Corona del "connubio", cioè della nuova maggioranza parlamentare che dovrà proseguire in Piemonte le trasformazioni politiche ed economiche già avviate, ispirate dal Cavour stesso.
1853 - 6 FEBBRAIO - I MOTI DI MILANOGiuseppe Mazzini vuole ripetere il miracolo delle cinque giornate del '48, ma é un fallimento totale. Scarsa organizzazione, improvvisazione, soprattutto errata interpretazione degli umori e disponibilità dei cittadini, mettono in crisi l'impresa, e con essa lo stesso movimento mazziniano.
Il 20 gennaio 1853, a Locarno, un gruppo di esuli mazziniani discute circa la possibilità di un moto insurrezionale a Milano.L'obiettivo di Mazzini è ripetere il miracolo delle cinque giornate del 1848.
Mentre in Piemonte il liberalismo riesce a superare il difficile periodo del dopoguerra grazie a Cavour, Mazzini, forte di una convinzione diffusa in alcuni ambienti democratici europei, ritiene che sia giunto il momento per un rilancio del processo rivoluzionario nel continente e soprattutto in Italia.
Una crisi economica minaccia l'Europa:
i cattivi raccolti agricoli hanno portato a un consistente aumento dei prezzi dei generi di prima necessità; è cresciuta la disoccupazione nelle campagne e nelle città; e l'introduzione nel maggio 1852 della censura preventiva in Lombardia allarga il fronte degli oppositori .Tenuto conto di questa situazione complessiva alcuni esuli, con Mazzini e Saffi in testa, ritengono che si possa organizzare un moto rivoluzionario a Milano il 6 febbraio .
Intendono sfruttare anche la reazione suscitata dagli arresti di numerosi patrioti effettuati tra il luglio 1851 e il dicembre '52, che sembra aver approfondito il solco tra la popolazione italiana e gli occupanti austriaci.Non tutti in realtà sono favorevoli all'iniziativa, in gran parte per la mancanza di forze regolari sulle quali poter contare; altri sono assai incerti: il Comitato genovese è tra questi ultimi, quello milanese è favorevole.
Ma, rispetto a cinque anni fa quando l'impero asburgico era in crisi e la rivoluzione dilagava da Vienna a Budapest, da Palermo a Berlino, da Parigi a Milano, nel '53 l'Europa è politicamente tranquilla.
La convinzione di Mazzini circa lo stato preinsurrezionale dell'Europa è espressa con chiarezza nel proclama del 6 febbraio, firmato anche da Aurelio Saffi, Maurizio Quadrio e Cesare Agostini, del Comitato Nazionale Italiano:
" La superficie dell'Europa, dalla Spagna a noi, dalla Grecia alla santa Polonia, è crosta vulcanica; dorme al disotto una lava che s'aprirà il varco a torrenti alla scossa d'Italia...non temete l'isolamento, l'iniziativa d'Italia è iniziativa d'Europa".Per avvicinarsi a Milano, il 5 febbraio Mazzini si porta da Lugano a Chiasso.
Alle cinque del pomeriggio del 6 ha inizio il tentativo rivoluzionario, ma invece delle migliaia di persone che avrebbero dovuto scendere in piazza, si muovono esclusivamente e in numero assai modesto, proletariato e sottoproletariato cittadino i cosiddetti "barabba", poche centinaia di persone.A Palazzo Reale, il tentativo sembra in un primo tempo riuscire; ma gli austriaci, riavutisi dalla sorpresa, costringono i ribelli a ritirarsi nel quartiere popolare di Porta Tosa.
La sera dello stesso 6 febbraio il moto è fallito: gli austriaci contano 10 morti e 54 feriti. Tra i rivoltosi una sessantina di arrestati, sedici condannati a morte, quasi tutti appartenenti agli strati più umili della popolazione: falegnami, tipografi, cappellai, garzoni, facchini.
"Il piano è fallito - scrive Mazzini il 7 febbraio a un'amica inglese- non so ancora nulla delle cause, nulla delle perdite o delle probabilità rimaste...le conseguenze morali dal disastro, se tale è , saranno incalcolabili; non solo per me , chè sarebbe cosa trascurabile, ma per il partito d'azione".
In realtà il tentativo non riuscito provoca una profonda crisi nel movimento mazziniano
A distanza di circa un anno dal fallimento del moto milanese, il 22 marzo del 1854, Daniele Manin, il difensore della repubblica veneta del '49, scrive che la divisione dei patrioti italiani tra monarchici e repubblicani può essere superata, e che sull'indipendenza e sull'unità non si possono fare compromessi.
E' l'anticipo di quella "Società Nazionale" nella quale confluiranno ex mazziniani, disposti a collaborare con Cavour e il regno sardo, pur di realizzare l'unificazione del paese.
1854 - MORTE DI UN GIOVANE DUCASiamo a Parma, il giovane duca Carlo III di Borbone é impegnato ad imporre all'Austria una maggiore autonomia politica e militare. La prematura morte del duca per mano di un marito geloso o di un sicario mazziniano, inducono la moglie Luisa Maria di Borbone ad una più oculata amministrazione del ducato e ad un riavvicinamento a Vienna.
Parma, domenica 26 marzo 1854.
Il duca Carlo III di Borbone- che cinque anni fa, nell'estate del'49, salì al trono dopo l'abdicazione del padre Carlo II - ha subito un attentato in strada Santa Lucia.Uscito per la consueta passeggiata, senza scorta militare, improvvisamente, mentre stava guardando una ballerina affacciata ad una finestra, è stato colpito da una pugnalata al basso ventre.
Le ricerche del colpevole portano subito all'arresto di un giovane sellaio di Parma, Antonio Carra, perdonato dal duca morente, che ritiene però di individuare nell'attentatore un seguace di Giuseppe Mazzini.
Ma il Carra, mediante un abile alibi, riesce a dimostrare la sua innocenza.
E' rilasciato e riesce ad abbandonare il ducato per fuggire in America, dove si confessa autore dell'attentato.La pista politica è allora quella giusta, tenendo conto dell'intensa attività cospirativa mazziniana dopo il fallimento del moto milanese del 6 febbraio 1853?
E tenendo conto che quattro mesi dopo, il 22 luglio, si ebbero a Parma degli scontri sanguinosi tra rivoltosi e militari con oltre una decina di morti?
L'altra ipotesi sulla morte del giovane duca di appena trentun anni è quella passionale, ad esempio la gelosia di un marito tradito.
La fama di impenitente donnaiolo - che Carlo III aveva ereditata dal padre insieme al trono - è ben nota.La moglie Luisa Maria di Borbone Francia, sorella del duca di Chambord, capo riconosciuto della famiglia Borbone, che gli ha dato quattro figli (Margherita, Roberto erede al trono, Alice ed Enrico), non sembra in realtà preoccuparsi molto dell'intensa attività amatoria del consorte.
Forse si preoccupa di più di svolgere una propria politica , diversa da quella di Carlo III.
Questi mira ad una larga autonomia dalla Francia ma anche da Vienna e a questo fine rafforza il suo esercito, portato ad oltre 6000 uomini, e fa eseguire imponenti opere militari.
Intanto Luisa Maria fa giungere a Vienna, anche se senza esito, una folta documentazione sul malgoverno del duca.Certo a Parma, città con poco più di 40.000 abitanti, a lungo presidiata dagli austriaci, il duca non è amato.
La borghesia, da lui giudicata poco affidabile, perché filoliberale, gli ricambia l'ostilità e non gli sono fedeli gli aristocratici proprietari terrieri a causa di alcuni provvedimenti considerati troppo favorevoli ai contadini.
E solo di questi infatti il duca si fida tanto che con loro forma la Guardia nazionale.Carlo III è contrario alla pena di morte e anche alle costose pene detentive, ma l'uso frequente dell'avvilente pena del bastone non gli ha certo guadagnato favore tra i sudditi.
Dei rapporti tra il duca e Luisa Maria è rivelatore il testo del proclama rivolto ai sudditi dalla vedova subito dopo la morte di Carlo III.
In esso omette di indicare il modo in cui il giovane duca ha concluso il suo breve regno, quasi ad accreditare la voce che si fosse trattato di una vendetta privata e non di un delitto politico.
E nella stessa risposta indirizzata alla regina Vittoria, che le aveva chiesto notizie circa la fine del consorte, Luisa Maria propende per la prima versione.Se ne ricava la conclusione che a Luisa Maria premesse , in primo luogo, proclamare duca il primogenito Roberto, di appena sei anni, e assumere così la reggenza dello Stato.
La duchessa dette subito prova di essere all'altezza del difficile compito, avviando radicali riforme dello stato. Ma non poté evitare i frequenti attentati e sollevazioni, a partire dai fatti del 22 luglio 1854, che videro ben quattordici morti per le strade di Parma.
1855 -IL COLERA IN ITALIASi descrive il fenomeno epidemico che ha infestato l'Italia per diversi anni; si illustra la dimensione territoriale, le misure adottate, le difficoltà incontrate, le cause del contagio, i dati e le statistiche a disposizione. Si cerca rimedio anche con la preghiera.
21 gennaio 1855: a Firenze si celebra un solenne Te deum per la fine del colera , che si è manifestato l'altr'anno a partire da Genova progredendo poi in Toscana e in Lombardia.
L'epidemia sembrava finita, ma non è trascorso neanche un mese e nuovi casi, sempre più numerosi, si segnalano nel Veneto e in Emilia. Ritorna la grande paura.Ha inizio così la più grave epidemia di colera che abbia percorso la penisola.
A Venezia città, all'inizio di maggio, i primi casi.
Poi è la volta dell'intera regione: a oriente fino a Trieste, poi a Bologna; a giugno arriva a Milano e in tutta la Lombardia.
Il Mezzogiorno continentale sembra risparmiato.Vaiolo, malaria, tubercolosi hanno imperversato nell'Italia di questo periodo. Ma è il colera l'epidemia che caratterizza l'Ottocento perché il suo arco è tutto compreso nel secolo: appare nel 1835 e scompare alla vigilia del primo conflitto mondiale.
Nell'immaginario popolare esso prende il posto che aveva avuto due secoli fa la peste: altrettanto violento, proveniente dal lontano continente asiatico, di origini sconosciute.
La scienza cerca di combatterlo in due modi. Il primo è quello di prevenire il contagio, creando cordoni sanitari ed ospedali riservati ai colpiti dalla malattia infettiva, i cosiddetti lazzaretti.
Questo comporta alcune misure che impediscono o intralciano gravemente i commerci, compresi quelli più modesti che costituiscono per il contadino un mezzo di sostentamento.L'altro modo di combattere la malattia, parte dalla convinzione che il male non si trasmette con il contagio e giudica quindi inutili le misure di isolamento degli ammalati perché il colera si diffonde mediante esalazioni e miasmi dell'aria, provenienti da letame, spazzatura, acque putride e stagnanti.
Le misure adottate dai vari governi seguono tutte e due le strade: quarantene e cordoni sanitari e, insieme, maggior cura nella pulizia dei centri abitati, disinfezione di latrine e di fogne, sorveglianza particolare sui mercati di generi alimentari.
Ma i risultati raggiunti sono modesti: i morti di colera nel 1855 ammontano in tutta Italia a circa 200.000.La malattia però non colpisce tutte le regioni nella stessa misura: su mille abitanti i morti nello Stato pontificio sono circa 9, a Parma 16, nel Veneto e in Toscana 15, in Lombardia 12, a Modena e a Reggio 11, in Sicilia 7, in Piemonte 4.
E non colpisce neanche nello stesso modo le varie classi sociali. Le più colpite sono le classi povere, quelle che vivono in abitazioni prive di sole, di aria e di luce, spesso prive di acqua potabile e senza i servizi igienici elementari.Gli acquedotti e le fognature sono le vie principali attraverso le quali si diffonde l'epidemia, perché spesso le condutture per l'acqua potabile non sono coperte e per di più scorrono accanto al sistema fognario.
Inoltre gli escrementi degli animali sono conservati nei pressi delle abitazioni perché costituiscono del prezioso concime.
Come di solito, l'arrivo dell'autunno porta ad una diminuzione del fenomeno epidemico. In settembre il colera comincia a decrescere in molte città. A Trento il 20 settembre e a Padova il 30 ottobre cessa di essere pubblicato il bollettino con il numero dei colpiti da colera e con quello dei morti.
A Bologna, dove l'epidemia é più violenta e duratura, finalmente il 25 novembre, in San Petronio, è celebrato un solenne Te deum per la cessazione del colera.
1856 - DIETRO LE QUINTE DI UN CONGRESSOAl Congresso di Parigi l'Europa che conta vuole sancire la pace tra i belligeranti della guerra di Crimea. Vi partecipa di diritto anche il Regno sardo. Cavour é impegnato a tessere intensi contatti diplomatici per ottenere di far discutere al congresso anche la questione italiana, e convincere così i Grandi d'Europa che il dominio austriaco in Italia si può risolvere solo con la guerra.
Parigi febbraio 1856: a quarant'anni dal congresso di Vienna nella capitale francese si riuniscono i maggiori uomini politici europei per porre fine alla guerra; da una parte la Francia, l'Inghilterra, la Turchia e il Regno sardo , dall'altra la Russia. Presidente del Congresso è Alessandro Walewski, figlio naturale di Napoleone I.
Cavour arriva a Parigi a metà febbraio.Nella capitale della politica e della finanza Cavour utilizza il soggiorno parigino per prendere contatto col mondo politico europeo e con i maggiori esponenti della finanza francese.
Seguiamo la traccia dei suoi incontri attraverso le annotazioni sulla sua agenda personale.Il primo obiettivo di Napoleone III è di giungere alla firma del trattato di pace: tutti i problemi che possono ritardarla sono perciò rinviati.
Tra questi la situazione politica italiana, che è discussa soltanto martedì 8 aprile.Quel giorno sull'agenda di Cavour c'è al riguardo questa sola annotazione " discussione sull'Italia", seguita dalla notizia che Adelaide Ristori, grande cantante lirica, recitava quella sera a Parigi la Medea.
Per saperne di più ricorriamo alla relazione inviata da Cavour a Luigi Cibrario , ministro degli esteri sardo, il giorno dopo: "il risultato della seduta di ieri è stato ben lungi dall'essere soddisfacente.. Noi non abbiamo ottenuto alcun risultato concreto".
Certo qualcosa era avvenuto: il "marchio di infamia" impresso sulla condotta del re di Napoli da parte della Francia e dell'Inghilterra di fronte all'intera Europa. E ancora, la condanna pronunziata dall'Inghilterra sul Governo pontificio in modo assai energico e netto.
Ma la conclusione di Cavour è chiara: non é possibile sperare da un congresso internazionale, nel quale sia presente l'Austria, " qualcosa di realmente utile per l'Italia, un rimedio per i mali che l'affliggono".Con un Austria più condiscendente e una Francia più decisa si sarebbe potuto avere qualche palliativo, ma nessuna soluzione decisiva.
Ma sarà lo stesso Napoleone III a convincersi , come andava ripetendo da tempo Cavour, che la questione italiana non può avere che una sola soluzione reale ed efficace: il cannone".
In un certo senso ci si convince che é necessario rompere la legalità esistente in nome di una nuova legalità fondata sul diritto delle nazioni all'indipendenza e alla libertà.
L'insuccesso di ogni manovra diplomatica si riflette ad esempio sulla stessa stesura del verbale della seduta dell'8 aprile, dove si cerca di addolcire le espressioni pronunziate dai diplomatici e in particolare da Cavour. Egli "protesta formalmente contro la prosecuzione indefinita dell'occupazione di una gran parte dell'Italia da parte delle truppe austriache".
Il presidente Walewski non ritiene conveniente, che in un congresso riunito per uno scopo di mediazione dei conflitti, ci sia posto per una protesta formale da Stato a Stato.
E Cavour si accontenta di una formula meno aspra dove si fa accenno ad uno stato di cose " assai anormale".
Conciliare i mezzi d'azione diplomatici e militari propri di uno Stato costituito con quelli cospirativi diviene da quel momento in poi il problema fondamentale che Cavour si propone di risolvere.
In concomitanza col nuovo corso che si va delineando nella politica europea, si afferma ormai decisamente l'egemonia piemontese all'interno del movimento nazionale italiano.
1857 - LA NUOVA POLITCA DI VIENNALa politica distensiva di Vienna nel Lombardo Veneto porta a misure meno restrittive e più concilianti, intese a favorire un'immagine a livello europeo di difensori della libertà dei cittadini. La svolta é impersonata dal nuovo governatore, il giovane fratello dell'imperatore, Massimiliano, che tenterà , invano, di costituire addirittura un regno indipendente dall'Austria.
Dicembre 1856, l'Austria inaugura una nuova politica nel Lombardo-Veneto.
Dopo il Congresso di Parigi che ha posto fine alla guerra fra le potenze occidentali alleate della Turchia e la Russia, prevale a Vienna una corrente favorevole ad una politica distensiva che rafforzi la coesione delle varie parti dell'impero.Le Congregazioni centrali del regno Lombardo-Veneto sono invitate a manifestare i bisogni, i desideri e le preferenze dello stato in tutti i rami della pubblica amministrazione;
è previsto anche il loro parere per l'amministrazione del fondo provinciale, dei patrimoni comunali, degli istituti di beneficenza, delle stesse imposte dirette.Sono poi aboliti i sequestri che nel 1853, in occasione del moto mazziniano del 6 febbraio, avevano colpito i profughi del Lombardo-Veneto, e subito sono liberati 72 condannati politici.
La nuova politica di Vienna fa parte di un piano complessivo che mira ad evitare che il regno sardo si presenti all'opinione pubblica italiana ed europea come il difensore della libertà dei cittadini di Milano e di Venezia.Lo stesso viaggio che l'imperatore Francesco Giuseppe, accompagnato dall'imperatrice Elisabetta, compie a Milano tra il gennaio e il febbraio 1857 fa parte di questa nuova politica .
La svolta è impersonata dal nuovo governatore generale del Lombardo-Veneto, il venticinquenne Massimiliano d'Asburgo, fratello dell'imperatore, che sostituisce il vecchio maresciallo Radetzky.
Massimiliano, assecondato dalla moglie Carlotta, figlia di Leopoldo re del Belgio, pensa di poter gradualmente indebolire i vincoli tra le due regioni italiane e l'impero per giungere alla costituzione di un regno di fatto indipendente, anche se sottoposto alla sovranità nominale dell'Austria.
Altre misure confermano il nuovo corso: la liberazione di altri 32 detenuti politici e la decisione, apparsa sulla Gazzetta ufficiale di Milano il 26 gennaio, di "condonare l'intera pena inflitta a tutti gli individui appartenenti al regno Lombardo-Veneto, detenuti tuttora in pena per crimini di alto tradimento, offesa alla Maestà, perturbazione della pubblica quiete, rivolta e sollevazione."
Contemporaneamente Venezia é liberata dal debito di 13 milioni che le era stato imposto come punizione per la rivoluzione del 1849 e si approva la costruzione di un monumento a Leonardo da Vinci a Milano e a Marco Polo a Venezia.
Questa svolta nella politica austriaca suscita qualche preoccupazione in Cavour, timoroso che il riformismo di Massimiliano , possa guadagnare almeno una parte dell'aristocrazia e della borghesia liberale.
Ma la nuova politica è giudicata perfino a Vienna con profondo scetticismo, in particolare dal ministro degli esteri conte Buol.E così Massimiliano rimane isolato sia dal governo imperiale, incredulo sui risultati del nuovo corso, sia dai suoi sudditi lombardi e veneti che , dopo il '48, non possono più accontentarsi di unamnistia e di una riforma delle imposte , inadeguate a risolvere il problema essenzialmente politico dell'indipendenza della Lombardia e del Veneto dall'impero asburgico.
1858 - L'ATTENTATO A NAPOLEONE III
E' la storia di Felice Orsini, rivoluzionario ex mazziniano, che attribuisce all'imperatore francese la colpa di avere abbattuto la Repubblica romana del '49. L' attentato che organizza in pieno centro di Parigi fallisce, con grande risonanza internazionale. La sua lealtà, le lettere sincere che indirizza a Napoleone III, creano una atmosfera di rispetto e eroismo intorno alla sua figura tragicaParigi, 14 gennaio 1858, alle 8 e mezza di sera, in rue Lepelletier, tre bombe sono lanciate contro la carrozza di Napoleone III e la moglie Eugenia, diretti verso l'Opèra.
L'imperatore è ferito solo lievemente alla guancia destra e il suo cappello è attraversato da una scheggia. I sovrani, dando prova di sangue freddo, non rinunciano ad assistere allo spettacolo teatrale: un atto del Guglielmo Tell di Rossini, un atto della Muta di Portici di Auber, alcune scene della Maria Stuarda di Alfieri con la famosa attrice italiana Adelaide Ristori, e un balletto intitolato L'assassinio di Gustavo re di Svezia.
I morti in seguito all'esplosione sono otto, i feriti centocinquantasei: tra le vittime incolpevoli si contano 11 ragazzi e ventuno donne.
L'emozione per la strage è grande, in Francia e in tutta Europa.
La polizia arresta subito Felice Orsini, Antonio Gomez e Carlo Rudio; un quarto italiano, Giuseppe Andrea Pieri é stato arrestato nei pressi del luogo dell'attentato poco prima che le bombe fossero lanciate.
Si chiedono pene esemplari e maggiori controlli sui rifugiati politici.
"qui furono inquisiti quasi tutti gli italiani di conto.. Non mai la nostra posizione fu così precaria" scrive da Parigi il 20 gennaio Francesco Dall'Ongaro a Luigi Pianciani.
Sotto accusa é anche l'Inghilterra, alla quale si rimprovera di dare asilo ai rivoluzionari.Il più noto degli arrestati é l'Orsini, già suddito pontificio, e ben noto alle polizie di mezza Europa per la sua attività di rivoluzionario, sempre pronto alle iniziative più rischiose.
Condannato nel 1845 alla galera a vita perché iscritto alla mazziniana Giovane Italia, ma amnistiato da Pio IX nel luglio 1846, partecipa ai moti mazziniani di Sarzana, della Lunigiana e della Valtellina.Poi tenta addirittura di arruolarsi nell'esercito austriaco per far propaganda tra i reggimenti italiani: arrestato di nuovo il 17 dicembre 1854 e inviato il 27 marzo 1855 nelle carceri di Mantova, riesce ad evadere fortunosamente un anno dopo.
La rottura con Mazzini, del 1856, non significa l'abbandono dell'attività rivoluzionaria. Tutt'altro. Orsini critica i continui tentativi falliti di Mazzini ed é ben deciso di mostrare cosa é capace di fare.
Prende contatto con l'ambiente rivoluzionario internazionale, in particolare con il medico Simon Bernard, e si convince a compiere "un grande atto individuale" che possa rendere possibile la rivoluzione in Europa.Nasce in questo stato d'animo, nel 1857, la decisione di Orsini di organizzare un attentato a Napoleone III, colpevole ai suoi occhi e a quelli di tutti i "democratici" di aver abbattuto la repubblica romana del 1849.
Durante il processo l'atteggiamento di Orsini è generoso e leale; le due lettere che egli, pur consapevole dell'imminente fine, indirizza all'imperatore dei francesi ricordandogli le sorti dell'Italia, riescono a creare un'atmosfera di rispetto attorno alla sua figura tragica, specie dopo la decapitazione avvenuta il 13 marzo nella piazza della Roquette a Parigi.
In quello stesso mese di marzo non solo ad Imola, città natale di Orsini, ma a Venezia e a Padova la polizia deve staccare diverse lapidi dedicate all'attentatore. A Genova sulle cantonate manifesti e sonetti inneggiano ad Orsini; in Piemonte, a Borgo Dora, lo si proclama martire dell'indipendenza italiana.
L'attentato Orsini, anche se non é l'elemento decisivo che spinge Napoleone III all'alleanza piemontese e alla guerra contro l'Austria, contribuisce non poco ad affrettare la sua decisione.L'impresa, che il Bonaparte medita da tempo, comincia ad apparirgli necessaria come mezzo per neutralizzare l'attività delle forze rivoluzionarie europee e italiane in particolare, che minacciavano la sua vita e il suo trono.
1859 - IL GRIDO DI DOLORESi narra del carteggio tra Vittorio Emanuele II, Cavour e Napoleone III
per concordare il discorso che il sovrano italiano dovrà leggere all'inaugurazione della legislatura del Parlamento. La frase famosa riassume il significato di quel particolare momento storico che precede di poco l'inizio della guerra contro l'AustriaCapodanno 1859: Napoleone III riceve l'Ambasciatore austriaco. Le sue dichiarazioni suscitano allarme in tutti gli ambienti politici e ribassi nelle Borse. Si diffonde in Europa l'idea che la guerra sia ormai vicina.
Il 7 gennaio l'imperatore francese legge il testo del discorso della corona che Vittorio Emanuele II, ancora re di Sardegna, leggerà il giorno 10 per l'inaugurazione della seconda sessione della quarta legislatura del Parlamento subalpino.
Alla proposta che Cavour e il Re gli hanno sottoposto, suggerisce soltanto una modifica: sostituire il riferimento alla continuità con Carlo Alberto con la frase :
"nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tanta parte d'Italia si leva verso di noi.".
La nuova frase sembra all'imperatore meno compromettente di fronte alla già allarmata diplomazia europea.
In realtà quel "grido di dolore" preoccupa molto l'opinione moderata, anche quella piemontese.
Se ne ha una prova il 9 gennaio, quando Cavour porta il testo del discorso della corona in consiglio dei ministri, e deve prendere atto dell'opposizione di Paleocapa e di Lamarmora a quell'espressione che a loro parere avrebbe spaventato i governi europei e provocato ribassi in borsa.
Cavour interpella allora nuovamente l'imperatore che nella notte fra il 9 e il 10 conferma telegraficamente l'approvazione del testo del discorso nella versione concordata.
Il 10 gennaio , a camere riunite, Vittorio Emanuele II pronunzia il suo discorso.
La frase sembra riassumere meglio di qualsiasi altra il significato di quel particolare momento storico che precede di qualche mese appena l'inizio della guerra contro l'Austria.In realtà, il sovrano fa molte altre affermazioni importanti: difende i princìpi di nazionalità e di progresso della politica piemontese, indica i campi specifici nei quali si sarebbe potuta svolgere l'attività del parlamento - dal riordinamento della magistratura, alla revisione dei codici di procedura, dalla istituzione delle corti di assise, alla riforma dell'amministrazione locale- ma tutto passa in secondo piano di fronte ai problemi di politica estera che il re affronta con decisione.
In Italia naturalmente l'accoglienza è entusiasta da parte dell'elemento liberale, soprattutto nel Lombardo-Veneto sottoposto alla dominazione austriaca.
A Londra la stampa é divisa nel commentare il discorso del sovrano piemontese.
Il governo inglese è decisamente contrario alla guerra e quindi giudica pericoloso l'accenno al "grido di dolore".
Il ministro degli esteri, Lord Malmesbury, si stupisce che il governo sardo non abbia calcolato l'effetto che tali parole avrebbero suscitato presso i sudditi di altri Stati, scontenti dei propri governi.A Parigi il discorso porta, com'era prevedibile, ad un ribasso in borsa.
Un commentatore francese, nel Memorial Diplomatique, tenta di dare una interpretazione, in senso pacifista, del discorso, sottolineando l'impegno del sovrano a "rispettare i trattati": la Francia, d'altronde , avrebbe anche potuto fare una guerra per ristabilire l'equilibrio europeo, ma avrebbe scelto il momento a lei più opportuno e non avrebbe certo tollerato di andare a rimorchio di chicchessia.
Ma quel commentatore non sapeva che la frase incriminata era stata inserita proprio da Napoleone III.Il discorso comunque é accolto dalle acclamazioni in Parlamento, e suscita un grande entusiasmo in tutta Italia e salutato come un segno sicuro dell'approssimarsi della guerra d'indipendenza.
1859 - 1O gennaio - IL GRIDO DI DOLORE -TORINO
Ieri mattina a camere riunite, Vittorio Emanuele II ha pronunziato il suo discorso di apertura della seconda sessione della quarta legislatura del parlamento subalpino.
Il sovrano ha fatto molte affermazioni importanti: difende i princìpi di nazionalità e di progresso della politica piemontese, indica i campi specifici nei quali si sarebbe potuta svolgere l'attività del parlamento - il riordinamento della magistratura, la revisione dei codici di procedura, la istituzione delle corti di assise, la riforma dell'amministrazione locale - ma tutto passa in secondo piano di fronte ai problemi di politica estera che il re ha affrontato con decisione.In Italia l'accoglienza è entusiasta da parte dell'elemento liberale, soprattutto nel Lombardo-Veneto sottoposto alla dominazione austriaca.
A capodanno Napoleone III ha ricevuto l'Ambasciatore austriaco. Le sue dichiarazioni suscitano allarme in tutti gli ambienti politici e ribassi nelle Borse. Si é diffusa in Europa l'idea che la guerra sia imminente .Il 7 gennaio l'imperatore francese ha letto il testo del discorso della corona che Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, avrebbe letto a camere riunite solo tre giorni dopo.
Alla proposta che Cavour e il Re gli hanno sottoposto, ha suggerito soltanto una modifica: sostituire il riferimento alla continuità con Carlo Alberto con la frase :
"nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tanta parte d'Italia si leva verso di noi.".
La nuova frase é sembrata all'imperatore meno compromettente di fronte alla già allarmata diplomazia europea.
In realtà quel "grido di dolore" preoccupava e preoccupa molto l'opinione moderata, anche quella piemontese.
Se ne ha una prova il 9 gennaio, quando Cavour ha portato il testo del discorso della corona in consiglio dei ministri, prende atto dell'opposizione di Paleocapa e di Lamarmora a quell'espressione che a loro parere spaventerebbe i governi europei e provocherebbe ribassi in borsa.
Cavour ha interpellato allora nuovamente l'imperatore che nella notte fra il 9 e il 10 ha conferma telegraficamente l'approvazione del testo del discorso nella versione concordata.
A Londra la stampa é divisa nel commentare il discorso del sovrano piemontese.
Il governo inglese è decisamente contrario alla guerra e quindi giudica pericoloso l'accenno al "grido di dolore".
Il ministro degli esteri, Lord Malmesbury, si stupisce che il governo sardo non abbia calcolato l'effetto che tali parole susciteranno presso i sudditi di altri Stati, scontenti dei propri governi.A Parigi il discorso porta ad un ribasso in borsa.
Un commentatore francese, nel Memorial Diplomatique, tenta oggi di dare una interpretazione, in senso pacifista, del discorso, sottolineando l'impegno del sovrano a "rispettare i trattati": la Francia, sostiene, potrebbe anche fare una guerra per ristabilire l'equilibrio europeo, ma sceglierebbe il momento a lei più opportuno ; certo non potrebbe tollerare di andare a rimorchio di chicchessia. Ma il commentatore evidentemente non sa che la frase incriminata é stata inserita proprio da Napoleone III.
Il discorso comunque é stato accolto dalle acclamazioni in Parlamento, e sta suscitando un grande entusiasmo in tutta Italia ed è salutato come un segno sicuro dell'approssimarsi di una nuova guerra per l'indipendenza.
Nota
Il 27 aprile 1859, l'esercito austriaco, forte di 132.000 uomini, comandati dal feld maresciallo conte Giulay, invade il territorio piemontese con obiettivo Torino. L'esercito sardo 60.000 uomini, sotto il comando di Vittorio Emanuele e del generale Lamarmora, ha i suoi capisaldi di difesa nel triangolo Alessandria, Valenza, Casale.
Il 12 maggio Napoleone sbarca a Genova tra l'acclamazione di una folla immensa. Dice a Cavour che lo aspetta sul molo: 'voi dovreste essere contento, i vostri piani si avverano'.
Il 30 maggio re Vittorio con le divisioni Cialdini e Fanti, attacca vigorosamente le posizioni austriache di Palestro. Il nemico retrocede ma l'indomani inizia una violenta controffensiva; nonostante l'inferiorità numerica i piemontesi resistono senza cedere. La mischia é micidiale. Quando gli zuavi francesi del III reggimento intervenuti a sostegno dei piemontesi attaccano alla baionetta, re Vittorio si getta al galoppo alla loro testa, caricando con la sua pesante sciabola di cavalleria. Gli zuavi lo acclamano su campo loro caporale.
Il 4 giugno, dalle 10 del mattino al tramonto inoltrato si combatté con estremo accanimento per la conquista di Magenta.
I francesi stavano per essere ricacciati . L'imperatore stesso rischiava di essere gettato nel Ticino, quando, verso le 4 del pomeriggio, il maresciallo Mac Mahon, rotti gli austriaci a Buffalora, puntava direttamente sulla città di Magenta.
La città é espugnata casa per casa. Il nemico retrocede su tutto il fronte. La via per Milano é libera.
L'8 giugno Napoleone e re Vittorio fanno ingresso trionfale nella capitale lombarda. Te deum al Duomo, spettacolo di gala alla Scala.
Frattanto, operando con i suoi 3000 cacciatori nell'alta Lombardia , Garibaldi ha raggiunto il 23 maggio le rive del lago Maggiore. Il 26 batte l'estrema ala destra austriaca a Varese, il 27 libera Como, il 6 giugno é a Lecco, l'8 occupa Bergamo.Il giorno stesso dell'inizio delle ostilità Massa e Carrara sono insorte. Contemporaneamente insorge Firenze, un governo provvisorio presidiato da Bettino Ricasoli chiede a Vittorio Emanuele di assumere la dittatura di guerra. Lo stesso fanno le popolazioni del Ducato di Parma. L'11 giugno il duca di Modena fugge dalla città insorta. Lo stesso giorno insorge Bologna. Poi é la volta di Ferrara, Ravenna, Ancona, Perugia, che chiedevano lannessione e la dittatura di Vittorio Emanuele. Dovunque Cavour insedia i suoi emissari.
Novità sul fronte della Lombardia. Il giovane imperatore d'Austria Francesco Giuseppe rimuove il generale Giulay dall'alto comando e assume personalmente la direzione delle operazioni. Dispone un combattimento d'arresto a Melegnano per consentire all'esercito austriaco di proseguire la ritirata oltre il Mincio con l'intenzione di chiudersi tra le fortezze del quadrilatero: Peschiera, Mantova, Verona, Legnago.
Avvenimenti importantissimi si preparano. Nella notte del 23 giugno contemporaneamente si muovono le truppe franco piemontesi e austriache dalle loro posizioni.
Il 24 si incontreranno a S.Martino e a Solferino. Poco dopo Magenta Francesco Giuseppe ha assunto il comando delle forze austriache raggruppate in due armate. Il giovane imperatore vuole riprendere l'iniziativa, passando rapidamente all'offensiva. Perciò il 23 giugno dà ordine alle due armate di ripassare il Mincio, e di marciare verso il fiume Chiese, in direzione di Milano. Però, nello stesso giugno 23 anche Napoleone III ha ordinato un movimento generale in avanti. Marcia verso il Mincio alla ricerca del nemico.
A un tratto i piemontesi attaccano le alture di Solferino con manovra frontale e sul fianco.
Napoleone in prima linea dirige la battaglia da Monte Fenile. Gli obiettivi del Corpo d'armata francese sono il cimitero di Solferino, la collina dei cipressi, la Rocca, detta spia d'Italia, e infine, il villaggio e il castello di Solferino.
Verso le 14 dopo scontri sanguinosissimi, i francesi conquistano tutti i capisaldi nemici ed avanzano verso Cavriana sede del comando austriaco.
Francesco Giuseppe ordina la ritirata generale dietro al Mincio. I piemontesi invece hanno di fronte le alture di S.Martino e di Madonna della Scoperta. Attaccano frontalmente le forti posizioni nemiche presidiate dall'8° corpo austriaco.
Le brigate Cuneo, Casale, Aqui, Pinerolo, sono mandate all'attacco una dopo l'altra, senza coordinamento tra loro. Il terreno non le favorisce, devono inerpicarsi lungo pendii ripidi, a gradini e a scarpate. Ma con sforzi inauditi e con perdite elevatissime, riescono più volte a giungere sul culmine conquistando le posizioni di S.Martino, i cascinali della Contracagna, e della Colombara. Allora il re alle 17 ordina un attacco a massa con l'intervento di una brigata fresca, l'Aosta.
Finalmente alle 19, dopo un rabbioso concentramento di fuoco d'artiglieria, cinque brigate e tre battaglioni di bersaglieri, partono di nuovo all'assalto. La chiesetta di S.Martino, la Controcagna, la Colombara sono conquistate d'impeto, a prezzo di molte vite.
Una carica finale dei cavalleggeri Monferrato affretta il ripiegamento nemico. Alla sera giacevano sul terreno morti e feriti 33.000, quasi la quinta parte dei combattenti." l'imperatore Napoleone consegnerà i territori ceduti al re di Sardegna, il Veneto farà parte della confederazione italiana, pur restando sotto la corona dell'imperatore d'Austria, il granduca di Toscana, e il duca di Modena rientrano nei loro stati, dando una amnistia generale. I due imperatori chiederanno al Santo Padre di introdurre nei suoi stati riforme indispensabili. E' accordato da una parte e dell'altra l'amnistia generale alle persone compromesse nel corso degli ultimi avvenimenti nei territori delle parti belligeranti"
Napoleone:" e dato che la guerra non ha raggiunto i suoi obbiettivi rinuncio ai compensi di Nizza e di Savoia"Il 12 marzo 1860 fu sottoscritto a Torino un trattato segreto per la cessione di Nizza e di Savoia alla Francia.
Il 18 marzo Farini e Ricasoli presentarono al re i documenti legali delle annessioni nell'Italia centrale. Il re li accolse ufficialmente. Il clamore in Europa fu immenso soprattutto per quanto riguardava le annessioni delle ex legazioni pontificie.
1860 - GARIBALDI A NAPOLIL'ingresso di Garibaldi a Napoli somiglia più ad una acclamazione ,più che ad una accoglienza ostile ad un vincitore. L'entusiasmo che accompagna la sua impresa fa superare qualunque resistenza, anche da parte dei rappresentanti di un regno ormai in disfacimento. Lo stesso ministro dell'interno di Francesco II gli dà il benvenuto.
"Appena qui giunge il sindaco e il comandante la Guardia nazionale di Napoli, che attendo, io verrò fra voi. In questo momento vi raccomando l'ordine e la tranquillità che si addicono alla dignità di un popolo, il quale rientra deciso sulla padronanza dei propri diritti".
Con questo telegramma, spedito da Salerno il 7 settembre 1860, Garibaldi, che si firma dittatore delle Due Sicilie, prende contatto con Liborio Romano, ministro dell'interno e della Polizia del regno borbonico.
Subito le due autorità cittadine richieste da Garibaldi, e cioè il sindaco e il comandante della Guardia nazionale, partono da Napoli per Salerno.Nello stesso giorno un apposito treno porta il leader dei Mille nella capitale dove arriva alle 11 e mezza.
Lo precede una fama ingigantitasi nelle ultime settimane, via via che la spedizione sbarcata a Marsala l'11 maggio prosegue a fine agosto nel Mezzogiorno continentale:in Sicilia la marcia è punteggiata dallo scontro vittorioso di Calatafimi, dalla entrata a Palermo, dal sanguinoso successo di Milazzo e dall'avventuroso passaggio dello stretto di Messina.
A Napoli lo accoglie una folla enorme ed entusiasta. Garibaldi impiega oltre un'ora e mezza per raggiungere dalla stazione ferroviaria il palazzo Angri-Doria, che è la sua residenza.
"Il 7 settembre - scrive Garibaldi nelle sue Memorie- un figlio del popolo, accompagnato da pochi suoi amici, che si chiamano aiutanti, entrava nella superba capitale dal focoso destriero acclamato e sorretto dai cinquecento mila abitatori".
Questa entrata a Napoli di Garibaldi, accompagnato soltanto da pochi fidati e con l'esercito ancora lontano - a due giorni di marcia - rappresenta veramente qualcosa di eccezionale.
Non è l'arrivo di un vincitore accolto silenziosamente da una popolazione ostile; e nemmeno l'arrivo di un rivoluzionario osannato dal popolo ma odiato dalle classi elevate.
Garibaldi contava sull'entusiasmo che la sua impresa aveva suscitato dovunque per superare qualunque resistenza.
E' vero che lo stesso Francesco II di Borbone prima di lasciare la capitale per rifugiarsi a Gaeta, aveva dato ordine al sindaco e al comandante della Guardia nazionale di non opporre resistenza a Garibaldi per evitare un eccidio e una rovina alla città. Ma il 7 settembre si va ben al di là di queste direttive: Garibaldi é accolto ufficialmente dai rappresentanti di un regno che stava disfacendosi.
Chi tiene il discorso di occasione e dà il benvenuto a Garibaldi é Liborio Romano, già ministro dell'interno con Francesco II di Borbone, e che conserverà la stessa carica nel governo provvisorio costituito subito da Garibaldi."Fu una scena carnevalesca e fantastica" scrive uno storico inglese, Henry Bolton King, autore di una Storia dell'Unità italiana apparsa a Londra nel 1899.
In tanto clamore naturalmente c'é anche chi non soltanto non fa festa e non applaude il vincitore ma ritiene che la fine del regno borbonico, per come è avvenuta, costituisca la violazione patente di ogni norma di diritto internazionale e quindi rifiuta di prendere atto della situazione creatasi a Napoli con l'arrivo dei garibaldini.
Provvedono perciò a chiudere i rispettivi palazzi il nunzio apostolico e i ministri
d'Austria e di Russia.Di lì a poco, l'1 e il 2 ottobre ,Garibaldi consacrerà la sua fama ancora una volta, con una delle sue più grandi vittorie militari: la battaglia del Volturno, aprendo così il varco alle truppe piemontesi , già in marcia verso il Mezzogiorno, guidate personalmente dal re Vittorio Emanuele II.
Nota
Nel 1860 l'Italia era divisa in otto stati. Il regno Sardo che comprendeva la Sardegna, il Piemonte e la Liguria con capitale Torino, un anno prima si era annesso col trattato di Villafranca la Lombardia fino al Peschiera e al Mincio. Al regno sardo, re costituzionale Vittorio Emanuele II, primo ministro il conte Camillo Benso di Cavour, dopo l'insurrezione del 1859 si era unita parte dell'Emilia Romagna. L'Austria dominava ancora il Veneto. Indipendente la Repubblica di San Marino.
I granducati di Parma, Lucca, Toscana avevano votato nel mese di marzo in favore dell'annessione al regno sardo. Lo stato Pontificio comprendeva il Lazio, l'Umbria e le Marche. Capitale Roma, il Papa regnante era Pio IX. Il regno delle due Sicilie comprendeva la Campania, Abruzzo Molise Puglie Calabria e Sicilia. Re Francesco II di Borbone. Capitale Napoli.Tutta la Sicilia era percorsa da un fremito di libertà. Da Palermo, nella notte tra il 3 e il 4 aprile 1860, un gruppo di congiurati si era radunato nel convento della Gancia
Il 15 maggio alla testa di qualche centinaio di volontari, Garibaldi batte a Calatafimi ingenti forze borboniche.
Sui colli che circondano il terreno della battaglia squadre di insorti siciliani sono stati ad osservare; la vittoria li sprona a seguire il vincitore.
Il 30 maggio ingannando i borbonici con una audace diversione su Corleone, Garibaldi entra a Palermo. Il suo minuscolo esercito si é ingrossato di qualche migliaio di insorti.Le notizie che arrivano dalla Sicilia mettono in subbuglio i napoletani e il re convoca d'urgenza il Consiglio di Stato. Ma Garibaldi avanza troppo in fretta anche per la politica di Cavour, ed é in subbuglio l'ambasciata piemontese a Napoli.
Il 20 luglio a Milazzo Garibaldi dava il colpo di grazia alle superstiti forze napoletane dell'isola e si disponeva a passare lo stretto.
Il 20 agosto Garibaldi passa lo stretto di Messina, sbaraglia la resistenza borbonica, avanza in Aspromonte preceduto dalla rivoluzione che gli apre le porte delle città.Garibaldi " Sua Maestà può partire tranquillo, sicuro che la città non dimenticherà che con la sua partenza risparmierà gli orrori di una guerra civile" Il re esce di scena.
Il settembre Garibaldi prende il treno a Vietri, all'una e mezza del pomeriggio scende alla stazione di Napoli tra le feste della popolazione. I forti, guarniti di soldati borbonici, non reagiscono, i presìdi se ne vanno tranquilli a Capua a ingrassare l'esercito borbonico. Il giorno prima Francesco II di Borbone e sua moglie Sofia avevano abbandonato Napoli diretti verso la fortezza di Gaeta. Nessun vascello da guerra aveva voluto seguire i due sovrani.
Garibaldi su balcone " io vi ringrazio in nome di..abbiamo diritto di esultare.. cessa la tirannide... vi ringrazio in nome dell'Italia....ché mediante il vostro concorso.... tutta l'Europa vi ringrazia!"
1861 - LA MORTE DI CAVOURDopo gli scarsi bollettini medici che parlano di febbre perniciosa e infiammazione intestinale, nonostante l'applicazione di numerosi salassi, Cavour muore a soli 51 anni, nel suo palazzo di via Jena, attorniato da parenti , familiari stretti, amici. Lo stesso Re gli fa visita più volte.
Quali sono i principali problemi che lascia in eredità alla politica piemontese?
Torino- Il 6 giugno, il conte di Cavour , presidente del consiglio del regno d'Italia, è morto nel palazzo settecentesco di via Jena, dove era nato 51 anni fa e dove ha sempre abitato con buona parte della famiglia.
Torino e tutta Europa sono in lutto.Il 29 maggio , Cavour, qualche settimana dopo un violento scontro parlamentare con Garibaldi a proposito del destino dei volontari dell'esercito meridionale, é colto da un malore improvviso.
Altre volte aveva sofferto di disturbi gastrici e anche questa volta la febbre é attribuita a una "infiammazione intestinale" o "febbre perniciosa".
Secondo le terapie in uso è curato con una dieta rigorosa e con ripetuti salassi. Una effimera miglioria permette a Cavour il 2 giugno di alzarsi e di riprendere il consueto lavoro, ma la sera dello stesso giorno la febbre ritorna violentissima, a volte con manifestazioni di delirio.
Oltre i parenti più stretti - come il fratello Gustavo e la nipote Giuseppina- gli sono accanto i suoi più vicini collaboratori: Luigi Carlo Farini, Michelangelo Castelli, il sindaco di Torino, Emanuele Luserna, marchese di Rorà.
La presenza di padre Giacomo Odenino che gli dà i sacramenti conferma la estrema gravità del male.
Vittorio Emanuele II rende visita più di una volta al suo ministro.Rapidamente la situazione precipita e il 6 giugno , alle 6,45 del mattino, sopravviene la morte.
Nel palazzo di via Jena, sito nella vecchia contrada dell'Arsenale, in pieno centro di Torino, dove hanno vissuto i genitori e i suoi più stretti parenti, vivrà soltanto Gustavo, il fratello maggiore di Camillo.La diffusione nella città della notizia della morte di Cavour, dapprima suscita incredulità e stupore, e subito dopo profonda costernazione.
Torino sembra essere stata colpita da una pubblica calamità: tutti i teatri, la borsa, la maggior parte dei negozi chiudono in segno di lutto e così rimangono fino al giorno 8 quando si svolgono i solenni funerali e il corpo é sepolto a Sàntena.Anche l'Europa partecipa al grave lutto dell'Italia. Nel Parlamento inglese Cavour é ricordato da Robert Peel, da John Russell, da lord Palmerston.
Cavour, capo del partito liberale moderato, in questi anni decisivi per l'unità d'Italia, lascia una pesante eredità politica.
Riguardo alla questione di Roma, ad esempio, Cavour, già nel 1860 aveva iniziato i contatti con il pontefice sulla base della rinuncia al potere temporale da parte della Chiesa, che avrebbe conservato una completa autonomia in campo spirituale.
Ma Pio IX non condivide la convinzione di Cavour che la fine del potere temporale e un regime di piena libertà, sia la condizione per felici rapporti reciproci.
Tanto più che, forte dell'appoggio di Napoleone III, é deciso a resistere sfidando la "provocatoria" proclamazione di Roma capitale d'Italia da parte del Parlamento italiano il 27 marzo 1861.L' imperatore dei francesi inoltre scrive una lettera a Vittorio Emanuele II, nella quale ribadisce l'impossibilità di riconoscere il regno d'Italia finchè non ci sia una riconciliazione tra l'Italia e il pontefice.
Ma, appena avuta la notizia della scomparsa di Cavour, Napoleone III, come estremo omaggio al grande statista, modifica la lettera già preparata e decide di riconoscere il regno d'Italia.
1862 - ASPROMONTE
Il governo italiano ordina alle proprie truppe di fermare i volontari garibaldini, che hanno intrapreso la marcia verso Roma. Dopo un breve scontro , lo stesso Garibaldi é ferito. La reazione dell'opinione pubblica é vivissima. L'incerta condotta del governo, le ambiguità diplomatiche, l'indecisione, il sospetto di avventurismo attribuito al generale, producono una delle pagine più vergognose del Risorgimento
29 agosto 1862. Il governo italiano ordina alle proprie truppe di fermare i volontari garibaldini, che hanno intrapreso la marcia verso Roma.
Dopo un breve scontro risultano 12 morti e 40 feriti. Lo stesso Garibaldi, che fa di tutto per impedire ai suoi di sparare, è ferito.
La reazione dell'opinione pubblica è vivissima.Ma andiamo per gradi.
Con la proclamazione di Roma come unica possibile capitale d'Italia, fatta da Cavour il 25 marzo 1861, il governo di Torino aveva fatto sua una delle maggiori richieste dell'opposizione mazziniana e garibaldina, ma aveva anche stabilito che l'obiettivo doveva essere raggiunto d'intesa con Napoleone III e rispettando l'indipendenza del pontefice.Nella situazione di stallo determinata dall'improvvisa morte di Cavour il 6 giugno del 1861 e dal fallimento dei tentativi dell'imperatore dei francesi per giungere ad un accomodamento tra l'Italia e il Papato, riprende vigore il progetto di Garibaldi di congiungere Roma all'Italia, che era stato bloccato nel 1860 dopo la liberazione del Mezzogiorno.
Contando sull'antica amicizia di Giorgio Pallavicino, prefetto di Palermo, Garibaldi inizia in Sicilia, nell'estate del 1862, la raccolta di volontari al grido di "o Roma o morte!".
La generale tolleranza delle autorità è spiegabile con l'atteggiamento ambiguo del governo guidato da Urbano Rattazzi, che sembra in attesa di conoscere la reazione di Napoleone III all'iniziativa garibaldina.
Quando é chiaro che l'imperatore dei francesi é ben deciso a difendere il pontefice, si fa sentire anche la voce di Vittorio Emanuele II che mette in guardia gli organizzatori del movimento per liberare Roma dalle "colpevoli" impazienze e dalle "improvvide" agitazioni.
"Quando l'ora del compimento della grande opera sarà giunto - egli dice - la voce del Re si farà udire da voi. Ogni appello che non é il suo, é un appello alla ribellione, alla guerra civile. La responsabilità e il rigore delle leggi cadranno su coloro che non ascolteranno le mie parole".
Le parole del sovrano sono chiare ma esse devono essere prese alla lettera o intese come parte di una manovra politica mirante a rassicurare la Francia?
Le forze della marina italiana, del resto, non mostrano di voler ostacolare il passaggio dello stretto di Messina.Solo quando i duemila volontari garibaldini giungono in Calabria il governo muta comportamento: una nave da guerra spara sulla strada litoranea e alcuni reparti dell'esercito, partiti da Reggio, cominciano a inseguire i volontari.
Questi sono costretti a ripiegare verso l'altopiano dell'Aspromonte."Giunsero i nostri avversari e ci caricarono con una disinvoltura sorprendente -scrive Garibaldi nelle Memorie - Io ordinai che non si facesse fuoco; e tale ordine fu ubbidito, meno che da poca gioventù bollente agli ordini di Menotti che, vedendosi caricati sfacciatamente, caricarono alla loro volta e respinsero".
Nello scontro del 29 agosto muoiono 7 volontari garibaldini e 5 militari dell'esercito, i feriti sono una ventina per parte.
Garibaldi che si trova tra i contendenti per evitare che si spari é ferito all'anca sinistra e al malleolo interno del piede destro ed é subito trasferito e rinchiuso nel forte di Varignano presso La Spezia.Francesco Crispi, Angelo Brofferio, Cesare Cabella si offrono come difensori di Garibaldi nel processo penale che sembra imminente, ma una opportuna amnistia del 5 ottobre, applicabile a quanti hanno partecipato all'impresa, evita un processo che avrebbe certamente causato qualche imbarazzo al governo in carica per la sua incerta condotta.
Rattazzi é comunque, costretto a rassegnare le dimissioni dopo alcune settimane.Garibaldi, curatosi dalle ferite, torna a Caprera deluso ma comunque fermo nel perseguire il progetto di conquistare Roma ,che lo porterà cinque anni più tardi a ritentare nell'impresa.
1863 - IL BRIGANTAGGIOIl fenomeno del brigantaggio preoccupa il governo cisalpino per le difficoltà che incontra nell'inserirsi nel Mezzogiorno e nell'imporre una visione unitaria dello Stato italiano.
La storia del brigantaggio é legata alla cultura di alcune aree geografiche e alle particolari condizioni economiche. La repressione dell'esercito italo-piemontese é violenta: le perdite ingenti da ambo le parti.Camera dei deputati; seduta del 16 dicembre 1862. La camera nomina una commissione d'inchiesta sul brigantaggio, per affrontare il grave problema e prendere i provvedimenti più efficaci per risolverlo.
Di questa commissione fanno parte tre moderati, tre della sinistra tra cui Aurelio Saffi, uno del centro-sinistra e i generali garibaldini Nino Bixio e Giuseppe Sirtori.
La commissione visita le province maggiormente colpite dal fenomeno e conclude i suoi lavori entro il marzo del 1863.I plebisciti che hanno dimostrato la volontà delle popolazioni meridionali di entrare a far parte del regno d'Italia, non risolvono il problema dell'inserimento del Mezzogiorno nel nuovo Stato nazionale.
E il brigantaggio che si sviluppa in quelle regioni tra il 1862 e il 1865 dà luogo ad uno scontro drammatico che assume il carattere di una vera guerra sociale.Ma questa violenta protesta, che si diffonde in diverse province del mezzogiorno continentale, si deve far risalire esclusivamente al cambiamento politico del 1860 - cioè alla caduta dei Borboni e all'annessione al regno d'Italia- ?
Oppure si tratta di un fenomeno di lunga durata che ha soltanto colto l'occasione del mutamento politico per potersi manifestare ancora una volta?L'opinione prevalente è che si tratti di "un male profondo e antico", anche perché la diffusione del brigantaggio avviene soprattutto in alcune zone, come la Basilicata e la Puglia, dove il numero dei proletari di campagna é assai alto e la loro condizione economica é di grande miseria.
Ma la grave situazione di alcune province richiede provvedimenti urgenti.
Nell'estate del '63 un'apposita legge presentata dal deputato abruzzese Giuseppe Pica stabilisce che nelle province dichiarata "in stato di brigantaggio" siano i tribunali militari competenti a giudicare i briganti.
Ma, tranne le province di Napoli, Teramo e Reggio Calabria, tutte le altre province del Mezzogiorno continentale, che sono "in stato di brigantaggio" , sono sottoposte ai tribunali militari.
Sono poi istituite le Giunte provinciali che possono assegnare al domicilio coatto chiunque sia sospettato di aiutare i briganti.
Ad alimentare il brigantaggio concorre senza dubbio la convinzione di un prossimo ritorno di Francesco II di Borbone, ma anche l'ostilità dei contadini nei confronti della chiamata alla leva (coscrizione) obbligatoria prevista dalla nuove leggi.
I principali capibanda sono Carmine Donatello, detto 'Crocco', Caruso, Ninco Nanco, Romano, Muracca, Pizzichicchio.
In Puglia, ad esempio, la banda creata dal Romano scorazza per oltre due anni, nei comuni di Corato, Ruvo, Alberobello, in Terra di Bari; Martina, Carovigno, Fragagnano e Carosino in Terra d'Otranto.La repressione delle bande della Capitanata e della Basilicata è affidata al generale Pallavicini, che, usando la cavalleria e i bersaglieri insieme alla guardia nazionale e ai carabinieri, riesce a distruggere i più consistenti raggruppamenti di briganti.
E' stato calcolato che tra l'unificazione e il 1865 sono stati uccisi oltre cinquemila briganti e altrettanti arrestati.
Gli scontri fra gli insorti e le truppe regolari sono stati di una grande violenza, tanto che si è calcolato che le perdite umane per la repressione del brigantaggio da parte dell'esercito sono state più numerose delle perdite subite nelle guerre d'indipendenza.
1864 - TUMULTI A TORINO
A seguito della costituzione dello Stato italiano, il governo si pone l'obiettivo di spostare la capitale da Torino a Roma. Ma per non urtare contro le resistenze del papa e l'orientamento politico della Francia, si stabilisce provvisoriamente la capitale a Firenze. La decisione provoca tumulti e proteste a Torino, subito sedati dalla polizia.
21 giugno 1864 : a Fontainebleau Gioacchino Napoleone Pepoli discute con Napoleone III della questione romana, un problema che sta molto a cuore all'Italia ma che interessa anche l'imperatore dei Francesi. Quando, infatti, quest'ultimo aveva riconosciuto il regno d'Italia nel luglio del 1861 -un mese dopo la morte di Cavour- aveva posto come condizione per il ristabilimento dei tradizionali rapporti di amicizia tra l'Italia e la Francia un'intesa tra il pontefice e lo Stato italiano.
Il marchese Pepoli è ben noto all'imperatore, che ha apprezzato la sua opera come governatore dell'Umbria nel 1860, ed è, inoltre, bene introdotto nelle corti europee sia per essere figlio di Letizia Murat, e quindi nipote di Gioacchino, sia per aver sposato Guglielmina Hohenzollern-Sigmarigen, cugina del re di Prussia.
Nel colloquio con Napoleone III Pepoli illustra la sua proposta di trasferimento della capitale del regno da Torino -da dove è difficile, se non impossibile, governare l'Italia- in un'altra città della penisola. La proposta -che, in realtà, è condivisa da Costantino Nigra, ambasciatore italiano a Parigi, e accettata dallo stesso presidente del consiglio dei ministri, Marco Minghetti, e dal ministro degli esteri Emilio Visconti-Venosta- è accolta con favore dall'imperatore.
In poche settimane il trattato italo-francese, che sarà poi noto come Convenzione di settembre, è definito. L'Italia si impegna a difendere il territorio pontificio da ogni attacco esterno ( e quindi non in caso di rivoluzione interna) e la Francia a ritirare entro due anni le proprie truppe. Un articolo, che avrebbe dovuto restare segreto, prevede, entro sei mesi dalla firma della Convenzione, il trasferimento della capitale in un'altra città italiana.
Una certa resistenza in proposito è opposta da Vittorio Emanuele II che sapeva delle trattative ma non di questa clausola, e che tenta, inutilmente, di ottenere la rinuncia da parte della Francia. Così, il 15 settembre 1864, la Convenzione è firmata a Parigi.
Tre giorni dopo, il 18 settembre, una commissione di generali, presieduta dal principe Eugenio di Carignano stabilisce che la nuova capitale sia Firenze, preferita a Napoli perchè più facilmente difendibile.
L'articolo "segreto" è subito conosciuto tramite la stampa e a Torino si hanno subito ripetute manifestazioni contro il governo. Gli scontri più violenti avvengono il 21 e il 22 settembre : i morti sono una trentina e i feriti un centinaio. Data la gravità degli avvenimenti il ministero Minghetti, anche su sollecitazione del sovrano, dà le sue dimissioni.
A partire dal 27 settembre, un governo guidato da un generale piemontese, Alfonso Ferrero La Marmora (presidenza del consiglio ed esteri) - composto in maggioranza da piemontesi (Giovanni Lanza agli interni, Quintino Sella alle finanze e Agostino Petitti alla guerra) e lombardi (Stefano Jacini ai Lavori pubblici e Luigi Torelli all'agricoltura), con un napoletano alla giustizia (Giuseppe Vacca) ed un siciliano alla pubblica istruzione (Giuseppe Natoli)- deve applicare la Convenzione, approvata nei mesi successivi dalla Camera dei deputati e dal Senato, e promulgata l'11 dicembre.
In realtà il trattato non sarà rispettato né dalla Francia, che ritira le sue truppe ma le sostituisce con reparti di volontari, né dall'Italia che non impedisce ai garibaldini di attaccare nel 1867 lo Stato pontificio.
1865 - FIRENZE CAPITALEFirenze accoglie in festa il re Vittorio Emanuele II e moglie, che con la corte si insediano a Palazzo Pitti. Occasione per descrivere gli insediamenti dei vari ministeri presso palazzi e conventi. E' quasi un itinerario architettonico di Firenze capitale.
"Questa mattina alle ore 8 Sua Maestà il Re è partito da Torino per Firenze, accompagnato da Sua Eccellenza il presidente del Consiglio dei ministri, generale La Marmora" .
Così la Gazzetta Ufficiale del 3 febbraio 1865 annuncia la visita ufficiale del sovrano alla città destinata ad essere per sei anni circa, dal 1865 al 1870, dopo Torino e prima di Roma, la capitale del regno d'Italia.
Il viaggio avviene per ferrovia e Vittorio Emanuele giunge a Firenze soltanto alle 10 e mezzo di sera.
Sono con lui anche il ministro della pubblica istruzione, Giuseppe Natoli, e i componenti della casta civile e militare.Nonostante l'ora tarda é accolto con molto calore non soltanto da tutti i parlamentari della città ma da una gran massa di cittadini che a stento la carrozza del sovrano riesce a fendere per giungere a palazzo Pitti, nuova sede del re e della corte.
Il palazzo, fatto costruire da Luca Pitti alla metà del '400, abbellito poi dai Medici e ingrandito dai Lorena nel '700, diventa la residenza del sovrano che sceglie di abitare a piano terra nell'ala detta della Meridiana.
Nella vicina villa della Petraia viene ad abitare Rosa Vercellana Guerrieri, che Vittorio Emanuele II aveva creato contessa di Mirafiori fin dal 1850, e che sposerà religiosamente nel 1869 e morganaticamente nel 1877, l'anno prima di morire.
Il trasferimento della capitale si svolge nei primi sei mesi dell'anno con una spesa di soli 9 milioni.Il Palazzo Vecchio in piazza della Signoria ospita in un'ala il ministero degli Affari Esteri, in un'altra, con il Salone dei Cinquecento, la Camera dei deputati, e nel Salone dei Dugento il Senato..
Il ministero della guerra si stabilisce in via San Sebastiano dietro la chiesa dell'Annunziata. Palazzo Medici- Riccardi é destinato al ministero dell'interno, mentre il ministero delle finanze non riesce a sistemarsi in un'unica sede e si divide fra via degli Arazzieri, via Cavour e il convento di Santa Croce.
Altri conventi sono utilizzati per altrettanti ministeri: il convento dei padri delle Missioni, al di là del ponte di Santa Trìnita, per il ministero della marina, il convento di San Firenze per l'istruzione pubblica, il convento di Santa Maria Novella per i lavori pubblici e per la Corte di Cassazione, il convento di Badia per la tesoreria generale.
Per gli altri ministeri si ricorre alle case patrizie.
Ma a parte gli uffici, c'é il grave problema delle abitazioni: una città di 118.000 abitanti ne deve accogliere almeno altri 30.OOO.Il forte aumento della richiesta fa rialzare immediatamente i prezzi degli affitti.
Nuovi negozi, meglio arredati e in posizioni migliori, sorgono accanto o al posto degli antichi.Non mancano dei malumori tra i nuovi venuti- come scrive un giornale dell'epoca- costretti a rinunciare contro voglia alle loro consuetudini materiali e morali e i fiorentini "seccati da tante novità fragorose che turbano la loro apatica tranquillità, risentono più danno che profitto dal rincaro delle pigioni e della mano d'opera"
Ma in quello stesso anno Firenze dimostra la sua attitudine ad essere capitale d'Italia: il 14 maggio, per il sesto centenario della nascita di Dante Alighieri, un grande corteo capeggiato da tre illustri artisti drammatici - Adelaide Ristori, Tommaso Salvini ed Ernesto Rossi - seguiti dai rappresentanti di comuni, province, università, accademie attraversa la città da piazza Santo Spirito a piazza Santa Croce.
Tra le 700 bandiere gli stendardi abbrunati di Roma e di Venezia ricordano i prossimi obiettivi del regno d'Italia.
1866 - BEZZECCAA seguito di una alleanza con la Prussia, l'Italia dichiara guerra all'Austria. La mancanza di coordinamento tra le truppe di La Marmora e quelle di Cialdini, procurano all'Italia una cocente sconfitta a Custoza e a Lissa. L'unica azione vittoriosa é di Garibaldi con la battaglia di Bezzecca; l'intenzione del generale di procedere verso Trento é bloccata dall'improvviso armistizio.
Berlino, 8 aprile 1866 : Ottone di Bismarck, cancelliere di Prussia, e il generale Govone e il conte Barral per l'Italia, nella imminenza del conflitto con l'Austria, stringono un'alleanza che prevede, a pace conclusa , la cessione all'Italia del Veneto e di Mantova e alla Prussia di territori equivalenti.
L'Austria, allarmata, il 5 maggio promette, tramite Napoleone III, il Veneto all'Italia se questa rompe l'alleanza con la Prussia.
Il Presidente del consiglio La Marmora rifiuta l'offerta ma le notizie che giungono a Berlino circa forti pressioni francesi sull'Italia perché resti neutrale, o almeno conduca una guerra non troppo impegnativa, suscitano la diffidenza di Bismarck.
La Prussia inizia le operazioni militari il 16 giugno.
Quattro giorni dopo, Bettino Ricasoli, appena nominato presidente del consiglio al posto di La Marmora divenuto capo di Stato Maggiore, invia la dichiarazione di guerra che fissa per il 23 giugno l'inizio delle ostilità contro l'Austria.Questo sia pur breve ritardo sembra confermare i sospetti di Bismarck che si aspetta , da parte dell'Italia, una campagna rapida ed energica con l'obiettivo di occupare Padova, mentre Garibaldi avrebbe dovuto sbarcare sulla costa adriatica per favorire un'eventuale insurrezione ungherese.
La divisione delle forze di terra italiane tra La Marmora - che deve attaccare le fortezze del quadrilatero, cioè Mantova, Verona, Legnago e Peschiera, e il generale Cialdini, che deve passare il Po nel Polesine, toglie il necessario coordinamento all'azione bellica.
E lo scontro del 24 giugno a Custoza tra le forze di La Marmora e quelle austriache si risolve in un insuccesso per gli italiani che decidono di ritirarsi sull'Oglio.
Garibaldi, che si apprestava ad attaccare in direzione del Trentino, deve ora difendere Brescia e soltanto ai primi di luglio può riprendere il piano predisposto.
Il 14 luglio si riunisce il consiglio di guerra al quale partecipano il presidente del consiglio Ricasoli, il capo di Stato maggiore La Marmora, il generale Cialdini, i ministri degli esteri, della guerra, e della marina.
Queste le decisioni prese: Cialdini avrebbe dovuto muovere verso Trieste, La Marmora assediare le fortezze del quadrilatero occupate ancora dagli austriaci, Garibaldi proseguire la sua azione in Valsugana, e l'ammiraglio Persano attaccare al più presto la flotta austriaca.Ma l'attacco della flotta a Lissa, munita base austriaca dell'adriatico, si risolve in un insuccesso, reso più amaro dall'affondamento della corazzata Re d'Italia e della Palestro.
L'unica azione militare vittoriosa é la battaglia di Bezzecca , un villaggio in val di Ledro allo sbocco della valle di Concei: Garibaldi ha dinanzi un avversario di tutto rispetto, il generale austriaco Kuhn, particolarmente esperto della guerra in montagna.
Questi nella prima fase della battaglia ottiene buoni risultati ed occupa Bezzecca, ma l'arrivo di Garibaldi il giorno successivo capovolge le sorti dello scontro: il piccolo centro é occupato dai garibaldini dopo un furioso corpo a corpo nel quale si distinguono i due figli di Garibaldi, Menotti e Ricciotti, e il maggiore Dogliotti.
La via di Trento sembra aperta. Ma il 25 luglio giunge la prima notizia dell'armistizio in corso. E il 9 agosto Garibaldi all'ordine ricevuto dal Comando supremo di ritirarsi dai territori occupati risponde "obbedisco".
Terminato il conflitto in seguito alle vittorie prussiane, il 12 agosto é firmato l'armistizio di Cormons fra Italia e Austria, e quindi la pace a Vienna.
L'Austria cede all'Italia il Veneto ma tramite un accordo con la Francia, per umiliare un paese vincitore grazie alle armi altrui.
1867 - MENTANAE' l'ennesimo tentativo di Garibaldi e di un tentennante governo italiano di annettere Roma all'Italia. Ma la fallita insurrezione interna, le indecisioni del governo, e infine l'intervento determinante dei francesi a fianco dei papalini, la diserzione di parecchi volontari, e nonostante alcuni successi, Garibaldi é costretto a desistere e a consegnarsi come prigioniero all'esercito italiano.
14 ottobre 1867: alle sei del pomeriggio Garibaldi riesce a fuggire da Caprera dove si trovava in residenza sorvegliata dopo essere stato arrestato a Sinalunga per via dei suoi preparativi di una spedizione mirante ad annettere Roma all'Italia.
Il 19 ottobre é già a Livorno e il 20 é a Firenze. Il 23 giunge a Passo Corese, ai confini con lo Stato pontificio e prende il comando della spedizione per liberare Roma.
Napoleone III minaccia di intervenire, così da provocare le dimissioni di Urbano Rattazzi, da presidente del consiglio.
Rattazzi vedeva con favore una insurrezione interna a Roma, non contemplata nella convenzione di settembre e considerata quindi come una via per risolvere la questione romana e aggirare i patti con la Francia.Difatti il 24 ottobre Roma sarebbe dovuta insorgere. Per sostenere il movimento i fratelli Cairoli ed una settantina di volontari cercano di portare armi in città attraverso il Tevere.
Ma a Villa Glori, con la morte di Enrico Cairoli e il ferimento del fratello Giovanni, il tentativo fallisce.
Anche all'interno l'insurrezione é repressa sul nascere.Il 25 ottobre Garibaldi attacca Monterotondo, la cui posizione é rafforzata dalla trasformazione in fortezza del palazzo dei principi di Piombino.
Dopo una intera giornata di combattimenti gli zuavi, anche per timore di saltare in aria per lesplosione delle polveri, si arrendono.
La cittadinanza, invero, non collabora con gli assalitori e non mancano, quindi, disordini quando entrano i garibaldini.Il 30 ottobre Garibaldi si spinge sulla via Nomentana fino al casino dei Pazzi alle porte di Roma, poiché gli é stata preannunziata una imminente sommossa contro il governo pontificio.
Ma l'atteso segnale non arriva. Garibaldi decide allora di ritirarsi a Monterotondo, abbandonando le posizioni più vicine a Roma perché difficilmente difendibili.
Ma la mancata insurrezione della popolazione romana e, insieme, l'annunziato arrivo di truppe francesi a sostegno dei papalini, generano delusione e sconforto tra le truppe garibaldine.
D'altronde repubblicani e mazziniani non erano poi troppo convinti dell'opportunità di entrare a Roma per poi cederla a Vittorio Emanuele II come era accaduto per il Mezzogiorno.
Da questo stato d'animo nasce "l'infausta demoralizzazione", come la definisce Garibaldi.
"Dall'alto della torre del palazzo Piombino a Monterotondo - egli scrive- io la vedevo la processione di gente nostra che s'incamminava verso passo Corese e vedevo bene che se ne andavano alle loro case".Il 3 novembre, verso l'una pomeridiana, a Mentana c'é lo scontro decisivo. Fra le tre e le quattro sembra che i papalini si ritirino e che i garibaldini restino padroni del campo di battaglia.
Ma il costante aumento del numero dei disertori mina il morale dei volontari, preoccupati sia dell'annunziato arrivo dei soldati di Napoleone III sia della presenza dell'esercito italiano che controlla il confine.
Così verso le quattro l'arrivo di un corpo di spedizione francese a sostegno dei soldati del papa getta lo scompiglio nelle file garibaldine:
i volontari si ritirano in disordine verso Monterotondo e successivamente verso passo Corese, confine tra lo Stato italiano e quello pontificio.
La mattina del 4 novembre gli stessi volontari depongono le armi e abbandonano lo Stato pontificio.
Un colonnello dell'esercito italiano mette a disposizione di Garibaldi un treno che lo conduce a Firenze dove viene arrestato e inviato di nuovo al Varignano, da dove esce venti giorni dopo senza subire alcun processo.Un simile fallimento segna un grave colpo per il partito d'azione, ma non solo per esso: anche il re e il governo non ne escono certo brillantemente. L'opinione pubblica italiana matura un aspro risentimento per Napoleone III, e per Pio IX, che si abbandonerà a una dura repressione interna .
1868 - FIRENZE FESTEGGIA UMBERTO DI SAVOIA E MARGHERITA SPOSITorino, 22 aprile: il ventiquattrenne Umberto di Savoia, principe di Piemonte, figlio di vittorio Emanuele II e di Maria Adelaide d'Asburgo Lorena, sposa la cugina Margherita, figlia di Ferdinando di Savoia, duca di Genova e di Maria Elisabetta di Sassonia.
Una settimana dopo il matrimonio, Umberto e Margherita, che saliranno sul trono dieci anni dopo, fanno il loro solenne ingresso a Firenze, attraverso il viale delle Cascine.
Diventata da qualche anno la nuova capitale del regno, Firenze in seguito a questo trasferimento, si sta trasformando urbanisticamente: scompaiono ora alcuni edifici fatiscenti e alcuni vecchi angoli della città.La mattina del 30 aprile, il sindaco, marchese Lorenzo Ginori, regala alla sposa un gioiello formato da un giglio fiorentino in rubini e da una margherita di brillanti.
Il corteo delle carrozze, aperto da una berlina dorata, nella quale hanno preso posto i principi, impiega circa tre ore per attraversare le vie più note della città e giungere a palazzo Pitti.
Qui sono in attesa Vittorio Emanuele II e la duchessa di Genova, alcuni collari dell'Annunziata, tra cui Bettino Ricasoli e Alessandro La Marmora, i ministri, i rappresentanti del parlamento e il corpo diplomatico.Dietro le autorità ci sono migliaia e migliaia di persone che riempiono la piazza antistante il palazzo per vedere e acclamare i principi sposi.
In questi giorni Firenze ha quasi raddoppiato la popolazione che conta circa 120.000 abitanti: soltanto attraverso le ferrovie sono arrivate centomila persone, soprattutto dalla Toscana, ma anche da regioni settentrionali e centrali e perfino dal mezzogiorno e dalle isole.
Anche Roma, ancora divisa dall'Italia, é presente con una deputazione di emigrati.Questo incontro tra la nuova capitale del regno e gli eredi al trono é particolarmente solenne.
La città, con l'aiuto di una primavera splendente, si trasforma: la statua della giustizia in piazza Santa Trinità é ricoperta di rose, piazza San Gaetano é piena di aiuole fiorite.Nel pomeriggio i principi reali passeggiano in carrozza scoperta per le principali vie cittadine e per i Lungarno, mentre nel fiume si svolgono le regate. Poi la serata di gala al teatro della Pergola
I festeggiamenti proseguono nei primissimi giorni di maggio : c'é una sfilata di carrozze, una corsa al galoppo alle Cascine, una rivista delle truppe della guarnigione di Firenze sul prato delle Cascine, un torneo in costume del Trecento di 200 cavalieri, divisi nelle quadriglie che portano gli stendardi di Firenze con il giglio, di Milano con la croce rossa, di Torino con il toro e di Napoli con il cavallo sfrenato.Le feste si concludono con imponenti fuochi d'artificio che hanno come spettatori i principi reali . Essi hanno preso posto sulla terrazza di palazzo Corsini e la cittadinanza fiorentina é assiepata sui lungarno e sul ponte della Carraia.
Non mancano le critiche di alcuni fiorentini secondo i quali i fuochi pirotecnici che Firenze dedica ogni anno a San Giovanni Battista, non sono per nulla inferiori a questi organizzati per i principi reali dal famoso architetto romano Antonio Cipolla.
In prossimità del ponte della Carraia, l'architetto ha costruito, per i fuochi d'artificio, un ponte provvisorio sul quale c'é una macchina pirotecnica che raffigura un ponte trionfale.
L'effetto é molto suggestivo e Firenze suggella così, festosamente, la propria vocazione di capitale del regno.
1869 - IL CONCILIO VATICANO I
Roma, 8 dicembre 1869: alle ore 9 del mattino le artiglierie poste sull'Aventino e le campane di tutte le chiese di Roma annunciano al mondo l'apertura del ventesimo concilio ecumenico, il Vaticano I.
L'idea di un concilio ecumenico, cioè universale, comincia a circolare negli ambienti della curia romana dopo la caduta della repubblica del 1849 e dopo il rientro a Roma di Pio IX.
Nonostante la sconfitta della rivoluzione, dopo quell'anno i progressi del liberalismo sono innegabiliNel regno sardo nel 1850 sono aboliti i diritti particolari di cui godevano gli ecclesiastici , ad esempio sul diritto d'asilo o sull'istituzione di un foro privilegiato.
Dieci anni dopo, lo Stato pontificio è ridotto ad un piccolo territorio intorno a Roma con il porto di Civitavecchia.Nel marzo del 1861 Roma è proclamata capitale del nuovo regno d'Italia da Cavour.
Per Pio IX é necessaria una risposta decisa , che oltre a confermare la condanna della società moderna, già espressa dalla Chiesa con il "Sillabo" del 1864, affermi la infallibilità del papa in materia di fede.Sono favorevoli, d'altronde, ad un nuovo concilio sia i vescovi 'oltremontani' che accettano questo rafforzamento dell'autorità del papa, sia i vescovi che sperano, invece, in un riconoscimento dell'autorità dell'episcopato nei confronti del pontefice.
Il 28 giugno 1868 , con la bolla "Aeterni Patris", Pio IX convoca il concilio per il dicembre dell'anno successivo a San Pietro.
Come sede del concilio è scelto il braccio settentrionale della basilica:
l'abside contiene un palco che ha, al centro, il trono papale e, ai lati, i seggi riservati ai cardinali.
Lungo le due pareti del braccio sono sistemati sette ordini di stalli in grado di offrire uno scrittoio-inginocchiatoio a ciascuno dei circa mille vescovi che si attendono da tutto il mondo.In realtà i vescovi che intervengono non superano i 750, per due terzi provenienti dall'Europa.
Nel concilio si delineano due tendenze:
una che rifiuta decisamente ogni compromesso con il mondo liberale, e fa capo alla rivista 'La Civiltà cattolica' dei Gesuiti di Roma.L'altra, di orientamento cattolico-liberale, si rifà a Gioberti e a Rosmini e cerca un accordo con le nuove tendenze della società: é disposta anche ad accettare il liberalismo cavouriano, correggendone però la formula "libera Chiesa in libero Stato" in "libera Chiesa e libero Stato"
La maggioranza del concilio, favorevole - sia pure con alcune sfumature- al dogma dell'infallibilità del pontefice, che del resto approverà, é composta da vescovi italiani, spagnoli, parte dei francesi, irlandesi e dell'America latina.
La minoranza, composta da circa 150 vescovi, che si oppone a quel dogma, é costituita da vescovi belgi, olandesi, svizzeri, parte dei francesi e dai vescovi nordamericani.
Questa dura riaffermazione dell'ortodossia cattolica in termini di assoluta intransigenza provoca fra i cattolici effetti contrastanti: ne sono entusiasti i cattolici più conservatori, mentre i cattolici liberali vedono sfumare le loro speranze di modernizzazione
Lo stesso 8 dicembre, mentre a Roma si inaugura il concilio, a Firenze un centinaio di anticlericali partono da piazza Indipendenza verso piazza san Marco e piazza della Signoria per chiedere l'abolizione del primo articolo dello Statuto,
che riconosce la religione cattolica come religione dello Stato e per ricordare il sacrificio di Savonarola, "arso.....per aver voluto riformare la Chiesa di Roma".Prevista per lo stesso 8 dicembre, ma poi spostata al giorno dopo, si inaugura a Napoli un anticoncilio di ispirazione massonica, promosso dal conte Giuseppe Ricciardi in nome della libertà di coscienza, in contrapposizione al concilio riunito a Roma.
Pio IX, il papa che aveva inizialmente suscitato tante speranze presso i liberali, assume così la difesa intransigente dei valori della Chiesa di fronte alla "civiltà moderna".
1870 - LA BRECCIA DI PORTA PIA
20 settembre 1870 - Il governo del regno d'Italia diretto da Giovanni Lanza decide di porre fine al potere temporale della Chiesa.
Truppe italiane, comandate dal generale Raffaele Cadorna, dopo un breve cannoneggiamento a Porta Pia, entrano in Roma occupandola.
Seguiamo da vicino le tappe che hanno portato alla annessione dello Stato Pontificio.
La Francia, sempre più duramente impegnata nella guerra iniziata il 19 luglio contro la Prussia, richiama in patria l'intera guarnigione di stanza a Roma per la difesa del pontefice.
(1 settembre)
L'esercito francese è sconfitto a Sedan e lo stesso Napoleone III è fatto prigioniero. Tre giorni dopo cade l'impero e viene proclamata la repubblica.
(8 settembre )
Vittorio Emanuele II tenta l'accordo diretto con Pio IX: gli scrive "con affetto di figlio, con fede di cattolico, con animo di italiano" e gli preannuncia l'entrata a Roma delle truppe italiane per prevenire il partito della rivoluzione.
La motivazione non è pretestuosa se lo stesso giorno il presidente del consiglio Lanza raccomanda al prefetto di Sassari la "massima sorveglianza" su Garibaldi (il testo: "Sua presenza continente darebbe gravi imbarazzi governo") e al prefetto di Caserta di esercitare "massima vigilanza custodia" su Mazzini ("Sua fuga in questi momenti creerebbe serii imbarazzi governo").
(11 settembre)
Pio IX, che considera la lettera "non degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica", rifiuta qualsiasi trattativa.
La parola spetta ora a quel "Corpo d'esercito d'osservazione dell'Italia centrale", costituito a metà agosto per difendere la frontiera dello Stato pontificio da qualsiasi tentativo di irruzione di bande armate, e che ora prende il nome di "Quarto corpo d'esercito" al comando del generale Raffaele Cadorna.
(12 settembre)
Le truppe italiane - 50.000 uomini- varcano il confine, hanno di fronte 14.000 soldati pontifici. Cadorna rivolge un appello agli italiani delle province romane e ribadisce l'inviolabilità dell' indipendenza della Santa Sede: "Noi non veniamo a portare la guerra ma la pace e l'ordine vero".
(16 settembre)
Civitavecchia, minacciata da terra e da mare, capitola. Cadorna invita ancora il generale Kanzler, comandante delle truppe pontificie, a non opporre resistenza all'occupazione militare di Roma.
Questi rifiuta e contemporaneamente proclama a Roma lo stato d'assedio.
(18 settembre)
Il generale Cesare Ricotti, ministro della guerra dal 7 settembre, telegrafa a Cadorna che il governo ha deciso che, "esauriti i mezzi conciliativi", le truppe ai suoi ordini debbano impadronirsi con la forza della città di Roma, "salva la città Leonina" e cioé quell'area che comprende Castel Sant'Angelo, il Vaticano, il Gianicolo fino alle mura aureliane che da San Pancrazio giungono al Tevere.L'attacco è deciso per il 20 settembre : il generale Cosenz avrebbe attaccato a porta Salaria, il generale Mazè de la Roche a porta Pia, il generale Ferrero a porta san Lorenzo, il generale Angioletti a porta san Giovanni. Bixio avrebbe attaccato Roma da Civitavecchia.
La presenza di Bixio, che aveva servito la repubblica romana del 1849, decisamente avversata da Cadorna, fu voluta dal governo proprio per assicurare una presenza alla componente garibaldina.
(20 settembre )
Il fuoco delle artiglierie italiane comincia alle 5,30. E' aperta una breccia tra porta Pia e porta Salaria. Alle ore 10 è forzata porta Pia e le truppe entrano nella città.
Lo stesso giorno il generale Kanzler, comandante generale delle truppe pontificie, firma a villa Albani (poi Torlonia) la capitolazione: tranne la città leonina, tutta Roma sarebbe stata consegnata alle truppe italiane, la guarnigione sarebbe uscita "cogli onori della guerra". Tra gli italiani si contano 48 morti e 141 feriti. tra i pontifici 20 morti e 49 feriti.
(2 ottobre)
Il plebiscito di unione al regno d'Italia dà 40.785 sì e 46 no e sancisce così i fatti compiuti.
Nel luglio 1871 la corte e il governo si trasferiscono a Roma capitale d'Italia.
1871 - ROMA CAPITALE E I SUOI MINISTERI
3 febbraio : dopo un contrastato dibattito parlamentare è approvata la legge per il trasferimento della capitale del regno da Firenze a Roma. Tempo entro il quale il trasferimento deve essere effettuato: 5 mesi. Spesa prevista : 17 milioni.
Una prima commissione tecnica, composta da tre ingegneri del genio civile, al lavoro dall'inizio dell'ottobre 1870 al dicembre successivo, prevede la zona dei ministeri al centro della città, tra il Quirinale, piazza Venezia, la Chiesa Nuova e piazza di Spagna.
Al centro devono essere, però, prioritariamente sistemati la Camera dei deputati e il Senato del Regno : per la prima si pensa subito a Montecitorio, per il Senato si pensa in un primo tempo al palazzo della Consulta, accanto al Qurinale (dove poi si sistemerà il ministero degli esteri), poi al Collegio romano dei Gesuiti e infine a palazzo Madama.L'acquisto di alcuni palazzi dell'aristocrazia romana - come i palazzi Chigi, Doria, Barberini e Altieri- potrebbe risolvere molti problemi, ma la spesa sarebbe molto alta. "Poveri milioni! (scrive Sella al presidente del consiglio Giovanni Lanza a fine gennaio 1871).
Tanta fatica per metterli insieme, tanto sudore pei contribuenti e poi con quanta facilità vanno via!". Altre soluzioni possono essere offerte dal palazzo della Cancelleria, dal palazzo Capranica e dal palazzo Valentini.Ma alcuni hanno bisogno di sedi nuove, spaziose, da costruire in una zona cittadina che sia abbastanza vicina al centro. La commissione non riesce a trovare un accordo sulla scelta di questa zona e si limita a formulare due possibili soluzioni : l'area che dal Quirinale si stende fino a porta Pia, al Macao, all'Esquilino e al Viminale; oppure una zona posta sulla destra del Tevere, che dai prati di Castello giunge alle falde di Monte Mario e del Gianicolo.
Prevale la prima soluzione, presa da una commissione del comune di Roma, ma accettata e fatta propria da Quintino Sella, ministro delle finanze, e da Giuseppe Gadda, ministro dei lavori pubblici.I tempi stretti per il trasferimento richiedono un coordinamento delle iniziative : lo stesso Gadda, che ha dato prova di notevole capacità e competenza, è nominato "regio commissario per il trasferimento della sede del governo a Roma", e deve lasciare perciò il 31 agosto il ministero dei lavori pubblici.
La zona individuata per l' edificazione dei nuovi ministeri si trova nella parte alta della città, tagliata dalla via Pia , alla quale viene poi dato il nome di via XX settembre :
militano a favore di questa scelta l'aria migliore, la lontananza dal Tevere e quindi dai pericoli delle periodiche inondazioni, la vicinanza alla stazione ferroviaria.
Sella è uno dei più tenaci sostenitori di questa soluzione e proprio nella dorsale che congiunge il Quirinale e porta Pia sorgeranno il monumentale ministero delle finanze, che insieme alla Corte dei conti ospita oltre 1.600 dipendenti, e il ministero della guerra, con i suoi 580 impiegati, che utilizza i conventi di santa Teresa e della S.S.Incarnazione, che saranno in parte risistemati e in parte ampliati con una nuova ala.Queste prime scelte, e quelle che immediatamente seguiranno, sistemano al centro della città le sedi del potere (il Quirinale, il Parlamento a Montecitorio e a palazzo Madama, la presidenza del consiglio e il ministero dell'interno a palazzo Braschi)
Vicino al centro i luoghi della burocrazia, cioé gli altri ministeri, e non lontano (Esquilino, piazza Vittorio) le case degli impiegati: operai ed artigiani devono spostarsi via via dal centro verso la periferia.
1872 - MORTE DI MAZZINI10 marzo 1872, ore 1,35 pomeridiane : a Pisa, in via della Maddalena 38, nella casa di Pellegrino Rosselli e di Giannetta Nathan, muore Giuseppe Mazzini. Gli sono vicini gli amici più fedeli e più cari, le famiglie Nathan e Rosselli, Agostino Bertani e Maurizio Quadrio.
Mazzini muore sotto il falso nome di George Brown. L'incognito era indispensabile per poter soggiornare in Italia, specie dopo il suo ultimo arresto, avvenuto il 14 agosto 1870 a Palermo dove era appena giunto da Napoli, nella speranza di capeggiare un moto rivoluzionario. L'arresto è seguito da due mesi di detenzione nel forte di Gaeta, durante i quali la mutata situazione internazionale -anzitutto la caduta dell'impero di Napoleone III- consente la soluzione della questione di Roma.
Quando quel che restava dello Stato pontificio è occupato dalle truppe del generale Cadorna e si svolge anche il plebiscito delle province romane con la quasi unanimità di consensi per l'annessione al regno d'Italia, Mazzini, il 14 ottobre, grazie all'amnistia concessa per la liberazione di Roma, è liberato.
La sua presenza non può più creare imbarazzi al governo di fronte all'attenta opinione pubblica europea. Egli non può, però, restare in Italia e non gli resta che riprendere la via dell'esilio.
Torna così in Inghilterra, dove conta tanti amici ed estimatori e dove trascorre gran parte del 1871. Ma la salute va rapidamente peggiorando e Mazzini ne è consapevole.Il desiderio di finire i suoi giorni in Italia lo riprende e non lo abbandona più. Accetta perciò l'offerta degli amici di Pisa di ospitarlo e tra quegli amici conclude la sua vita, che era stata tutta dedicata al raggiungimento di quegli ideali -Italia unita e Roma capitale- che, paradossalmente, erano stati realizzati quasi contro di lui, detenuto nel forte di Gaeta.
Mazzini non cessa di essere pericoloso perché morto : l'11 marzo nelle maggiori città le truppe vengono consegnate nelle caserme perché si teme che la notizia della sua morte possa provocare pericolose manifestazioni. Lo stesso giorno la Camera dei deputati approva unanime una dichiarazione di dolore per la morte dell'apostolo dell'unità, ma la proposta di inviare una delegazione ufficiale ai suoi funerali non è approvata.
Il 12 marzo mentre una grandissima folla visita a Pisa la salma imbalsamata di Mazzini, a Bologna, nel pomeriggio, nel teatro comunale, diversi oratori, fra i quali Giosuè Carducci, ricordano la sua vita e la sua opera.
14 marzo: nel pomeriggio a Pisa si svolgono i funerali di Mazzini. Si calcola che vi partecipino circa 12.000 persone: accanto al feretro ci sono Federico Campanella, Maurizio Quadrio, Aurelio Saffi ed Ernesto Nathan.
Il comune di Genova ha offerto la tumulazione nel cimitero di Staglieno. La salma di Mazzini parte da Pisa e attraversa varie città, accolta sempre da una folla numerosa ma composta; alle 3 del pomeriggio del 15 giunge a Genova. Negli stessi giorni in tutta Italia si ripetono le manifestazioni di cordoglio.
A Roma il 16 mattina un grande corteo si muove da piazza del Popolo per raggiungere il Campidoglio, dove tiene la solenne commemorazione Benedetto Cairoli. Analoghe manifestazioni avvengono a Venezia e a Milano. Ma solo il 17 avviene il trasporto della salma di Mazzini al cimitero di Staglieno con la partecipazione di oltre 15.000 persone. L'intera città è in lutto: negozi e teatri sono chiusi; al porto le navi hanno la bandiera a mezz'asta.
1874 - I FLORIO, IMPRENDITORI DEL SUD7 marzo 1874: Ignazio Florio, figlio di Vincenzo e della milanese Maria Rachele Giulia Portalupi, acquista per 2.750.000 lire dai marchesi Giuseppe Carlo e Francesco Rusconi e dalla marchesa Teresa Pallavicini Durazzo, le isole Egadi - cioé le isole di Favignana, Levanzo, Marettimo e Formica- poste di fronte a Trapani e alla costa occidentale della Sicilia.
Insieme alle isole sono acquistati anche i mari circostanti, denominati di San Vittore, delli Porci, Nubbia e Raisgerbi, "con i relativi privilegiati diritti di privatura".
Ma il vero motivo per il quale Ignazio Florio investe una somma così elevata, anche se rateizzata in quattro annualità, é costituito dalla presenza in quelle isole delle tonnare di Favignana e di Formica con un attrezzato e costoso corredo di "barche e barcacce, ancore, cordaggi, sartiame, reti e sugheri", e di tutto il necessario per poter esercitare un'attività abbastanza lucrosa come la pesca del tonno.
Le tonnare, dove si svolgeva la cosiddetta "mattanza", cioè l'uccisione in massa dei tonni, erano fatte da reti verticali legate da gomene tenute in superficie da fasci di sughero che delimitavano uno spazio chiuso dai barconi dei pescatori. I tonni penetravano nella tonnara spontaneamente o spinti dai cosiddetti 'tonnaroti' e si dibattevano finché non venivano uccisi dagli arpioni e quindi issati sulle barche.
Originari di Bagnara, in Calabria - località nota nel Settecento per la grande abilità degli abitanti come marinai e costruttori di imbarcazioni - i Florio avevano iniziato una discreta attività commerciale a Palermo fin dagli inizi dell'Ottocento, quando avevano aperto, in una piazza nei pressi del porto, una bottega di "spezie e droghe" e avevano preso in affitto una tonnara vicino la città.
Il creatore della fortuna dei Florio era stato Vincenzo, nato a Bagnara nel 1799, che aveva guidato l'azienda per 40 anni, dal 1828 alla morte sopravvenuta nel 1868.
Si deve a lui la costruzione, nel 1834, della fattoria vinicola di Marsala destinata ad un grande sviluppo e a numerosi riconoscimenti in esposizioni internazionali.Ma l'attività più importante fu costituita dalla creazione, nel 1840, di una società di navigazione per congiungere la Sicilia con Napoli e Malta, e successivamente Marsiglia, con battelli a vapore: da Palermo era possibile raggiungere Napoli in 16 ore.
Questa società di navigazione riuscì ad acquistare nel 1877 un'altra società di navigazione palermitana, "La Trinacria", che aveva oltre una decina di battelli.Certo non tutte le iniziative ebbero un esito felice: ad esempio, per evitare di dover acquistare tessuti in Inghilterra, Vincenzo Florio nel 1838 aveva creato una filanda di cotone con oltre un centinaio di operai, ma dopo una trentina di anni la fabbrica era stata costretta a chiudere per i rincari subiti dal carbone e dal cotone greggio americano in seguito alla guerra di Secessione americana.
I Florio estesero col tempo la loro attività al campo minerario (zolfi siciliani), alla cantieristica (costruzione nel 1899 del cantiere navale di Palermo) al giornalismo ( fondazione il 22 aprile 1900 del quotidiano "L'Ora" a Palermo).
Ai Florio non mancarono significativi riconoscimenti da parte del potere politico: Vincenzo e Ignazio Florio divennero senatori per censo, rispettivamente nel 1864 e nel 1883 .
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Nota extra Risorgimento
CHE COS'E' LA COSTITUZIONELa costituzione è la legge suprema della nazione. Per scrivere la costituzione, di regola, si elegge l'Assemblea Costituente.
E il ricorso all'Assemblea Costituente è sempre il sintomo di un momento eccezionale nella vita di un popolo; è il segno di una rottura nel corso della storia.
Questo avviene quando il vecchio regime viene travolto dalla forza degli avvenimenti, oppure non regge più. Si apre così un vuoto, che reclama di essere colmato.
L'Italia del 1946 si trovava in questa situazione. Si usciva dalla catastrofe della guerra. Il fascismo era crollato, e la Resistenza aveva avuto il significato dell'inizio di una rivoluzione democratica.
La monarchia era stata sconfitta con il voto degli italiani. Per la Repubblica appena nata occorreva dunque aprire una pagina nuova.
Per la prima volta, l'impegno di eleggere la Costituente fu preso il 21 aprile 1944 a Salerno, dal governo di unità antifascista guidato da Badoglio. E venne confermato con un decreto dopo la liberazione di Roma.
La Costituzione, scritta nel periodo che va dal 2 giugno 1946 alla fine del 1947, prima di tutto sancisce le libertà riconquistate e i nuovi diritti. Stabilisce poi quale deve essere l'organizzazione dello Stato, il suo ordinamento.
Nessuna legge ordinaria, e nessun atto degli organi statali, può negare o contraddire la costituzione. E' stato creato un organo nuovo, la Corte Costituzionale, proprio con lo scopo di far rispettare questa regola.Ma la costituzione non è soltanto un fatto giuridico. E' anche un patto che lega i cittadini.. I grandi valori che sono l'essenza della costituzione stanno alla base della convivenza democratica. Questo aspetto perciò difficilmente può invecchiare; resta vivo anche con il passare del tempo.
I meccanismi delle istituzioni della Repubblica possono invece cambiare. In qualche caso, anzi, debbono cambiare, perché in ogni fase dello sviluppo del Paese può essere indispensabile una messa a punto. Per questo si progettano le riforme, tanto sentite quanto, assai spesso, difficili da attuare.