racconti - stories

 
Francesco Massinelli

 

Biografia
Ho 33 anni e vivo a Perugia. Ho iniziato a scrivere durante il periodo di studio scolastico privilegiando
l'attenzione verso quella demenzialità capace di sdrammatizzare e di far sorridere gli altri. Con il passare del tempo ho preferito sempre più adottare uno stile più criptico per nascondermi meglio dietro le parole e dar rilievo alle storie e ai personaggi, in una forma caricaturale.
Grazie al computer, alla possibilità di archiviare e far fotocopie dello stesso scritto, ho potuto far leggere le mie opere a tante persone. Recentemente sono stato ancor più incoraggiato dagli amici ad avvicinarmi all'editoria specializzata.
Mia moglie pensa a trovarmi indirizzi, contatti, persone disposte a leggere e curare la pubblicazione di quanto ho sempre regalato.
I lettori rimangono colpiti dagli aspetti linguistici, più dalla forma che dal contenuto dei temi che sviluppo, dalla musicalità che riesce ad uscire anche da un racconto. Se non rimangono divertiti dalla mia genialità puerile sta di fatto che discettano sul mio modo di descrivere, che divide.
Professionalmente mi occupo di relazioni d'aiuto. Sono un assistente sociale e lavoro in una grande cooperativa. Vado al domicilio di persone seguite dal CIM o dai distretti socio-sanitari. Visto l'attuale orientamento umbro a strutturare tanti contratti part-time per distribuire meglio la disoccupazione, non guadagno molto.

 


Flambèe
di Francesco Massinelli

Dall'andare di un mare di gente vengono onde colorate a tinte forti. Sono maschere italiane che si rompono sullo scoglio della rapidità. Io vivo in riva ad un lago e conservo i frammenti che arrivano a me. Questo scrivo il 31 dicembre 1994 guardando le palle di un albero addobbato con grazia ed approssimazione. Sono una persona giovane, mi riconosco in Brighella ma vesto come Geppetto. Ho preparato un distintivo da poliziotto aspettando questo carnevale. Il mio compito è semplice. Devo portare fuori da qui una creatura che faceva il parrucchiere per signora. Ad una cliente ha fatto lo shampo con la benzina. Poi con un fiammifero e gridando "flambèe" le ha procurato dolorose ustioni. Devo portarlo fuori senza farlo alterare. I miei pensieri lo inseguono da giorni e adesso è carico d'ansia. Mi sento responsabile di lui e so che fuori non avrà vita facile. Lo attendono giudizi severi. Tutto è iniziato con una comunicazione, un preciso indirizzo, un gradito invito. La creatura deve essere fermata, nel rispetto delle regole. I Commissari hanno bisogno di me, io solo posso portarlo a loro. Ma in questo carnevale la mia lucidità è a pezzi. Vedo nuovi modi di essere, diversità che si riconoscono: un cardinale in danza, un arlecchino che non scherza, una pera di gommapiuma. E poi c'è questa creatura capace di burlarsi di chi lavora con intenzionalità. Più di così non verrà fuori. E' ora di spiegare. Sono i primi istanti del 1995. Nel paese dove vivo si saluta l'anno nuovo ed io penso al carnevale. E' un carnevale tra gli scogli del mare, tra la rapidità della gente. E' un incontro di coriandoli nati in fabbrica e non dalle mani dei bambini. Vanno veloci ai quattro venti, incontro alle maschere emarginate. Sono le maschere popolari, allontanate da quelle popolaresche. L'amore per la rapidità sta uccidendo un vecchio detto: "Chi va piano va sano e va lontano". In questo periodo dove tutti si sforzano di dare seri e credibili contenuti al proprio prodotto è arrivato un parrucchiere così stravagante da spingere ogni signora a pensare da quali mani si fa lavare. Un parrucchiere non vero.

 

 

Bambina sola
di Francesco Massinelli
nel diritto all'accesso d'acque sopraffini, senz'oli petroliferi
d'Aosta ad Ostia come d'Arona a Roma

 

V'era ad una svolta, della strada con un quartiere da poco in periferia, una bambina con la ruzza, con un bel taglio di capelli alla maschietta scalato, a tratti carré sfilato. Una bambina vivace, rinsavita e strigliata, che aveva eletto a matrigna cara una educatrice vocata al contenimento e superamento di situazioni critiche in ambito di disagio minorile. La casa-famiglia dove vivevano, avviata da tempo al degrado, sorgeva in una zona insalubre, soprattutto d'estate, a causa di oggetti e contenitori abbandonati al cadere delle acque piovane; vicina a tanti tombini mai trattati con prodotti larvicidi, in cui dal ristagno si creavano sciami di zanzare tigri grandi, pericolosi, roboanti. Pomate e retine facevano parte del loro vivere ed il posto migliore dove passavano il tempo era un monastero poco lontano, posto in alto rispetto all'abitato. La bambina attendeva di ricongiungersi alla sua famiglia d'origine perché le sue figure di riferimento erano al momento instabili. I suoi genitori si erano sposati da poco, dopo un fidanzamento travagliato. Aiutati dai servizi sociali e dalla chiesa metropolitana si erano decisi a crescere per la via della giusta genitorialità.
Quando accadde quello che spinse la bambina a usufruire dell'aiuto delle forze dell'ordine era domenica mattina. L'educatrice eletta a matrigna stava facendo la pasta fatta in casa e mancava l'acqua potabile. Quella che usciva dal rubinetto, lì nell'acquaio dove la notte le formiche andavano a ripulire tutto, era marrone. Davanti alla farina a fontana, lì sulla spianatoia, attratta dal vuoto in cui si rompono le uova, visto che gli altri bambini se ne stavano purtroppo indisponenti a guardare senza voler aiutare, lei si era decisa ad andare a prendere una caraffa d'acqua di nascosto, per fare una sorpresa a tutti. Dopo aver chiesto il permesso di andare in bagno, con grande abilità neuromotoria, arrivò rapidamente all'ingresso laterale del monastero, quello che dava sull'orto botanico, tutto medioevale, dove c'era un ruscello ed uno stagno. Sapeva per certo della presenza di una fonte d'acqua antica e buona, di proprietà monacale, contesa a livello consortile pluri-municipale. Aveva assistito di persona all'imposizione dei sigilli per fini pubblici da parte dell'autorità civile, all'attuazione d'una recinzione in plastica arancione. L'unica cosa che la teneva in soggezione era il non ricordare la posizione di una fenditura che permetteva alla comunità religiosa l'ufficioso esercizio di un suo diritto all'utilizzo. Una fenditura che in un quatto quattro e quattr'otto le avrebbe permesso di attingere acqua, o da una cisterna o da un pozzo.
Per il brutto scherzo che gioca l'emozione della soggezione, tra le due porte che poteva scegliere, la piccola scelse quella sbagliata e si ritrovò subito persa in sciatte sale e corridoi freddi, in un'ala del monastero troppo grande persino per un adulto pratico del posto. Impaurita, incapace di orientarsi, pur volendo star ferma prese a correre, a correre a più non posso, con la caraffa in mano e urlando. E non la trattennero le transenne, non fu bloccata dall'oscurità. Schivato un chiostro luminoso e in degrado finì la sua corsa nella eco-lavanderia del monastero, accanto ad un gioiello di lavatrice tecnologica capace di lavare senza detersivi e risciacqui. Gli ioni pulenti prodotti attraverso l'elettrolisi, il carbonato di calcio impiegato come catalizzatore, non la tranquillizzarono quanto il pensiero che qualcuno sarebbe arrivato a riprendere i panni. Tra il rumore dell'acqua ionica e la soda passò così la tarda mattinata e quando l'ora del pranzo fu per lei l'inizio di un pesante silenzio già le forze dell'ordine erano all'erta per cercarla.

 

 

Sussulti e strilli
di Francesco Massinelli
in una epistola avente per tema ciò che vale più del ricordo


Cara poetessa,
vi chiedo di scusarmi se troverete insolenza nel mio rivolgermi a voi. Se vi sarò da palla al piede che io sia ignorato! So che nel volger dei retti rapporti sono spesso sulle mie, con le contraddizioni radicali addietro, a cercare il momento buono per tener da conto, ma non capita mai che mi lagno per l'assenza di note di plauso. L'antefatto, il prologo, del mio raccontarvi parte da tante notazioni frammentarie che avranno epilogo in una cosa dettami da una nonnina, anche se so di non essere in grado di riraccontarla con l'enfasi adatta a quella sua. Voi che v'intendete di lemme e dizionari mi capirete. Non spero di veder me stesso nella mente vostra. Non userò frasi con carattere maiuscolo. Non vi scriverò cercando l'attivazione emotiva forte. Da quando ho assunto a dato fondativo la divisione che c'è tra come scrivo e come lo interpreta chi lo riceve sono diventato sempre più bravo a trovare svariati ricordi a sostenere le idealizzazioni che sostengo. Il tempo passato non mi è mai sembrato più bello di quello di adesso.
Già da anni, nel consegnar elenchi telefonici in zone a bassa densità abitativa, al guadagno nella velocità di consegna, non so se ho preferito la perdita. Ho via via preso l'abitudine ferrea di alzarmi presto, di andare dove da piccolo facevo footing o andavo a pescare, nei pressi di lidi abbandonati a darmi un senso di luogo turistico decaduto. E da li guardare a quei processi di costruzione dell'identità riflessiva basati sul riconoscersi nelle figure di attaccamento. Sono riuscito, senza bisogno di mettermi in competizione per essere il preferito, a raccogliere tante interviste su nastro magnetico. Per me prima che per voi, comunque. Stando a lungo in giro. Instaurando tante relazioni duali in uno stile unitario con molti: parlando di queste zone che le sono state care, prendendo le memorie che sommariamente vi riporto. Sono stato perfino più volte insignito del titolo di filantropico cittadino fino a sentirmi meno tonto nel senso plenario del termine. Da uomo qual sono, che non si sa disimpegnare, che ha paura del temporale, che sente dei moschi qua, la, nelle carni; lasciandomi andare, senza tenere a bada l'espressione emotiva inibita; slittando piacevolmente nel contatto fisico con chi non mi si mostra rifiutante. Senza più singhiozzi. Rimpiangere il tempo che fu guardando dei filmini è una cosa che talvolta anch'io provo, ma ne vedo i limiti. Per questo una volta usati li butto. Senza farci archivi.
Cara poetessa, quando stamani di soprassalto mi sono svegliato, autopropulso da me via dal letto trovato, ho subito subìto la sincope, l'apocope, l'aferesi di chi ha fame d'aria, di chi teme di ritrovarsi di li a poco nella costrizione abituale del ricovero ospedaliero. Stavo lì come un supplì, con l'impeto visionario di una talpa, talora drammaticamente allucinato nella scena del mondo che passa, a svuotare il termos da una camomilla calda, a guardarmi un proiettore rotto con i filmini scampati dalla mia censura: quelle con le scene familiari e i paesaggi senza voci. Se fossero entrati dei ladri sono convinto che mi avrebbero dato del loro piuttosto che prendere del mio. Persino un signore della zona di Agello, che in gioventù era costretto ad andare a piedi alla stazione di Panicale per prendere le stoffe da vendere, perché la linea ferroviaria Magione-Ellera era stata bombardata, notava in me una sudditanza alle necessità farmacologiche odierne, un loro indurmi al consumo di liquirizia come di nequizia, preoccupante. Viene tutte le mattine da me perché ho bisogno di un ortolano ma si porta dietro un tremendo nipotino che gioca con minuti petardi, lasciandomi un odor di mortaretti che non sento, che rimanda al ricordo di quando i miei avi correvano lungo i fossi, verso Montemelino, coi bengala che illuminavano a giorno il tratto da Magione a Corciano. È stato il nipotino a dirmi di voi, del vostro interesse ad avere un componimento mio, senza quinari instabili od ottonari indimenticabili.
Ma che volete che dica? Della finaccia fatta fare ai nastri? Mentre vi sto scrivendo a calligrammi quello che vi arriverà stampato modernamente sono sotto una colonna di sole in mezzo ad un cielo blu, grigio e nero, al riparo da goccioloni di pioggia grandi, bianchi, che cadono radi e pesanti. Con tutte le mie allitterazioni e le mie allergie. Sono riparato da una tettoia ondulata e un bandone rugginoso, mezzo bucherellato. Quando voi vi siete addormentata, di rimpetto a dove sono adesso io, costa ovest del lago Trasimeno, ancora io non c'ero. Il fisico, botanico, paleontologo, che da li ad alcuni anni in avanti avrebbe avuto per pensatoio il tragitto da Pozzuolo Umbro, suo paesino natale, alla stazione ferroviaria di Castiglion del Lago, non era ancora arrivato al momento in cui partiva incappottato e si fermava davanti alla stufa a legna della sala d'aspetto della stazione. Per scaldarsi e poi ripartire. Ancora non fissava il vuoto nell'attesa. Non era ancora solito trastullarsi con un filo d'erba tra le dita, fino a consumarlo per poi prenderne un altro. La modernità della vostra arte e della sua scienza non si era ancora incontrata coi miei problemi d'allergia in usuale giustapposizione con la primavera che arriva. Cara poetessa mia. Se come me siete stata davanti un istmo d'acque stagnanti, se come me avete teso a rendere il cuore monaco, capirete bene com'è viver tanto senza veder flutti. L'irarsi vano di chi rimane invitto. Tutto il tempo di adesso, con la sua memoria, le sue immagini, i suoi ricordi vale quanto il deliquio di vento che increspa la superficie su cui da una barca ciondola in acqua una mano; giovane, giocosa. I nastri a mollo che vi ricordano? Nell'apologetica l'asserto si sa, ci sta. Ma ad ipotesi d'ipostasi non va, non va. La sola discriminante precisa tra quello che è avvenuto e quello che avverrà non è tanto il ricordo ma quello che si presenta. Di vita a cuore battente, o scattata, o staccata, ce n'è una. Ma quando si passa dal tempo all'eterno viene il bello.
Voi le desiderate le alluvioni che portano a galla tutto? Pensate a quanto v'è di sommerso per ogni ricordo che affiora. Pensate al Po': nel '51, nel '76, nel '94, nel 2000 e nel 2003. Li tanto eccesso d'acque e qui niente. Li tutte le proprietà a galla, qui le melme. Io ci sono stato di recente a vedere se tirano ancora le cascate del Paganico, il mio ruscello preferito, dove mio nonno pescava i lucci una sessantina di anni fa. Tutto asciutto. Finché lui è vissuto ho visto che voleva dire la salagione, l'essiccamento, l'affumicamento, le azioni batteriostatiche all'interno dell'alimento e battericide all'esterno. Poi è mancato, troppo presto per farmi sostenere un periodare argomentato, ricco di constatazioni stringenti, in cui si constata l'importanza di celare o di addolcire la realtà. Ma così è la natura. Netta si beffa delle pregiudiziali spremute di meningi alla nostra portata, non estrinseca l'intrinseca complessità sondabile nel perenne interscambio nostro. Vedete, di lui, del nonno, della sua vita terrestre, la cosa più concreta che mi resta sono io. Io che incivilito da un cinereo vestito e da una bella cravatta glauca sto a braccia conserte parecchio escluso dalla jet-society, da quella gioventù dorata che lascia i baby dool tra le albicocche sciroppate, le marmellate su involtini di calze. Attiva e disattiva per le didascalie di un videogioco pronto a ricevere la dedizione del loro tempo reale innestato nel virtuale. Se espleto ed indico loro, a scanso d'equivoci d'eque voci udibili, l'orizzonte soteriologico che oltrepassa l'intrastruttura cui si reggono, quel loro modo di pensare no frills, senza fronzoli, state pur sicura di vederli aggrappati disperatamente all'ossatura metafisica solida, non ineffabile, della criteriologia che non gli espropria quel che hanno di personale, di escatologico, di inescusabile. Ne sono sicuro perché anche io faccio lo stesso. Cerco rigidi schematismi: i vivi con i vivi, i morti con i morti, liberi di andar a galla i ricordi. I processi di costruzione della mia identità riflessiva stanno bene nel riconoscermi negli occhi delle mie figure di attaccamento vive o con cui ho vissuto, non con altre. Se ci sono porte intime da non aprire, in cui sta scritto splendido, che celano un mostro tremendo: calma. Tutto a suo tempo.
Io ho ancora per capitale i denti sani ma le terre siccitose che adesso s'imbevono mi vedono sostare fiaccato, acciuffato, con una triade sintomatologica che non perdona quanti si perdono a ricercar la medicina giusta. Una volta c'era la ricetta, l'impegnativa, negli estesi lembi della sanità. Ma adesso sono in troppi a guardarmi con benevola condiscendenza senza saper più quale farmaco consigliarmi per l'allergia. La nonnina che ho prima citato, lei si che mi ha aiutato, lei nelle perduranti ritrosie mie. La sua medicina a tutto era la vitalità. Un fulmine cadde vicino alla sua abitazione, scaricandosi su di una imprecisata casa. Me lo ha rievocato facendo le voci dei suoi bambini "mammina, mammina, non sento le gambe", sventolando la vestaglia abbottonata per simular le gonne che sventolarono a quel tempo in mezzo alle sue gambe. All'iniziar della tempesta lei sentì un mugghiare al bosco li vicino, il veloce porsi di tutti sotto l'architrave principale. I pini grossi sradicati, quelli piccoli strappati e portati via. Tutto che era un vulcano. Da allora lei sa spiegarsi la sua paura, ha dei motivi più che precisi. Io invece no. Ma sono curato dalla vitalità sua. Io che salterò dal tempo all'eterno come tutti, che ho paura del temporale e non so nemmeno il perché, io che ho paura di un evento meteorologico che mi fa persino bene, che riesce ad atterrare quei pollini che mi asservono, che con la naturalezza sopperisce ai limiti della scienza, io più che dalle memorie, dai ricordi, dalla celebrazione del bel tempo che fu, sono per la vitalità. È lei, nella difficoltà del tempo che sto vivendo, segnato a complessità crescente e conflittualità diffusa, ad aprirmi ad orizzonti nuovi e più dilatati, pur nelle crisi agoniche ed irreversibili. È lei l'arte e la scienza di cui ho veramente bisogno. So che sono e resto un semplice, uno che sa da dove viene e dove va. Quando pieno respiro, a due polmoni, latino e bizantino, l'ambivalenza nel rapporto con l'intemperie che mi salvano un po' non mi distrugge.
Forse in futuro smetterò di andare in giro a consegnare elenchi e fare interviste. Forse in futuro mi vedrete girare con la scopa imbevuta di colla a glanulometria calibrata in soluzione acquosa, a strofinare facce gigantesche su cartelloni pubblicitari per tre ore al giorno ed una cifra irrisoria. Forse invece di memorie storiche noterò prefigurazioni architettoniche, processi di stampa, il colore nella carta. Con occhiali da sole, pere da montagna, susine da campeggio, mi regalerò dodici miniventose e sarò contento. Chissà! Cara poetessa mia, del vostro rimanermi impressa avrei voluto fare un bel disegno. Ma sul più bello mi è finito il pennarello. Scusatemi ancora. Armato d'ironia contro il triteismo non ritratterò più l'apofantico poliptoto, la moderata ripetizione della stessa parola in una prospettiva sintattica religiosa. Ma sss. Fatemi far silenzio, ascoltatrice di questi miei strilli teoreticamente scusabili. San Spiridione, vescovo di Trimithonte di Cipro al tempo del Consiglio di Nicea, patrono dei pescatori del Trasimeno vi protegga. Io mi approprio della forma di saluto vostra: "mia cara amica… vi porgo le mani". Una panca disoccupata mi aspetta in chiesa, li mi tapperò la bocca. Mia cara vi porgo le mani.
Vostro Gaspare



Vivacchia nella
socialdemocrazia

di Francesco Massinelli

Andando da Laviano a Cortona, una notte all'anno, io ricevo una pace interiore che mi permette di anno in anno il rimandare un problema spinoso: quello di non saper trattare con lo sfruttatore che mi alliscia, che struttura con me un rapporto societario di lavoro, che mi coinvolge a tempo parziale e pretende una disponibilità esclusiva, che punta sull'innestarmi nel suo ideale buonista per non entrare mai in conflitto con nessuno. Visto che è risaputo che l'esposizione della dottrina mia in merito a come mi racconto più che un inizio è una fine ha un andamento alogico mi avvalgo di un esempio stantio che risale a dopo la bolla d'indizione del primo giubileo. Io infatti ho sempre un vivo affetto al peccato, anche veniale; se mi capita di adempiere alle tre condizioni per eseguir l'opera indulgenziata è pur certa una mia sciatteria, una trasandatezza.
Lo sfruttatore, dicevo. La middle-class è la sua. Le ghette dona per le feste. Ha i simboli del più etico codice estetico mischiati alle manovre tipiche degli arrampicatori sociali, dei cacciatori di dote, di chi ruba cementi e calci idrauliche. "Oui, chéri" si dice. Spacca i pacchetti che riceve, schiaccia la notte le falene, pienerebbe di schiuma da bagno la cassa da morto per non spendere sulle sete sintetiche che attorniano il morto. Mentre io giro per rispondere prontamente a quello che al telefono con il cliente decide, lui, sul terrazzo intrallazza, attende il vento. Come un volantino da far leggere a tutti posto nel bidone della spazzatura poggia le strategie di dizione in consonanza con l'obbligo di richiederti il massimo impegno visto che attraversi le spoglie mortali ricevendo tanto. Un po' forse gli scoccia che la mortalità sua potrebbe finire nella reincarnazione e non in un netto distacco dell'anima del corpo, ma la sua buona disposizione d'animo non pretende troppo. Se il suo superiore lo guarda male il volto che gli si cristallizza dentro è quello del padre sovrapposto alla madre. Lui è un tipo che pur conoscendo ogni mia inabilità omette particolari rilevanti pur di farmi fare la commissione che si propone. Mi chiede di sostituire un assente e mi fa sostituire in due posti diversi. Io accetto di perdere 12,5 ore retribuite a livello medio e 9 a livello alto per farne 15 di livello medio e poi lui ricambia idea, mi rilascia con l'orario settimanale di prima, mi richiama e mi dice del parere cambiato. Per pagare la pronta disponibilità si avvale di un criterio tutto suo, particolare, basato sul bisogno: mi chiede di andare ed io dico si, poi ci ripensa ed io dico si; in questo modo non eroga la doppia indennità che mi deve, l'esser stato pronto ad andare e pronto a non andare.
Proprio per capire i passaggi per cui individua me come persona migliore a svolgere la mansione mi studio le formule preposizionali, le funzioni di verità, le regole di deduzione, le tautologie, i quantificatori: tutti elementi di logica. Deliziato dal suo primo piano di signore, nel tratto, poverino, schiacciato da quanto anche lui è stato sfruttato, io mi sono isolato nel malessere, puntuale nelle scelte serie, con il cuore all'orazione. Sotto una serie di 5 lampioncini collegati a ghirlanda da un cavo spiralato con estensione massima di 8 metri, ogni sabato sera, ho tre testimoni pronti a giurare d'avermi sentito affermare che una disponibilità tendenzialmente incondizionata verso il paese, per far cose utili tipo raccolte di fondi per gli alluvionati, io non darò che col raggiungimento della mia condizione di autosufficienza finanziaria. I successi per il mantenimento di carriera (ottenuti al corso di riqualificazione, durante il mio lavoro di tutore, di docenza), ho obliato; anche se da lui e dai suoi superiori erano stati riconosciuti. L'aver lasciato a numero 6 le riunioni di organizzazioni politiche ed a numero 36 le riunioni di organizzazioni partitiche (per non dargli un mio intervento dispersivo e routinizzato) è stata la dimostrazione più completa della mia disponibilità a far crescere la professionalità altrui con ore di lavoro non retribuito a me.
Quando potrei incontrarlo è così che sparisco. Preferisco minimizzare i tempi di relazione con lui piuttosto che mettermi a ragionare sulla situazione che lui vuol vedere. L'ultima volta che ho provato a discutere con lui era per portare un cliente a casa mia per fare un lavoro al computer. Lui però non voleva perché l'abitazione è mia e l'utente ne deve star fuori. Non lo voleva neanche in sede perché questa non è un laboratorio. Dovevo portarlo a spese mie in un altro luogo. Dovevo essere disponibile come quando per raggiungere un luogo di lavoro lontano dovevo anche andare a prendere un collega che non mi rimborsava e che pretendeva. Se penso a quanto mi sento manipolato da lui, dal suo modo di semplificare per gestire la complessità del suo lavoro, pieno di osservazioni la plaga di mare per la barca su cui mi ha portato per persuadermi a sbrigarmi di finire gli studi ed associarmi a lui. Avreste dovuto vederlo com'era vestito da yachtman. Io spero di crescere personalmente e di riuscire a cambiare lavoro. Mi dedicherei alla pasta fresca se solo riuscissi a tagliare la sfoglia dritta. Sono bravo solo a detorsolare le mele.


 

Etrusco Kiss
di Francesco Massinelli

Potenza ed esponenza dell'amore che sfugge!
In quel periodo ero un po' disoccupata e mi piaceva visitare quei luoghi che forse, chiusa nei turni di un magazzino, non sarei tornata a godere per un bel pezzo.
Con un amico di Venezia parlavamo dei nostri luoghi natali, ma in modo aperto ai problemi sociali, economici e culturali. Un passo in dentro.
Mentre in Europa c'era l'Euro e a Perugia anche il chocolate, io abitavo a Castiglione del Lago, poi mi decisi a vivere da missionaria sfruttando le ricchezze delle mie conoscenze.
Mi sentivo estremamente ricca, data la mia salute e le mie modeste pretese. Pensavo ai miei amori malnati, incartati, etichettati; ma anche all'amicizia, come un qualcosa di gustoso che non si riesce ad assaporare bene ma di cui ti nutri come puoi. Collegavo la mia esistenza a quella altrui grazie ai paragoni, alle descrizioni, ai sogni.
Come Venezia aveva le isole, il Trasimeno aveva l'arcipelago, come a Venezia predominava l'arte, nel Trasimeno predominava la campagna. Così come c'era differenza tra mare e mare, c'era differenza tra lago e lago: per posizione, per momento, per volere di zia natura.
Ora, io non so ben dire se Venezia va verso l'oceano e il Trasimeno verso uno stagno, ma di un amore voglio parlare, un amore umbro nella terra dei santi.
Mi divertivo dal presente con la smania di riabbracciare un amore, ripetergli un pensiero e celebrarci vincenti con gli acciacchi sorprendenti.
Era il 25 ottobre 1999 e mi ero presa un caffè corto nel ristorante bar vicino al pontile di Torricella, quasi sotto la virata di un aereo da guerra passato li poco dopo le 13:34. Ero di ritorno da un giro sulle strade panoramiche che collegano gli agriturismi della zona. Stavo passeggiando quando all'improvviso con uno starnuto ho ghiacciato, potenza del raffreddore, una macchia di alghe di lago.
Sentendo dei battiti insoliti, avvicinandomi alle onde, vidi un sotto le alghe, con una sorta di doppio canotto a forma di cozza disposto come un panino americano. L'imbottitura era una perla o un pirla, una sorta di mostro, comunque, che si esponeva. Mi indicò l'ombelico con il vento a favore, sottintendendo forse il mio guardarmi troppo. Mi indicò l'ombelico come una pin-up avvenente in costume color lucertola, che seduce con le lagnanze.
Non l'ho percepito amico perché avevo un amico vero. Non l'ho percepito strano perché non so contare fino al 1492 con il sistema binario. Mi stava per dire qualcosa ma accadde un fatto. Quando le mie capacità d'ascolto, impudichite dalla passione, divennero putride come l'odore della perla pirla, mi squillò il cellulare, tono bravo.
Era un matematico sperduto, che mi pose una domanda:
"Sai che la potenza di una potenza ha per base la stessa base e per esponente il prodotto degli esponenti? Orbene, se tu per gli altri non hai amore e lo concentri tutto in un pensierino avrai per base un foruncolo d'egoismo e per esponente un genetico casino?".
Non gli risposi.
Il mio amore umbro nella terra dei santi, con tutto il mal di corpo e il mal di materia, non ero io, non ero il mio. Era un cioccolatino confezionato dagli etruschi e sepolto nell'inglese, intatto nella tua fantasia, da non dribblare.
Ero stata fin troppo attenta a non confondere affari e sentimento, a sussurrare quella storia d'amore che si sintetizza bene in tutte le carte, anche in quelle dei cioccolatini: "Etruscokit, l'amore è quit, Etrusco Kiss facciamo il bis".
Potenza ed esponenza dell'amore che sfugge!

 

Libridi
di Francesco Massinelli
(racconto inedito di un incontro)

Dal mare della mia fantasia riemerge un sommergibile con poca voglia di andare avanti ed un oblò aperto verso il cielo. Un giovane gabbiano stanco di volare, da lontano, si avvicina. Sopra il sommergibile, sul verde di alghe e conchiglie del ponte, un vecchio selvaggio affonda una decina di passi.
E' riuscito ad aprire il portello a furia di martellate. E' magro e tremolante. Avanza lentamente per non scivolare e indossa un'uniforme vecchia di mille bucati. E' la sua alta uniforme, quella con i bottoni che devono essere lucidati sempre, due volte al giorno. Portandosi il berretto al petto sorride timidamente per il salvataggio in corso. Dalla sua prima donna ha imparato a fissare l'attenzione su una realtà avanti nel futuro di tre ore e mezza. Ancora non vede il gabbiano. Stringe in mano un foglio di congedo appesantito da una grande muffa. E' una vecchia lettera d'amore, scritta da lui tanto tempo fa per dire al suo piccolo dolce fiore che non cercava carezze di donna ma una medaglia al valore. Si era spiegato male, voleva dire il contrario. Schivato lo schiaffo, oltre all'amore, negli anni che seguirono perse la medaglia e la guerra. Tutto ciò che dava senso a quella vita da capitano. Si era allontanato dai civili sparendo con un sommergibile del suo paese, lontano da tutti, per studiare e imparare a spiegarsi. Il suo pensiero era semplice e non sapeva esprimerlo. Era sceso negli abissi del mare per arrivare in fondo. Voleva un indirizzo utile.
Nella sua discesa aveva visto l'abisso particolare dello sconforto. Una profondità oltre i limiti di sicurezza dove inizia la sua pazzia selvaggia. Per conservare un pò di salute fissava l'attenzione in realtà tre ore e mezza nel futuro. Un indirizzo dopo l'altro, in cerca di quello utile.
Il gabbiano giovane è l'indirizzo giusto. Ha un cuore innocente ed è ferito. Viene da lontano ed i suoi occhi hanno visto la guerra degli uomini in esercitazione. Era nato accanto ai militari, era cresciuto a distanza di sicurezza e tutti si erano affezionati a lui. Prendeva il cibo dalle mani dei più pazienti, volava e tornava all'ora di pranzo e di cena. Si fermava spesso ai distributori automatici di bevande e merendine. I bambini del porto lo avevano stressato trattandolo da cane. Ogni giorno lo cercavano, lo spiavano e lo rincorrevano. Gli tiravano sempre dei bastoni ma lui non li riportava mai. Viveva in un cielo di grazia e volava libero. I militari di uno scaglione l'adoravano, quelli di quello dopo no e lo salutarono la sera del congedo con una sassaiola.
Nel mare della mia fantasia il selvaggio aspetta il gabbiano maltrattato dalla leggerezza dei civili con un pò d'anticipo. Un gabbiano che vola a fatica, trasportato dal vento. Vede nell'azzurro del cielo e del mare un'isola verde dai bottoni lucenti. Si sbatte sul molle sommergibile di alghe e conchiglie ma non sfugge alla presa del vecchio.
Nelle capitanerie di porto è già stato dato l'allarme. Ci sarà una lotta strana, con i libri al posto dei siluri diretti verso la costa, con un gabbiano agitato in un mare d'ovatta, con una barchetta di civili piena di manette. Il non più capitano è sicuro di ciò che sarà perché vede tre ore e mezza nel futuro ed è contento di aver salvato una vita da morte certa.
Un oblò aperto verso il cielo non saluta il gabbiano guarito ne il selvaggio insoddisfatto. Saluta un vecchio dal bottone opaco, un gabbiano handicappato ed una casa di riposo in riva al mare che li fa incontrare.


 

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