Il delitto Matteotti

appunti di Enzo Cicchino




IL FATTO

  10 giugno 1924 il segretario del Partito Socialista Unitario Giacomo Matteotti esce di casa da Via Pisanelli n. 40 per recarsi alla Biblioteca della Camera per ultimare il testo del discorso che vi terrà il giorno dopo. Quando, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, è raggiunto da un gruppo di uomini della CEKA fascista al comando di Amerigo Dumini che lo sequestrano, lo caricano con violenza su una Lancia Kappa noleggiata presso il Garage Trevi dal direttore del Corriere Italiano Filippo Filippelli, e partono a gran velocità, verso Ponte Milvio, e la periferia di Roma.
Mussolini saprà del sequestro e dell'uccisione di Matteotti la mattina successiva, ma l'opinione pubblica solo due giorni dopo. La denuncia della scomparsa e' effettuata da Giuseppe Modigliani la sera dell'11 giugno verso le ore 20, dopo che già da molto è cominciato il dibattito alla Camera, dove lo stesso segretario socialista era iscritto a parlare.
L'identificazione del numero di targa dell'auto - avvenuto giorni prima - da parte di alcuni portieri di uno stabile vicino che ritenevano i suoi occupanti dei ladri, permette agli inquirenti di risalire agli aggressori, tutti uomini vicini all'ambiente del Capo del Governo.
Per Mussolini ed il fascismo ha inizio la crisi più difficile… ma che aprirà le porte ad un regime totalitario abbattuto solo vent'anni dopo nel luglio 1943.

UN EVENTO DEL 1978
Se ad una prima interpretazione - il delitto Matteotti - sembrava essere motivato soprattutto da una ragione politica, col trascorrere degli anni sara' invece la pista affaristica ad assumere sempre più rilievo, con la scoperta di documenti nuovi raggiunti spesso in modo avventuroso.
Nel 1978 Matteo Matteotti, uno dei figli di Giacomo, riceve da un anziano mutilato di guerra, Antonio Piron, l'informazione che nel tubo della stufa di una casa in campagna nei pressi di Regello, vicino Firenze, è nascosto un documento che lo riguarda molto importante.
Effettuatone il misterioso recupero Matteo con grande meraviglia si rende conto che non solo il documento è scritto su carta intestata "Camera dei Deputati" ma che è l'autografo originale dell'ultimo articolo del padre pubblicato in Italia, comparso su la rivista "Echi e Commenti" il 5 giugno del 1924, appena cinque giorni prima di essere ucciso. Giacomo Matteotti parla chiaramente di affari e tangenti nei quali sono immischiati uomini del Governo fascista e riferiti non solo a sedicenti aperture di nuove case da gioco ma soprattutto all'importazione del petrolio ed alle sue ricerche nel sottosuolo italiano!
Il testo autografo corrisponde esattamente a quello pubblicato su "Echi e Commenti", come mai però - l'originale autografo - era finito in altre mani? Non era possibile che quel documento possedesse informazioni più importanti di quanto potesse sembrare in apparenza? quali? Soprattutto, con quei riferimenti al petrolio, il 5 giugno 1924 Giacomo Matteotti cosa voleva dire? Cosa avrebbe spinto Antonio Piron a comunicare a Matteo Matteotti la presenza di quel documento solo tanti anni dopo?
E infine: cosa avrebbe spinto Antonio Piron a comunicare a Matteo Matteotti la presenza di quel documento solo tanti anni dopo?

IL FASCISMO CONQUISTA IL POTERE
Dopo la costituzione dei Fasci di Combattimento il 23 marzo 1919 Mussolini impiega esattamente tre anni e mezzo per prendere il potere. La Marcia su Roma, che per tutto il ventennio è millantata come atto rivoluzionario, in realtà è un abile manovra gestita oltre che dal futuro Duce, da De Vecchi (in misura minore da Grandi) i quali fanno sì che essa avvenga liberamente senza conflitti con le istituzioni e con l'Esercito. Si e' venuta infatti a creare una sottile alchimia - da un lato - tra massoneria, interessi antisocialisti della borghesia, i timori del Re per una possibile svolta repubblicana. Dall'altro un consenso incondizionato dei reduci, i quali, animati dal desiderio profondo di recuperare dignita' e identita', hanno alimentato sino ad allora lo squadrismo.
Il governo di coalizione varato da Mussolini nel novembre del 1924, oltre che dai fascisti e' composto da nazionalisti, demo-sociali, liberali, popolari, giolittiani; se da un lato sembra che operi per la normalizzazione, imbrigliando lo squadrismo nella Milizia, dall'altro non riesce comunque a rasserenare le opposizioni; episodi gravi permangono.
Pur irregimentati nella Milizia, i più violenti non hanno perso ancora il vizio di assalire Camere del Lavoro, sedi di giornali, onorevoli e capi di partito che vengono messi al bando dalla propria città correndo solenni purghe e micidiali bastonature.
Paradosso della politica neppure mancano linciaggi a danno di deputati fascisti che non si vogliono adattare alla nuova disciplina moderata del PNF, umiliati e pestati sono gli onorevoli Cesare Forni e Alfredo Misuri. A queste aggressioni su territorio italiano si devono aggiungere quelle commesse all'estero, in particolare in Francia a danno dei fuoriusciti, alcuni dei quali sono soggetti a vere e proprie esecuzioni.
Nonostante i propositi ufficiali del Governo la regia delle aggressioni e' tenuta dai cosiddetti 'moderati' di cui si è circondato Mussolini, vale a dire il capo ufficio stampa e propaganda Cesare Rossi, il cassiere del PNF Giovanni Marinelli, il Sottosegretario agli Interni Aldo Finzi, il Capo della Polizia e della Milizia Emilio De Bono, cui si aggiungono direttori di giornali ed anche uomini di cultura tra cui il notissimo scrittore Curzio Suckert Malaparte.
Gli equilibri politici all'interno del Governo sono subito bellicosi; i popolari, avendo accettato la linea antifascista voluta da Sturzo al congresso di Torino sono immediatamente esautorati, stessa sorte tocca più tardi al ministro demosociale Carnazza.
Il clima politico all'interno del Consiglio dei Ministri risente tragicamente del pugno forte e soprattutto nevrotico di Mussolini che, in pratica, da subito comincia a manifestare il suo carattere accentratore, insofferente, agitato. E' consapevole della reale inferiorità politica dei fascisti all'interno del suo stesso Governo; qui il potere che esercita non verte tanto su una concreta forza elettorale ma sulla confusione che regna di coalizione, che pur estromessi, continuano a garantirgli il voto di maggioranza. L'altro asso nella manica di Benito e' la scarsa coesione degli avversari che continuano a dividersi senza porre indebolendosi sempre più, stagnando, o in liberalismi antistorici, o in oscuri intenti rivoluzionari.
Se i deputati fascisti sono troppo pochi rispetto alla sicurezza politica che Mussolini vorrebbe è necessario un rimedio istituzionale. E questo si risolve nella primavera del 1924, quando il Parlamento, dopo un lungo dibattito, e con una risicata maggioranza ottenuta a colpi di "voto di fiducia", approva la cosiddetta "legge Acerbo" la quale garantisce - alla lista che alle elezioni avrebbe ottenuto almeno il 25% dei voti - il due terzi dei seggi.
Mussolini corre immediatamente alla verifica elettorale la cui data si fissa per il 6 aprile 1924. Sembrerebbe una occasione facile invece è particolarissima, questa volta il fascismo non può mancare il suo obiettivo altrimenti e' la fine. E garanzia puo' ottenerne solo ridando spazio a quello squadrismo violento cui avrebbe voluto porre freno.
Difficile dire fino a che punto e' la violenza a determinare la vittoria del 'listone' con il quale si sono presentati fascisti e partiti alleati, fatto sta pero' che la loro vittoria è davvero ampia.
Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti, tiene alla Camera appunto l'energico discorso con il quale denuncia il clima intimidatorio che avrebbe forzato il risultato elettorale. Dieci giorni dopo viene ucciso.

I RAS
Se la conquista del potere ha ammorbidito il massimalismo politico di squadristi come Dino Grandi a Bologna, Italo Balbo a Ferrara, Aldo Finzi a Rovigo, o Francesco Giunta a Trieste, alcuni dei quali sono coinvolti nel governo, tantissimi altri invece, non riuscendo a controllare dalla periferia la politica del paese, temono fortemente di perdere la loro autonomia. Reagiscono con forti resistenze fatte non solo di mugugni ma anche di iniziative fanatiche come quelle del ras di Cremona Roberto Farinacci, un uomo che sa far pesare il proprio carisma squadristico su decine di migliaia di cittadini che può muovere a suo piacimento.
E' un potere, questo dei ras, concreto, consolidato dalla abitudine e da interessi non solo economici ma anche di prestigio, di rappresentatività, che li fa essere tutt'uno con gli stati d'animo e le passioni degli abitanti delle loro province.
Non di rado l'ala dura del partito reagisce con provocazioni insidiose cui Mussolini deve far fronte con il pugno di ferro dei prefetti e dei questori. In non poche occasioni deve intervenire lui stesso. Cosi' acceso e' il conflitto in molte province che nel corso del 1923 sono in molti a riflettere sulla possibilità di sciogliere addirittura lo stesso Partito Fascista. L'attrito fra PNF e Governo si riduce con la segreteria di Francesco Giunta, ma è solo momentaneo.
Si vorrebbe che fosse la Presidenza del Consiglio a dipendere dalla volontà del partito, non viceversa; per i fascisti anche il comportamento dello stesso Mussolini, troppo disinvolto, andrebbe circostanziato. Lo scontento dei ras e della base pero' si arena di fronte alla mancanza di un proprio leader, Roberto Farinacci è spirito troppo grezzo per rappresentarli ed affrontare Mussolini a colpi di fioretto! Manca di sottigliezze, la sua azione sara' un fermento rumoroso che approdera' talvolta solo a qualche gesto dissennato ma non tale da creare un cambiamento delle alleanze di Governo.
Nel 1924 il rassismo peraltro e' al suo punto critico, la sua capacità di intervento sul centro è quasi nulla, Mussolini è completamente circondato di uomini di sua fiducia, e - fatto importante - anche quelli che fanno parte di quella pseudo polizia politica che è la CEKA, tipo Dumini, Volpi, sono suoi amici provenendo da una ristretta cerchia di mussoliniani di ferro.

NASCITA DELLA CEKA
Una volta andato al potere Mussolini si rende conto che se da un lato deve assolutamente fare a meno dello squadrismo dall'altro, continuando la lotta politica a tenersi ancora su due livelli, quello ufficiale in Parlamento e quello clandestino, soprattutto all'estero, ritiene che gli sarebbe quanto mai utile una struttura coercitiva che non operi sul fronte della legge ma su quello degli interessi specifici ed immediati del potere. Solo dopo più di un anno dalla Marcia su Roma, a metà gennaio del 1924, in un incontro con Ceare Rossi, Giovanni Marinelli, Emilio De Bono, Mussolini decide l'atto di nascita di questa sedicente organizzazione di cui non è stato ancora deciso il nome.
"Chiamiamola CEKA" propone il Duce "Come la Ceka sovietica, suona bene!" E quel tristo nomignolo resta.
Ufficiosamente la direzione responsabile e' di Cesare Rossi, che per realizzarne la struttura operativa coinvolge Amerigo Dumini, il quale coopta un gruppo di uomini fidati, tutti mussoliniani, del fascio milanese, che hanno già compiuto violenze per conto del Ministero degli Interni sin dal 1923, non solo in Italia ma anche in Francia, dove mesi prima hanno fatto scorribande per vendicare un informatore fascista ucciso dai fuoriusciti.
Amerigo Dumini, è nato negli Stati Uniti, da madre americana e padre fiorentino, si è distinto per il suo coraggio negli Arditi del Piave durante la Grande Guerra, guadagnandosi una medaglia d'argento. Attorno a lui Albino Volpi, Giuseppe Viola, Aldo Putato, Filippo Panzeri, Augusto Malacria, Amleto Poveromo ed altri che diverranno tristemente famosi per la loro partecipazione al sequestro e l'uccisione di Giacomo Matteotti.
Il delitto del segretario socialista unitario segna l'episodio che la rendera' terribilmente famosa, ma anche quello che vedra' la sua estinzione.

BIOGRAFIA MATTEOTTI prima versione
Giacomo Matteotti nasce a Fratta Polesine provincia di Rovigo nel 1885 da Girolamo ed Elisabetta Garzarolo, una ricca famiglia di proprietari terrieri proveniente dal Trentino. Forte su di lui è l'influenza della madre, il padre muore quando è ancora 17enne. Tra il 1919 ed il 1910 perde anche i due fratelli Matteo e Silvio, di tisi, rimanendo così figlio unico.
Sensibile al socialismo durante gli anni del liceo entra nella redazione del giornale "La Lotta" e comincia la sua attività politica iscrivendosi al PSI. Si laurea a Bologna in legge con una tesi su "La recidiva".
Nel 1911 si schiera contro la guerra di Libia e l'anno successivo si adopra nelle varie assemblee perché vengano allontanati dal partito Bissolati e Bonomi, gli uomini dell'ala moderata e compromissoria con il governo liberale che controlla il paese. Ma questo suo essere intransigente è a doppia faccia, in ambito provinciale non esita a creare, quando necessario, anche alleanze elettorali con uomini di talento della ricca borghesia rodigina per rendere più efficace l'amministrazione del territorio. Parecchie volte per questa sua doppiezza è contestato anche dalla direzione del partito, - ma è suo - il merito se per diverse elezioni il partito socialista riesce nella sua provincia ad ottenere il massimo degli eletti. All'occhio dei suoi oppositori non sfugge comunque neppure la evidente contraddittorietà tra il suo consistente patrimonio terriero e la sua scelta socialista per cui viene ironicamente chiamato "il social-milionario".
Primavera 1914, il congresso socialista di Ancona, lo pone per la prima volta a confronto con Benito Mussolini, sono subito in disaccordo. Li divide l'atteggiamento riguardo alla incompatibilità dell'iscrizione dei socialisti alla Massoneria. La mozione di Mussolini - che viene peraltro approvata - esige che gli iscritti si dimettano immediatamente dalle logge. Matteotti invece non è così categorico.
Allo scoppio della Grande Guerra è fra i più accesi non interventisti, tanto che nel 1916 quando l'attacco austriaco di Conrad costringe i profughi del Veneto a riversarsi sulla provincia di Rovigo, lui si oppone fermamente a che gli si dia aiuto; il fatto desta molta impressione per cui viene processato e condannato.
Nel 1916 è richiamato anche alle armi, ma non come combattente al fronte, da semplice militare, inviato in Sicilia in una oscura caserma semiabbandonata; lì resta fino agli inizi del 1919, quando torna nel Polesine.
All'interno del PSI insistono i dissidi, convinto peraltro che la lotta al sistema economico borghese sia per ora la linea più importante dell'azione politica, lui si schiera nella fazione degli Unitari. E forse è proprio la sua attenzione per l'economia a farlo essere anche un ottimo amministratore sia del partito che della cosa pubblica. Nel 1919 viene eletto deputato per il collegio di Rovigo e Ferrara. Tra i socialisti è l'uomo con maggior numero di preferenze.
Intanto, nel 1919, si e' costituito anche lo squadrismo fascista, che comincia ad attaccare i comuni rossi, le cooperative e le case del popolo. Purtroppo l'interpretazione che il leadere socialista unitario però dà del fascismo è schematica, riduttiva, non lo vede come sintomo di un forte disagio che anima il paese ma solo uno strumento reazionario in mano agli agrari ed alla grande industria. E appunto questa visione miope a non fargli intuire strategie adeguate da contrapporre.
Nel 1921, al Congresso di Livorno, Matteotti assiste con amarezza alla scissione della frazione comunista bolscevica dal grande e agitato alveo socialista. Dei comunisti particolarmente non condivide l'aspetto rivoluzionario dittatoriale, anche se nei confronti del fascismo e' l'unico partito a possederne la stessa intransigenza.
Anche per il Partito Comunista d'Italia, pericolosamente filosovietico, Matteotti, è uno degli avversari piu' efficaci e meno battibili proprio perchè ricalca idee simili ma in un partito piu' moderato.
Inattaccabile, assoluto, diamantino, Matteotti diviene l'uomo più detestato dalle forze antisocialiste d'Italia. Nella pratica parlamentare Matteotti è l'unico vero osso duro per i fascisti e tale rimarrà senza cedimenti fino alla morte.
Ripetute sono le violenze fasciste, morali e materiali, che subiscono sia lui che i compagni di partito. E lui puntualmente, con la ferocia di un ragioniere non esita a comunicarle in Parlamento, dettagliando tutte le aggressioni subite ed i crimini commessi.
In agosto del 1922, il fallimento dello sciopero legalitario porta all'immediata nuova crisi socialista: il congresso di Roma vede una nuova scissione. I riformisti abbandonano il Congresso dando vita al Partito Socialista Unitario, alla cui segreteria viene chiamato proprio Giacomo Matteotti. Non è un compito facile.
Il fascismo al potere se all'esterno ha ammorbidito la pressione squadristica, in PARLAMENTO adotta un'altra strategia, piu' sottile ed infida, quella di una sottile seduzione e di cooptazione dei deputati socialisti nello schieramento parlamentare fascista. Matteotti sarà il cane da guardia, il mastino dei suoi onorevoli, che sembra davvero non sappiano resistere alle sirene di Mussolini.
Il segretario rodigino si troverà ad impiegare buona parte delle sue energie per impedire emorragie di deputati della sua area verso le schiere avversarie. Le certezze politiche e di collegio, le prospettive ministeriali e di governo con cui li si adesca creano incertezze continue, troppe, in particolare nell'area del sindacalismo: fra uomini del livello di Baldesi, Buozzi, D'Aragona, peraltro protagonisti, nel 1921 del cosiddetto "patto di pacificazione".
E questa linea dura, tenere per le briglia i suoi deputati, viene mantenuta non solo fino alle elezioni del 6 aprile, ma anche dopo il discorso del 30 maggio, e fino alla morte il 10 giugno del 1924.

BIOGRAFIA MATTEOTTI seconda versione
Secondo di tre figli, Giacomo Matteotti nacque il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, da Girolamo, calderaio e Elisabetta Garzarolo cittadini dell'impero asburgico; si erano trasferiti da Comasine in Val di Pejo, Trentino - ove erano piccoli possidenti terrieri - nella bassa valle del Po, in provincia di Rovigo. A Fratta, Girolamo fece grossi investimenti in terreni agricoli e si inseri' con buone prospettive nella piccola imprenditoria finanziaria locale.
Furono le disgrazie familiari ad amareggiare il cospicuo successo economico della famiglia, nel 1902 a Giacomo mori' il padre, fra il 1909 ed il 1910 gli altri due fratelli Matteo e Silvio, di tisi.
Intanto, il futuro segretario del PSU entro' a far parte del comitato di redazione del giornale socialista "La lotta" e si iscrisse al Partito Socialista, lo stesso partito a cui era ancora iscritto anche Benito Mussolini.
A 26 anni nel 1911 fu tra i piu' vivaci oppositori della Guerra di Libia. E un anno dopo, al Congresso socialista di Reggio Emilia - contro i compromessi delle vecchie volpi della politica - al contrario del titubante Filippo Turati - si schiero' con i massimalisti divenendo il piu' energico sostenitore della espulsione dell'ala moderata di Bonomi e Bissolati.
Da un lato si configuro' subito in Matteotti una personalita' intransigente che detestava gli opportunismi e soprattutto le ambiguita' di chi cercava un incontro furbo con il potere, dall'altro non esito' ad appoggiarsi all'esperienza con la ben strutturata borghesia non socialista di Rovigo per poter guidare in modo abile l'amministrazione dei comuni. La sua era un flessibilita' strumentale, mirata esclusivamente ad un obbiettivo pratico, circoscritto, che non impegnava per nulla per il futuro. Cosi' pure strategica riteneva l'alleanza elettorale con i cosiddetti "partiti affini" e cio' spesso in contrasto con le direttive nazionali del suo.
Tuttavia, non si sa bene in modo quanto inconsapevole, neppure lui era esente da contraddizioni politiche e formali assai gravi. Subito dopo la tornata elettorale del 7 maggio del 1914, nel contestare l'eleggibilita' di alcuni consiglieri avversari per i quali erano ravvisabili chiari conflitti di interesse, incappo' nella incresciosa gaffe di permetter loro di osservare che neppure lui aveva diritto di permanere nel consiglio in quanto insieme alla madre era fidejussore della Banca Provinciale del Polesine, impegnata nella esazione dei tributi in comuni nei quali lui era stato eletto, per cui fu allontanato. Nel frattempo gli era stato affibbiato anche il nomignolo di "socialmilionario".
Al congresso socialista di Ancona avvenne la prima frizione tra Matteotti e Mussolini, a proposito della incompatibilita' tra l'essere iscritti al partito socialista ed alla Massoneria, mentre l'ordine del giorno del futuro Duce, che fu approvato, prevedeva categoricamente l'espulsione dal partito di coloro che non avessero in breve rescisso il loro impegno massonico, Matteotti, piu' magnanimo si limitava ad una esortazione.
Lo scoppio della Grande Guerra con l'assassinio dell'Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, vide Matteotti schierato tra gli oppositori all'entrata dell'Italia nel conflitto, e cio' in contrasto con la scelta di tutti gli altri partiti socialisti europei che sostennero la necessita' di non abbandonare a se stessi le masse proletarie al fronte. Continui e ripetuti furono i suoi interventi sulle piazze per sostenere una scelta di pace e cio' sino a qualche giorno prima della dichiarazione di guerra italiana. Veniva sarcasticamente definito "l'austriacante" per via delle sue origine trentine ed invitato a tornarsene in Austria.
Il suo acceso neutralismo non si spense neppure a piu' di un anno dalla guerra in corso, quando nel giugno del 1916, al contrario di Turati e di altri uomini del socialismo storico, si oppose a che la provincia di Rovigo desse aiuto ai profughi del Veneto invasi dagli austriaci. Si polemizzo' a lungo su quali fossero le ragioni di questa sua istintiva simpatia per gli austriaci, forse le sue origini trentine, ma i piu' maligni aggiungevano che forse dipendeva dalla sua amicizia con i cognati di sua moglie, di cui due erano ufficiali dell'esercito austriaco e combattevano sul fronte italiano. Dopo di che, qualche tempo dopo - sicuro per neutralizzarlo - viene richiamato alle armi, solo che, invece di mandarlo al fronte di guerra, sino alla fine della guerra, gli fanno trascorrere il tempo nella caserma di un piccolo paese della Sicilia.
Gobetti non escludeva che alla base del pensiero matteottiano ci potesse essere qualcosa di Sorel e Bergson. Nel marzo del 1919 venne congedato e tornò alla politica nei ranghi del partito socialista, schierandosi con il gruppo degli unitari.
Non era amato dal gruppo dirigente socialista, molto stimato questo si, se ne apprezzava il suo abile talento di amministratore, tanto che sin dal gennaio del 1916 lo avevano chiamato a far parte della segreteria della Lega dei comuni socialisti.
Alle elezioni politiche del 16 novembre 1919 venne eletto deputato per il collegio di Rovigo e Ferrara con il maggior numero di preferenze. Cosa che invece non riesce a Mussolini, presentatosi a Milano, con i fascisti, ricevette solo poche migliaia di voti.
Ma per Matteotti i tempi cominciarono a farsi critici quando agli inizi del 1921 s'accese l'azione violenta, reazionaria, dello squadrismo fascista al servizio degli agrari contro le camere del lavoro e le organizzazioni socialiste.
A gennaio del 1921 fu presente per un giorno al congresso socialista che portò alla scissione dell'ala rivoluzionaria bolscevica, ma abbandon l'assemblea addolorato e stizzito per la consapevolezza dell'indebolimento politico che nella sinistra ne sarebbe susseguito.
Quel che colpisce dell'interpretazione politica che Matteotti fece del fascismo e' il suo vederlo esclusivamente come la reazione violenta rabbiosa degli agrari nei confronti della masse contadine che stavano consolidando un sindacato capace di imporre diritti e regole, ma essa è una interpretazione che non scavava sino in fondo gli aspetti vivi che alimentavano il fenomeno. Risentì degli stessi riduttivi giudizi che ne davano anche i comunisti e la sinistra in generale, senza tener conto delle ragioni sociali profonde, dello scontento che insorgeva dalle grandi masse di reduci e loro famiglie: che si sentivano traditi e umiliati dalle forze socialiste, che non offrivano loro alcuna redenzione sociale ed economica.
Anche se l'interpretazione matteottiana del fascismo era rudimentale la sua contro azione politica era invece chiarissima. Energico il rifiuto verso ogni compromesso. Intransigente verso ogni compagno che manifestava la minima simpatia di un avvicinamento alle posizioni di Mussolini. Forse gli uomini in linea di metodo piu' vicini a Matteotti erano proprio i comunisti, di cui pero' il deputato di Rovigo disprezzava il bolscevismo congenito, affermando che detestava il loro essere concettualmente favorevoli alla presa del potere ed alla dittatura delle minoranze, pur ottenuto con metodi violenti. Mentre i socialisti erano i sostenitori del metodo democratico e della scelta delle maggioranze. Questo valore essenziale li rendeva, con i coministi, incompatibili. Ma la determinazione antifascista con cui portare a termine l'impegno parlamentare era la stessa.
Pedante, fin al limite del parossismo era la sua puntigliosa denuncia di Matteotti, in Parlamento di tutte le violenze perpetrate dagli squadristi, cosi' da farne l'uomo verso cui erano piu' inveleniti.........

CRONISTORIA RAPIMENTO
Matteotti esce dalla propria abitazione in via Pisanelli 40 alle 16.30 di martedi' 10 giugno 1924 per recarsi alla biblioteca della Camera, quando sul Lungotevere Arnaldo da Brescia ecco imbattersi con il gruppo della Ceka al comando di Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria, Amleto Poveromo, Filippo Panzeri, Aldo Putato. Basista del sequestro e' un conoscente dello stesso deputato, Otto Thiershald, un austriaco. La Lancia Kappa per i sequestratori e' stata noleggiata dal direttore del "Corriere Italiano" Filippo Filippelli presso il Garage Trevi.
Non appena vede quei brutti ceffi venirgli incontro Matteotti attraversa la strada, corre verso il Tevere, vorrebbe raggiungere l'argine, ma gli e' impedito. Allora torna indietro. Si difende. Con un pugno butta a terra uno degli aggressori e ne affronta un altro. La macchina, parcheggiata in Via degli Scialoia, intanto si avvicina. I colpi sono violenti, barcolla, e circondato, soccombe, scaraventato sul marciapiede con pugni e calci. Tramortito, viene caricato in macchina, che parte a cosi' velocità che uno dei complici rimasto sul predellino non riesce a salirvi.
La collutazione continua sui sedili. Matteotti rinviene. Con un calcio sfonda il finestrino interno dell'auto e riesce a buttare fuori anche la sua tessera di deputato, che verrà raccolta il giorno dopo. Per coprire le urla, Augusto Malacria, alla guida, suona insistentemente il clacson. Poi l'auto oltrepassa Ponte Milvio, scompare verso la campagna romana.
Se si voleva compiere un sequestro in sordina esso si e' svolto invece nel peggiore dei modi. I testimoni sono molti: due ragazzi, degli operai, alcuni avvocati che passeggiano sul lungotevere e delle persone alla finestra di un palazzo. Anche il numero della targa della macchina e' noto, lo hanno preso la sera prima i coniugi Villarini, due portieri di uno stabile accanto.
Velia Titta, la moglie di Matteotti, non vedendo tornare il marito a casa all'ora di cena, si preoccupa, ma non ne fa subito denuncia, è accaduto altre volte che lui, per sottrarsi a vendette fasciste sia rimasto fuori per la notte. Solo nel pomeriggio dell'11 giugno pero', quando alla Camera i deputati socialisti hanno già preso la parola per la discussione sul bilancio, non vedendolo giungere, cominciano sul serio a preoccuparsi. Tuttavia, nel dubbio che Matteotti possa ancora tornare, il deputato Modigliani attende fino alle otto e mezzo della sera per recarsi dal questore Bertini e sporgere denuncia. Ma in Questura apprende con inquietudine che già sanno tutto, informati dal capo della polizia De Bono.
Intanto, Mussolini, della morte di Matteotti ne è venuto a conoscenza dal mattino dell'11 , avendogli il suo segretario personale Arturo Fasciolo, consegnato il passaporto del deputato. Fasciolo lo avrebbe ricevuto la sera stessa del delitto dal Dumini.
Il giorno dopo la Camera è sommersa di interrogazioni parlamentari. Le opposizioni chiedono a Mussolini di render conto della scomparsa di Giacomo Matteotti. Il capo del Governo con un brevissimo intervento risponde che farà del tutto perché il Segretario del Partito Socialista Unitario venga ritrovato, in qualunque modo, in qualunque posto. Ma e' affermazione che suona così falsa che il deputato repubblicano Chiesa, irritato, commenta "E' lui il colpevole!"
In quello stesso 12 giugno, alle dieci di sera, alla stazione di Roma Termini viene arrestato Amerigo Dumini, mentre si accinge a partire per Milano, così come il giorno prima hanno fatto alcuni dei suoi complici. Inquietante il comportamento di De Bono: subito dopo l'arresto si precipita alla Stazione e contro ogni regola di pubblica sicurezza ha un lungo colloquio privato con Dumini, in cui lo invita a negare ogni cosa con gli inquirenti. "Tacete! tacete! così potrai salvare il fascismo!" sembra gli abbia detto. Ed ancora, proibitissimo, chiede che i bagagli di Dumini gli vengano portati al Viminale nel suo ufficio per verificarne il contenuto. Oltre ad effetti privati nella valigia scopre reperti davvero compromettenti: l'abbigliamento insanguinato di Giacomo Matteotti, cui si aggiungono pezzi sporchi della tappezzeria strappata dalla macchina nella quale è stato ucciso.
Esaminato il bagaglio, De Bono lo fa riportare alla Questura di Roma Termini.
Subito dopo, nella notte, avviene un misterioso incontro fra Rossi, Marinelli, De Bono, e Finzi durante il quale avrebbero messo a punto la strategia da seguire per non coinvolgere il Capo del Governo e salvaguardare loro stessi. Ma altro fatto ancora strano, uno degli effetti della riunione è che De Bono telefoni immediatamente in Questura per farsi mandare per la seconda volta i bagagli di Dumini.
Cosa abbia dovuto complottare De Bono con quei bagagli è un mistero, fatto è che quando essi poi saranno consegnati ai magistrati il loro contenuto e' stato sicuramente addomesticato.
Il Parlamento e' in tumulto. Insoddisfatte della scarna risposta del Governo, le opposizioni sollevano la questione morale ed il 13 giugno per protesta abbandonano l'Aula.

IL RITROVAMENTO DEL CADAVERE
Dopo tante vane ricerche il 12 agosto 1924 un cantoniere che lavora lungo la Via Flaminia trova nella cunetta, all'altezza della Quartarella la giacca sporca di sangue di Giacomo Matteotti. La scoperta indirizza le indagini, i poveri resti del deputato vengono individuati nel bosco vicino quattro giorni dopo dal brigadiere dei carabinieri Ovidio Caratelli.
Il corpo e' raggomitolato, premuto in una buca poco profonda, forse scavata con la stessa lima che gli si trova accanto, malamente ricoperto di un leggero strato di foglie e terriccio.
Ma come vi sarebbe giunto, cosa sarebbe accaduto a Matteotti dal momento del suo sequestro alla morte?
Le deposizioni rese dopo l'arresto dai sequestratori agli inquirenti sono contraddittorie, piene di ritrattazioni, vanno prese con cautela. Essi affermano che loro intenzione non sarebbe stata quella di uccidere ma solo di immobilizzare il deputato e condurlo in luogo appartato per chiedergli chiarimenti sulle sue discusse attività antifasciste, intimorirlo, e ricondurlo a Roma. Invece la sua imprevista difesa aggressiva, li induce a rispondere con tale violenza che gli provocano una emorragia per emottisi, Matteotti muore per soffocamento senza che essi se ne accorgano. Sarebbe stata una disgrazia dunque non un omicidio.
Accortisi di avere un cadavere in macchina gli uomini della Ceka perdono la testa e cominciano a girovagare nei dintorni di Roma per sei ore, privi di meta, senza sapere che decidere. Solo con il buio si addentrano nel bosco della Quartarella, scavano una fossa alla meglio con una lima e ve lo seppelliscono.
Al processo di Chieti, nel 1926, il Pubblico Ministero Del Vasto durante la sua requisitoria - con un sottile marchingegno giuridico - divide il capo di accusa in due momenti distinti; il primo: l'ordine di sequestro, il secondo: l'uccisione. I due capi di imputazione non vengono collegati: chi ha dato l'ordine del sequestro non ha dato quello di uccidere; chi ha ucciso lo ha fatto involontariamente.
Ma a Chieti è avvenuto anche un altro fatto - unico- . La difesa ad oltranza degli esecutori materiali del delitto è stata affidata al segretario del Partito Fascista Roberto Farinacci, il quale al contrario di quanto vuole Mussolini ha l'abilità di trasformare il dibattito giudiziario in un rumoroso processo politico contro l'antifascismo, che se da un lato contribuisce ad irritare il Duce - che di lì a poco lo dimetterà dalla segreteria - dall'altro fa sì che la sentenza a danno degli imputati risulti assai mite.
Il 24 marzo 1926 infatti, la Corte d'Assise riconosce si' Cesare Rossi e Giovanni Marinelli colpevoli dell'ordine di sequestro, Filippo Filippelli per avervi cooperato, ma essendo i loro reati estinti per l'amnistia del 31 luglio 1925 li rimette subito in libertà. I sequestratori Viola e Malacria sono assolti per non aver commesso il fatto; Volpi, Dumini e Poveromo invece sono condannati a cinque anni 11 mesi e 20 giorni, che, sempre in virtù dell'amnistia, si ridurranno a solo altri due mesi di prigione.
Fatto significativo, la famiglia Matteotti - parte civile - si è ritirata dalla causa. Il loro avvocato Modigliani ha reso noto che e' una decisione di protesta contro l'atmosfera vessatoria, di minaccia, che aleggia sul dibattimento e che fa intuire un processo già segnato da una sentenza precostituita a favore dei colpevoli.
1947 Il giudizio di Chieti viene annullato. A Roma si celebra un secondo processo che non aggiunge molte novità istruttorie però capovolge la sentenza. Dumini, Viola e Poveromo vengono condannati all'ergastolo. Albino Volpi invece è morto nel '39.
Il processo tra l'altro rivela anche un aspetto nuovo, davvero imbarazzante, molti degli uomini che ebbero a tessere il clima violento in cui maturo' il sequestro, lo scrittore Curzio Malaparte per esempio, sono passati tra le file dell'antifascismo, altri sono stati poi incarcerati, perseguitati dal Regime ed altri ancora hanno avuto una morte orribile come l'ex Sottosegretario agli Interni Aldo Finzi ucciso alle Fosse Ardeatine.
Il processo, che sarebbe dovuto essere un atto postumo di giustizia, teso a ribaltare la sentenza politica di Chieti, in realta' si conclude anch'esso con una sentenza altrettanto politica e senza aggiungere quasi nulla alla verita'.

I MISTERI
Se gli uomini della Ceka, - al processo di Chieti - riescono a farla franca appellandosi alla preterintenzionalità del delitto, non riescono comunque - nei confronti della storia - a rendere plausibile la loro versione che lascia troppi aspetti oscuri.
Innanzitutto: quanto è vero che Matteotti sia morto per emorragia se l'esame autoptico non ha potuto rilevare nulla di preciso per il pessimo stato del cadavere?
Dal momento del sequestro e quello del rientro della macchina con i sequestratori a bordo a sera tardi a Roma passano piu' di sei ore! Come hanno trascorso tutto quel tempo, è mai possibile che ex arditi della Grande Guerra si impressionino per l'avere accanto un cadavere!?
E' vero che sul Lungotevere fose presente anche una seconda macchina, un'auto sportiva, che poi avrebbe seguito la Lancia Kappa con Matteotti per tutto il viaggio? Chi ne sarebbero stati gli occupanti?
Perche' l'auto con i sequestratori a bordo si fa vedere da alcuni testimoni nei pressi del lago di Vico, e poi si riallontana per destinazione ignota? Come mai è lì? per nascondervi il corpo, o semplicemente per lasciare indizi che confondino le future indagini?!
Invece quanta strada avrebbero voluto sul serio percorrere il Dumini, se al garage Trevi ha chiesto l'auto con il serbatoio pieno, quindi una autonomia di circa 400 chilometri? Quale sarebbe dovuta essere la meta?
Perche' gli inquirenti hanno l'impressione che la morte improvvisa del deputato abbia sconvolto i piani degli esecutori? Forse non si sarebbero potuti più esporre per un viaggio lungo con un cadavere a bordo? Quanto e' vero che avrebbero dovuto raggiungere un casolare nella lontana Umbria, qui interrogare Matteotti, e poi ucciderlo facendone scomparire il cadavere in una fossa contenente calce viva?
E' possibile che durante le sei ore di assenza Dumini abbia parcheggiato la macchina con il cadavere in luogo sicuro e poi con l'altra che li segue abbia raggiunto i mandanti a Roma per informarli della morte del deputato e quindi predisporre una propria difesa?
Perche' quando il 16 agosto verrà desseppellito il cadavere questi e' coperto solo di un sottile strato di terriccio? Perche' la buca e' scavata rudimentalmente con una lima? Non e' questo il modo per costituirsi un alibi che dimostri l'avventatezza pasticciona dei colpevoli?! Ma allora perche' il corpo di Matteotti viene seppellito nudo?! Non e' che seppellendolo senza abiti si sarebbe disfatto piu' facilmente, cancellando le prove? Ma se gli aggressori hanno seguito direttive cosi' competenti, da chi le hanno ricevute?
Da che nasce il sospetto che il seppellimento del cadavere sia addirittura avvenuto la mattina dopo il delitto e con l'aiuto, o per mano, di persone addirittura estranee al sequestro!
Peraltro anche la giacca travata nella cunetta della via Flaminia e' sembrata agli inquirenti troppo nuova rispetto ai suoi due mesi di intemperie, non poteva essere stata presa da De Bono dal bagaglio di Dumini, e poi fatta trovare di proposito qualche giorno prima di Ferragosto!? Perche' il brigadiere dei carabinieri Ovidio Caratelli si presenta a ritirarla prima che i carabinieri stessi ne siano stati informati? Come lo aveva saputo?
E sempre Caratelli e' anche il protagonista del ritrovamento del cadavere! E' solo un caso, o tutto fa parte di un progetto preciso?
Troppe cose sfuggono. Tant'e' vero all'approssimarsi del processo di Chieti, tutti gli inquirenti vengono promossi ed inviati ad altra sede, lontano. Perfino l'avvocato degli inquisiti - Giovanni Vaselli - e' promosso Vice Governatore di Roma.
Un l'ultimo dubbio… e' certo che Matteotti sarebbe dovuto essere ucciso proprio l'11 giugno e a Roma? Perché qualche giorno prima gli è stato restituito il passaporto per un viaggio in Austria, quando Mussolini in persona aveva proibito di rilasciarglielo? Il 7 giugno, data della sua possibile partenza per l'estero, la spia della Ceka Otto Thiershald viene messa a piantonargli casa, cosa si voleva scoprire?
E perché Dumini poi si precipita sul treno per l'Austria quella sera stessa e lo percorre tutto per verificare se Matteotti e' davvero partito? Invece e' rimasto a Roma, perché?

L'IPOTESI AFFARISTICA
Trasformando il suo movimento in partito, nel 1921 - Mussolini - se da un lato crea una struttura politica efficiente per raggiungere il potere, dall'altro i costi sono cosi' aumentati che - sulla scia degli altri partiti - deve cercare di attingere anche lui a finanziamenti non del tutto legali. Il sistema piu' semplice e' il traffico dei residuati bellici: quantita' di armi cedute ufficialmente per rottamazione a finte cooperative di reduci ma che nella pratica vengono ricollocate sulla piazza europea a prezzo di mercato con evidente margine di guadagno.
In questo traffico per il PNF, si distingue particolarmente Carlo Bazzi, direttore del giornale "Nuovo Paese" piu' tanti altri fra cui Amerigo Dumini che viene arrestato per esportazione illegale d'armi alla Jugoslavia. Questo commercio e' tuttavia un osso spolpato, in concorrenza con tutti gli altri partiti, ragione per cui un altro faccendiere fascista, Filippo Filippelli, direttore del "Corriere italiano" si muove nell'ambito dei grandi appalti, infrastrutture pubbliche, finanziamenti per grandi opere, ed in particolare il commercio floridissimo del petrolio.
Sino al 1922 il mercato petrolifero italiano era per l'80% nelle mani della società americana Standard Oil, e' un mercato pigro senza troppa concorrenza; l'anno successivo pero' la Anglo Persian, azienda proprieta' del governo inglese, decide di scalzarne una fetta con una efficace concorrenza, peraltro gradita. E tutto sembra filar liscio, senonche' l'ambasciatore italiano a Washinghton Gelasio Caetani si fa portavoce di un'altra azienda americana - la Sinclair Oil - la quale con un colpo di scena riesce a spuntare con il Governo di Mussolini una convenzione a costi piu' alti dell'azienda inglese. E non saranno pochi fra le opposizioni a chiedersene il perche'.
La trattativa, che peraltro avrebbe richiesto una certa cautela, invece essa va inspiegabilmente veloce; a nulla valgono le dure critiche sulla stampa contro la Sinclair che nella primavera del 1924 e' coinvolta nel famoso scandalo per corruzione di Teopot Dom, da cui e' travolto lo stesso Presidente degli Stati Uniti.
Vien da chiedersi: come mai Mussolini e' cosi' ostinato a concludere gli accordi con la Sinclair?
Come mai in Consiglio dei Ministri fa approvare la Convenzione solo dopo le elezioni del 6 aprile 1924 ? Perche' tanta precauzione politica? Cosa si teme possa essere scoperto?
Giacomo Matteotti, a cui nel 1923 è stato ritirato il passaporto per la sua energica attività antifascista all'estero, sospetta che appunto la Convenzione Sinclair nasconda un modo illegale per reperire fondi per il PNF e cerca documenti per denunciarlo. Si reca percio' clandestino a Londra, dove il Primo Ministro Mac Donald - e' preoccupato per la concorrenza sleale fatta dalla Sinclair all'Anglo Persian che e' azienda del governo inglese. Il premier laburista fornisce documenti davvero compromettenti, tra cui la dimostrazione che la Sinclair Oil non e' affatto una impresa antagonista della Standard Oil ma addirittura una sua consociata!
Vien da chiedersi: Mussolini e' davvero cosi' ingenuo da non capire che la Sinclair e' il cavallo di Troia escogitato dalla Standard Oil per conquistarsi un'altra fetta di mercato?
Potrebbe essere vero che il 30 maggio 1924, Mussolini, minacci Matteotti non per il suo discorso con cui chiede l'annullamento delle elezioni ma per i documenti che ha scoperto?

LE RESPONSABILITA' DI VITTORIO EMANUELE III
Dinanzi alla tragedia che colpisce Matteotti, la sua famiglia e l'Italia ci si è chiesti molte volte quanto ne sia partecipe anche il Re. Quanto sia informato delle complicità affaristiche dei quadri fascisti e del Governo. Certo è, alcuni comportamenti di Vittorio Emanuele destano sorpresa. Da un lato colpisce la sua indifferenza nei confronti delle polemiche insorte tra le opposizioni per l'accordo Sinclair, dall'altro il suo sostegno esplicito a Mussolini, nonostante il delitto e l'Aventino.
Da alcuni è stata definita "ignavia" questa indifferenza 'reale', ma da altri invece - pur senza averne le prove - sicura complicità.
Che lo stato finanziario di Casa Reale non sia dei migliori lo dimostra il fatto che, ancora negli anni successivi, soffra di forti deficit superati solo dal nuovo amministratore: Pietro d'Acquarone, che diventa Ministro della Real Casa ed avrà un ruolo importante poi anche sulle sorti del fascismo.
Stando al 1924, la situazione finanziaria di Casa Reale deve essere ancor meno rosea, l'Italia è uscita dalla guerra da solo sei anni e probabilmente le casse di famiglia ne hanno fortemente risentito. Quanto detto potrebbe essere solo una banale osservazione, se nel 1978 un discutibile articolo del giornalista Gian Carlo Fusco non avesse rilanciato i problemi finanziari di Casa Savoia in termini nuovi e inquietanti.
Fusco afferma che, nel 1942, durante la campagna d'Africa, Aimone di Savoia, gli avrebbe rivelato che Matteotti, durante il suo viaggio a Londra nell'aprile del 1924 avesse ricevuto dalla loggia massonica "The unicorn and the lion" documenti affermanti che il Re sarebbe entrato nel registro degli azionisti Sinclair senza sborsare una lira, solo garantendo di tener segreti gli immensi giacimenti di petrolio del sottosuolo libico. In tal modo l'Italia sarebbe sì rimasta dipendente dalle forniture Sinclair ma il Re ne avrebbe tratto il dovuto tornaconto rimpinguando le proprie casse private.
La notizia desta una certa impressione, anche se ottiene subito feroci critiche. E' molto probabile che Fusco abbia di molto forzato le parole di Aimone di Savoia, il quale non poteva avere nessuna prova della presenza di idrocarburi nel sottosuolo libico essendo stati - essi - scoperti solo nel dopoguerra. Inoltre le ricerche realizzate vicino Tripoli dall'esploratore Ardito Desio ai tempi di Italo Balbo non ne avevano trovato significative tracce.
I dubbi sollevati riguardo ad un ipotetico coinvolgimento del Re nell'affare Matteotti fanno pero' riemergere ancora una volta alcuni punti, rimasti oscuri e mai chiariti, della dinamica del delitto.
Se gli inquirenti si sono convinti che i sequestratori, comunque la si metta, non avrebbero mai voluto uccidere il deputato in macchina, allora come si spiega che Albino Volpi - lo testimonia Gino Finzi e i giornali dell'epoca - abbia estratto un coltello e l'abbia piantato nelle carni di Matteotti?
Come è possibile che un gruppo di uomini così abituati alla violenza abbiano avuto paura di quell'uomo solo? La dinamica dell'uccisione in quel modo non trova ragione salvo nell'ammettere che Albino Volpi possa averlo fatto per ordini da qualcuno, chi?
Una ipotesi è che sia stato De Bono, il quale dopo aver raggiunto il Re a San Rossore ed averlo informato delle prove in possesso di Matteotti, abbia ricevuto il via libera perché venisse messo a tacere per sempre. Questa è solo una ipotesi, di prove non c'è nulla, c'è solo il nostro sforzo di trovare una soluzione possibile alle difficili affermazioni di Fusco.

MUSSOLINI SAPEVA?
Alla luce delle nuove ricerche sull'affarismo ancora una volta ci si torna a chiedere - Mussolini sapeva? Quanto è davvero responsabile della morte di Matteotti? -
Certo se il fascismo è il germinatore del clima di violenza in cui matura il delitto non significa che Mussolini debba per forza esserne il responsabile. Matteotti potrebbe essere stato eliminato per impedire che la sua denuncia in Parlamento stronchi la carriera ed apra la galera a troppe persone.
L'assassinio è la zampata leonina dell'affarismo diffuso che prolifera nel governo; nel quale sono coinvolti politici, imprenditori, faccendieri, e forse - visto che molti vi sono iscritti - anche la Massoneria. Questo concorso di interessi è così enorme che sposta le vicenda ben oltre il PNF. E non va escluso che il coinvolgimento di Mussolini sia la strategia dei colpevoli per garantirsi l'impunità.
Che qualcosa di tutta l'operazione non quadri emergerebbe anche dalle parole del Duce in Parlamento il 13 giugno 1924. "Se c'è qualcuno in quest'aula che abbia diritto più di tutti di essere addolorato e, aggiungerei, esasperato, sono io. Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione". Parole che potrebbero ritenersi di circostanza, ufficiali, per dissipare accuse contro di lui che ormai dilagano, se non vi fosse a sorreggerle anche la confidenza telefonica fatta ad Arnaldo la notte prima: "...Tutti si scagliano contro di me e mi rendono responsabile di ciò che è avvenuto! ...E' vero che Matteotti mi aveva piantato non poche grane, ma non è meno vero che, essendo il miglior uomo di quella masnada e, soprattutto, il più coerente e sincero, per quanto impulsivo, ho sempre avuto per lui quasi un'ammirazione. Sono rimasto veramente addolorato per ciò che è accaduto!" La risposta telefonica del fratello ha però un epilogo curioso, Arnaldo - dopo avergli ricordato che glielo aveva sempre detto di guardarsi dalle persone che gli sono intorno - lo rassicura, garantendo che un pò per volta vedrà estinguersi ogni difficoltà... ma solo "...Se la tua coscienza è pura". E suona comunque strano da parte del fratello questo dubbio.
E tuttavia, che l'innocenza a Mussolini sia in un certo modo riconosciuta lo dimostra il fatto che Benedetto Croce, che fascista certo non era, giorni dopo, in Senato, gli vota a favore. E neppure l'ambasciatore sovietico Jurenev, contrapponendosi a Togliatti e Gramsci disdice l'invito a pranzo fatto al Duce per l'11 luglio in ambasciata. Tutti coloro che in quei giorni potrebbe dare un colpo mortale al Governo ed al suo Primo Ministro non lo fanno. Tantomeno la secessione dell'Aventino ottiene particolare sostegno. Perché tanta solidarietà con Mussolini? E' evidente che molti non credono alla sua reità.
Dunque i responsabili del delitto potrebbero essere altri?!
Tra le pieghe oscure dell'inchiesta qualche indizio strano emerge. Per esempio nella stessa notte dell'arresto di Dumini, il capo della polizia De Bono parlando con il Duce pare gli abbia detto: "Ti stanno gettando addosso le responsabilità" e lui avrebbe risposto: "Questi vigliacchi, mi vogliono ricattare!" Dice proprio ricattare.
Ma se è un ricatto, allora a cosa è riferibile? solo alla complicità affaristica, o a qualche altra delicatissima cosa? E chi sono gli uomini che ricatterebbero Mussolini? lo stesso De Bono che gli telefona, o altri? per quali motivi dovrebbero farlo?
La testimonianza, peraltro molto contestata di Carlo Silvestri, resa al secondo processo Matteotti nel 1947, e che riferirebbe confidenze fattegli da Mussolini durante il periodo di Salò, pare chiarisca proprio questo punto. Silvestri rivela che il ricatto sia consistito nell'impedire a Mussolini la svolta rivoluzionaria, di un nuovo governo, aperto ai socialisti ed in particolare all'area sindacale della CGL: Baldesi, Buozzi, D'Aragona. Tale scelta se da un lato avrebbe indotto panico in quei settori del capitalismo che ora si vedevano i socialisti portati nel Governo! dall'altro avrebbe spezzato ogni speranza del rassismo squadrista di ritrovare spazio di protagonismo nella politica. Infatti nel discorso al Convegno fascista del 7 agosto 1924 - vale a dire due mesi dopo l'uccisione di Matteotti ed in uno dei momenti più difficili per il Governo, accade che il Duce si rivolga ancora una volta a Farinacci per dirgli di non insistere oltre per ottenere cose che non sono possibili, giacché il fascismo ormai ha ottenuto tutto: Governo, provincie, comuni, nonché Forze Armate e Milizia. Ed ancora, fatto ben più importante Mussolini si rivolge alle opposizioni dell'Aventino con un improvviso tono conciliante, osservando che il suo combatterle energicamente non vuol dire che non riconosca le energie del popolo italiano che esse rappresentano, lancia ancora ad esse "un ramoscello di olivo", ma purché siano disposte a legittimare il fascismo riconoscendolo il risultato di un naturale atto d'insurrezione.
Quanto è sincero Mussolini il 7 agosto? difficile dirlo, anche se è molto probabile che quello possa essere stato il suo ultimo tentativo di conciliazione.
Quanto a prove documentali che scagionino Mussolini dalle accuse, non ne esistono. Come pure non si è mai trovato il fascicolo di una presunta inchiesta tardiva ai tempi di Salò condotta da Bombacci e Gatti fra gli ambienti industriali e finanziari genovesi che sarebbero stati complici dell'affarismo.
Comunque particolare è il paradosso logico a epilogo di questa vicenda:
- Un Mussolini colpevole farebbe mettere fortemente in dubbio la sua intelligenza, in quanto non si sarebbe reso conto dell'estemo rischio che sicuro avrebbe corso lui ed il suo Governo, facendo uccidere il capo delle opposizioni.
- Un Mussolini innocente, vittima del complotto, lo farebbe ritenere altrettanto sprovveduto da non capire che tutti gli uomini a lui vicini, di cui ha assoluta fiducia, lo tradiscono e lui non se ne accorga!
Nessuna delle due soluzioni, ovvio, pare sia quella intelligente. E allora torna a riavere un senso il dubbio legittimo del fratello Arnaldo su quanto fosse puro il cuore di Mussolini!

LE CARTE SCOMPARSE
Che fine hanno fatto le carte che Matteotti aveva con sé quando fu sequestrato sul Lungotevere Arnaldo da Brescia il 10 giugno 1924? Amleto Poveromo in una testimonianza - poi rinnegata - resa durante l'istruttoria del 1947 afferma che queste, la sera tardi del 10 giugno, dopo il loro rientro a Roma all'Hotel Dragoni, sarebbero state prese da Dumini e consegnate a Marinelli e Cesare Rossi.
Se Dumini gliele avrebbe consegnate tutte non lo sappiamo. Tantomeno sappiamo se la notte del 12 giugno, Emilio De Bono ne trovi altre nel bagaglio del Dumini appena arrestato, che si è fatto portare in ufficio.
Se documenti ci sarebbero stati potrebbe anche darsi che De Bono - essendo capo della polizia - possa aver deciso di trattenerli con sé. E' leggenda, poi, che proprio di questi, Emilio De Bono se ne sarebbe ricordato vent'anni dopo al processo di Verona, quando - imprigionato dai nazifascisti- per il voto espresso in Gran Consiglio il 25 luglio contro il Duce, ed abbia tentato di mercanteggiarli per aver salva la vita, ma scoperti da Pavolini gli sarebbero stati tolti e consegnati a Mussolini solo dopo la sua fucilazione a Forte Proclo l'11 gennaio 1944.
Fatto sta - comunque - le carte di Matteotti non sono state più trovate, tantomeno inventariate fra i documenti scoperti nelle due famose borse che Mussolini ha con sé quando è catturato a Dongo. Sono state scoperte invece altre carte, quelle relative al processo Matteotti, sul famoso camioncino carico dei documenti dell'Archivio di Salò che partendo con la colonna Mussolini da Milano per Como il 25 aprile 1945, rimane in panne a Garbagnate, finendo in mano ai partigiani.
Il camioncino viene recuperato dai combattenti democristiani appartenenti alla 16.a Brigata del Popolo comandata dai fratelli Carlo ed Arturo Allievi. I documenti, custoditi in una cassa di zinco, vengono poi consegnati a Luigi Meda, responsabile del CLN milanese, inventariati da questi, che ne rilascia regolare ricevuta. Meda consegna a sua volta i documenti in possesso al conte Pier Maria Annoni responsabile del CLN per la Lombardia, che li deposita nei locali della Prefettura di Milano, da dove il 13 febbraio del 1946 vengono portati nella Capitale presso la Presidenza del Consiglio retta da De Gasperi. Ora essi sono consultabili presso l'Archivio Centrale dello Stato, in Roma.
Riferibili a Matteotti vi sono 8 fascicoli e tutti riguardanti il processo di Chieti, a questi si aggiunge un dossier su Cesare Rossi.
Ma allora, da quale dossier proviene l'autografo consegnato da Piron a Matteo Matteotti? L'unica ipotesi attendibile è che esso provenga da un archivio documenti diverso. Quale? Potrebbero quei fogli far parte proprio dell'insieme delle carte sottratte a Matteotti quel pomeriggio del 1924? Dunque esse esistono!? chi le possiede, oggi?
E' evidente che dopo 80 anni rimane ancora il mistero.

L'AVENTINO
Il 13 giugno, indignati dal comportamento del Governo e soprattutto di Mussolini per la scomparsa di Matteotti, i deputati dell'opposizione abbandonano l'aula parlamentare alla Camera e si ritirano in una saletta esterna del Palazzo dichiarando il cosiddetto Aventino. In concomitanza con questa decisione la Camera del Lavoro propone lo sciopero generale, ma fra mille spaccature viene subito rimandato, poi contestato, in ultimo non si farà più.
14 giugno, Mussolini anticipa la chiusura estiva della Camera, che non si riaprirà fino a novembre.
Il 16 giugno intanto, il senatore Di Campello va incontro al Sovrano - che è di ritorno in treno da una visita in Spagna - con un messaggio delle opposizioni che lo pregano di intervenire. Ma Vittorio Emanuele sconcerta tutti rispondendo di essere cieco e sordo e che le sue uniche orecchie sono la Camera ed il Senato. Non ha gradito la secessione aventiniana, e fa ben comprendere anche a coloro che si recano da lui a colloquio al Quirinale che - essendo un sovrano costituzionale - non sarebbe intervenuto senza una richiesta formale giuridicamente valida. Li invita a tornare in Parlamento, votare contro Mussolini, e lui avrebbe preso le dovute decisioni. Ma ciò gli aventiniani non lo fanno. Non solo questa decisione assurda su cui si incaponiscono li sgancia dal paese ma li rende protagonisti di una cecità che impedisce loro di cogliere perfino il fatto che molti onorevoli fascisti moderati passerebbero volentieri con le opposizioni pur di evitare le secche nelle quali sembra essersi messo Mussolini. Molti fascisti restituiscono la tessera e molti si pongono in termini davvero critici, tantè per costoro viene sarcasticamente coniato il termine "Quartarellismo".
Tuttavia è anche accaduto che - nella seconda metà di giugno - alcuni degli uomini più energici protagonisti dell'Aventino, Carlo Sforza, Tito Zaniboni, Riccardo Lombardi, Carlo Silvestri, propongano un assalto a Palazzo Chigi e l'uccisione di Mussolini, atto che non viene realizzato solo per la ferma opposizione di Giovanni Amendola che indignato li apostrofa: "Non siamo dei briganti!"
L'abbandono dell'Aula parlamentare da darte delle opposizione è comunque per il Governo un aiuto così insperato da far ironicamente dire a Giolitti: "A Mussolini capitano tutte le fortune! quando ero io al governo mi davano continuamente battaglia in Parlamento, ora che c'è lui addirittura abbandonano l'aula!"
L'unico partito a mostrare una propria posizione è quello comunista, che pur condividendo e accettando in un primo tempo la secessione aventina, non si abbandona all'isolamento ma già dalla fine di giugno sviluppa una posizione propria che poi risulterà chiarissima nella seconda metà dell'anno. Anche per loro qualcosa tuttavia non va. Solo pochi giorni dopo l'uccisione di Matteotti - al contrario di quanto si sarebbero attesi - l'ambasciatore sovietico a Roma Jurenev invita Benito Mussolini ad un sontuoso pranzo ufficiale e questo con il consenso di Stalin, il quale ci tiene a ribadire la sua amicizia per Mussolini, il primo leader europeo a riconoscere "de jure" l'Unione Sovietica. Il turbamento della base comunista è totale, tanto che il 13 luglio compare su "L'Unità" un indignato articolo di Gramsci con il quale si contesta quel modo di fare così controcorrente dei moscoviti.
Nella seconda metà di ottobre la direzione del Partito Comunista d'Italia scopre le carte e proprio approfittando della frustrazione che serpeggia, l'opposizione aventiniana lancia la proposta che l'Aventino si costituisca in Antiparlamento, promulghi leggi democratiche e si contrapponga alla Camera ormai in mano ai fascisti. Ma la coraggiosa proposta non trova seguito. I comunisti comprendono allora che non resta altro - alla sua riapertura - di tornare a Montecitorio. E' un rientro concordato con Mosca, che in un primo momento è contraria ma poi lo autorizza con la condizione che alla reinaugurazione della Camera il 12 novembre si presenti un solo deputato comunista, che legga una corrosiva lettera sulle posizioni del Partito Comunista sul Governo e poi abbandoni l'Aula. Infatti così avviene. La partecipazione dei comunisti è limitatissima, inviano - quando lo ritengono necessario - loro rappresentanti per comunicare il proprio voto, ma in pratica non sono presenti e per qualche mese.
Tuttavia non si ritenga che questa scarsa presenza parlamentare renda meno incisivi i comunisti sulla vita politica del paese, tutt'altro! la compensano con un serrato coordinamento dei comitati operai e contadini, puntando in particolare sul malcontento dovuto ai bassi salari ed al carovita, tant'è accarezzano perfino la rivoluzione.
Tra il 21 ed il 29 dicembre, condotto dall'onorevole Gilardoni del Partito Popolare, viene compiuto, nei confronti di Salandra, che con il gruppo di Giolitti e Orlando rappresenta in pratica la esigua opposizione ai fascisti in Parlamento, un tentativo per convincerlo ad operare perché si verifichi una crisi ministeriale con la formazione di un nuovo governo che avrebbe dovuto guidare lui stesso che avrebbe ottenuto l'appoggio di tutti gli aventiniani, tanto più che ora Mussolini è sotto il ricatto della pubblicazione del memoriale di Cesare Rossi da parte del giornale di Amendola "Il Mondo" e della incriminazione, per la morte di Matteotti, del Capo della Polizia Emilio De Bono al Senato. Ma il galantuomo Salandra rifiuta la proposta, disapprovandola per la diffamazione che avrebbe subito l'Italia a livello internazionale.
L'aggressivo discorso del 3 gennaio 1925 di Mussolini gioca di anticipo e sorprende ancora una volta le immobili opposizioni. Perfino l'intelligente PCd'I non bada a quanto dice Mussolini, ritenendo, a torto, che il prolungarsi della supremazia fascista con i suoi modi illiberali non potrà che giovare al movimento comunista: la cui rappresentanza parlamentare in marzo decide di rientrare totalmente in Aula. D'ora innanzi parteciperà a tutti i lavori della Camera. E' una presa di posizione netta contro gli aventiniani, chiarendo che se il fascismo è l'avanguardia della borghesia italiana, essi -autorelegati fuori dal Parlamento- ne rappresentano la retroguardia. Il rientro comunista avviene comunque in una atmosfera decisamente ostile, e non mancano le volte che durante discussioni particolarmente accese scoppino tumulti durante i quali subiscono dai poco onorevoli onorevoli fascisti aggressioni, pugni e sputi.
Maggio del 1925 vede approvato il disegno di legge che sarebbe dovuto essere contro la massoneria e le società segrete, ma in pratica obbligando ogni associazione a rendere noti i propri iscritti, mette in crisi anche i partiti, che avrebbero visto così i propri membri perseguitati e picchiati. Stranamente - i comunisti - invece che votar contro questa legge si astengono.
Novembre 1925, il fallito attentato contro Benito Mussolini organizzato dal deputato socialista Tito Zaniboni crea il clima adatto perche vengano approvate dal parlamento e con vasto consenso di popolo tutta una serie di leggi di restrizione della libertà politica. Ed è il pretesto anche per sciogliere il Partito Socialista Unitario, a cui Zaniboni è iscritto e di cui Matteotti è stato segretario.
All'interno dell'opposizione aventina intanto la solidarietà continua a sfaldarsi, nel gennaio del 1926 gli uomini del Partito Popolare, che cominciano a sentire anch'essi l'incoerenza della loro assenza dal Parlamento, cercano l'occasione adatta per rientrarvi e s'illudono che questa possa essere il 16 gennaio 1926, in coincidenza della commemorazione alla Camera della fascistissima e defunta Regina Margherita, ma il permesso, chiesto a Mussolini attraverso la mediazione di Italo Balbo non viene accordato. Se dopo l'uccisione di Matteotti sono stati gli Aventiniani a sollevare la questione morale, ora con il fallito attentato di Zaniboni, sono i fascisti che la sollevano rinfacciando alle opposizioni di essere complici dell'attentatore.
La risposta di Mussolini è ferma: i deputati potranno rientrare alla Camera soltanto se disposti a riconoscere pubblicamente il valore della rivoluzione fascista e ad ammettere che la campagna contro di essa coltivata durante l'Aventino è stata scorretta. Solo gli onorevoli Anile, Di Fausto e Scotto accettano di sottomettersi . Un rientro non annunciato, alla chetichella, senza abiura, dei popolari finisce a calci e botte cacciati fuori dal Parlamento, dove non tenteranno più di rientrare.
Nel corso del 1926 Mussolini subisce ancora tre attentati. Questo abilita a stroncare più ferocemente le opposizioni. Il 5 novembre viene approvata la legge che sopprime tutti i giornali contrari al Regime e viene istituito il confino di polizia. Quattro giorni dopo, il 9 novembre, viene discussa alla Camera la mozione di Farinacci con la quale si dichiara decaduti dal mandato parlamentare tutti i 120 deputati aventiniani "per esser venuti meno alla perscrizione di esercitare la propria funzione al solo scopo del bene inseparabile del Re e della patria!"
In un primo momento, nell'elenco non sono inseriti i parlamentari comunisti, in quanto la loro assenza dal Parlamento è stata assai limitata ed hanno in pratica partecipato a tutti i lavori, se non che Mussolini chiede a Farinacci anche la loro testa.
E' l'epilogo. Gli uomini che hanno abbandonato la Camera in segno di protesta per l'assassinio di Giacomo Matteotti vengono allontanati, molti andranno al confino, altri in esilio, altri in carcere, qualcuno, come Giovanni Amendola viene ferocemente bastonato, e ne muore l'anno dopo in Francia.
E' il tragico epilogo di una svolta sbagliata e sfortunata che si ricorda come "l'Aventino".

IL DISCORSO DEL 3 GENNAIO 1925
Sul finire del 1924 Mussolini pensa di rafforzare la sua posizione innanzitutto proponendo una riforma elettorale a collegio uninominale, poi tenendo a freno con altri provvedimenti sia gli intransigenti estremisti del PNF che gli Aventiniani. Il piano però fallisce di fronte alla pronta energica reazione della corrente di Farinacci, l'ala dura del partito che non solo stanca dell'essere emarginata ma soprattutto perché il Duce ha abbandonato al corso della giustizia molti squadristi colpevoli di delitti, minaccia una recrudescenza degli attacchi in particolare dopo l'uccisione in settembre del deputato fascista Armando Casalini. Si vuole che Mussolini smetta la sua linea morbida e stronchi le opposizioni.
Curzio Suckert Malaparte protesta: "Non è l'onorevole Mussolini che ha portato i fascisti alla Presidenza del Consiglio, ma sono i fascisti che hanno a lui dato il mandato rivoluzionario per la conquista del potere! Perciò, o attua la volontà del popolo che lo ha sostenuto o rassegna le dimissioni!"
A fine anno, piaccia o no, gli squadristi, sostenuti anche dalla loro classe intellettuale, fanno capire al Duce senza mezzi termini che non può salvarsi immolandoli sull'altare della utilità politica!
Il 31 dicembre un gruppo di consoli della Milizia, tra cui i maggiori esponenti dello squadrismo Brandimarte, Agostini, Panfili, Testa, Gaggioli, guidati da Enzo Galbiati e Aldo Tarabella si recano a Palazzo Chigi da Mussolini con la scusa di portargli gli auguri di fine anno e invece gli pongono l'ordine perentorio di non esporli più agli attacchi delle opposizioni e di reagire contro di esse. Anzi, per dimostrare che fanno sul serio, quello stesso giorno, decine di migliaia di squadristi toscani occupano Firenze, incendiando giornali antifascisti, devastando sedi di partiti e logge massoniche. Stessa cosa poi accade nelle altre città e province dell'Italia settentrionale.
Mussolini è costretto a reagire. Nella tarda serata del 2 gennaio ha un colloquio a quattrocchi con il Re a proposito della richiesta di firma di un decreto in bianco con il quale lo si autorizza allo scioglimento anticipato della Camera non appena sarà varata la riforma elettorale con seggio uninominale. Non si sa cosa gli abbia risposto Vittorio Emanuele. Fatto è comunque che il giorno dopo, nel primo pomeriggio del tre gennaio 1925 il Presidente del Consiglio tiene alla Camera il suo famoso discorso, con il quale attacca frontalmente le opposizioni aventiniane:
"L'articolo 47 dello Statuto dice: - La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all'Alta corte di giustizia - . Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c'è qualcuno che si voglia valere dell'articolo 47 ".
Dopo di ché respinge l'accusa di aver fomentato la tragica iniziativa del sequestro Matteotti attraverso la Ceka, la cui esistenza recisamente nega.
"Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!"
Quindi continua con un attacco aggressivo nei confronti degli oppositori:
"Il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno definitivamente la sedizione dell'Aventino. L'Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa. Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l'amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott'ore successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l'area."
Al discorso seguono comunque reazioni di profondo disagio, quella stessa sera si dimettono i ministri liberali Casati, Sarrocchi; Salandra passa all'opposizione; anche alcuni ministri fascisti rimangono perplessi ed infatti De Stefani si dimette da Ministro delle Finanze il 5 gennaio appena due giorni dopo.
Il giorno della Befana, tuttavia, invece che per una crisi di Governo il Duce deve disturbarsi solo per un rimpasto ministeriale con il quale Rocco sostituisce Oviglio alla Giustizia, Fedele sostituisce Casati alla pubblica Istruzione, Giuriati sostituisce Sarrocchi ai Lavori Pubblici.
Amendola e le opposizioni aventinane continueranno invano a rivolgersi ai Salandra, Giolitti ed Orlando, che sono rimasti da sempre in Parlamento, per dar vita ad iniziative che ostacolino il corso del Governo, ma tutte si arenano di fronte alla inazione complice del Re, il quale permette che la svolta ormai totalitaria si concretizzi nel paese. E' la nascita della dittatura.

L'EPILOGO DEI COLPEVOLI
L'ex capo della Polizia, il senatore Emilio De Bono, denunciato il 6 dicembre 1924 dal direttore del "Popolo" Giuseppe Donati, viene processato dallo stesso Senato riunitosi in Alta Corte di Giustizia ed il 12 giugno 1925 assolto. Subito nominato governatore della Tripolitania, richiamato poi in Italia, nel 1928 diventa sottosegretario di Stato al ministero della Colonie e nel 1929 ministro. Con lo scoppio della guerra d'Etiopia, nel 1935, ne comanda le fasi iniziali. E' nominato maresciallo d'Italia. Nel giugno 1940 assume il comando delle armate del Sud. Nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 vota contro Mussolini: per questo arrestato il 4 ottobre 1943, viene processato a Verona da un Tribunale speciale della RSI e fucilato l'11 gennaio 1944.
Il Sottosegretario agli Interni Aldo Finzi dopo essersi dimesso, anche lui dibattuto fra vicissitudini di memoriali di difesa e di ricatto contro Mussolini espatria in Francia. Torna in Italia negli anni 30 trascorrendo una vita in sordina, presso la sua tenuta agricola nella camagna romana. Arrestato dai tedeschi per aver accolto in casa sua, nella villa di Palestrina un gruppo di partigiani, viene arrestato dai tedeschi. Muore il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine.
Al processo di Chieti Cesare Rossi e Giovanni Marinelli vengono riconosciuti colpevoli solo di aver dato l'ordine di sequestro di Matteotti ma non quello di ucciderlo. Filippo Filippelli è riconosciuto invece colpevole per aver cooperato al sequestro. Siccome questi reati sono previsti dall'amnistia promulgata il 31 luglio 1925 tornano subito in libertà.
Cesare Rossi nel febbraio del 1926 espatria in Francia passando tra le fila degli antifascisti. Fidandosi ingenuamente dell'amico Filippo Filippelli che ormai lavora per il capo della polizia Bocchini, con la promessa di aiuti finanziari, nel 1928 si lascia attirare in Svizzera, qui viene segretamente catturato dalla polizia politica e ricondotto in Italia. Condannato a 30 anni di carcere per la sua attività contro il Regime, vive tra prigione e confino sino alla seconda guerra mondiale.
Giovanni Marinelli, non appena prosciolto in istruttoria il primo dicembre 1925 viene reintegrato nella sua funzione di Segretario amministrativo del PNF; diviene membro del Gran Consiglio, e tiene entrambe le cariche per tutto il Ventennio fino al 25 luglio 1943. Sarà fucilato a Verona l'11 gennaio del 1944.
Gli unici dei sequestratori davvero condannati a Chieti sono Dumini, Volpi e Poveromo cui viene inflitta una pena di 5 anni, 11 mesi e 20 giorni di carcere, ma prevedendo l'amnistia del 31 luglio 1925 il condono di quattro anni in caso di omicidio politico, avendone essi già scontato un anno e nove mesi tornano liberi appena dopo qualche settimana.
Amleto Poveromo riprende la sua attività di macellaio a Lecco, dopo la conquista dell'Abissinia si trasferisce in colonia, in Eritrea, dove diventa un fortunatissimo imprenditore di trasporti con oltre 200 macchine di proprietà. La sua vita subisce un colpo solo quando al secondo processo Matteotti il 4 aprile 1947 viene condannato all'ergastolo; muore in carcere a Parma nel 1952.
Anche Augusto Malacria, assolto nel primo processo, chiede di essere inviato come ufficiale in Cirenaica, viene accontentato. Muore nel marzo del 1934.
A morire prima della Guerra è anche Albino Volpi, che uscito dal carcere diventa un ricchissimo boss del nuovo macello pubblico di Milano. Quando muore nell'agosto del 1939, il Duce gli invia una vistosissima corona.
A prender la via dell'Africa è anche Aldo Putato, che prima diventa agente dell'Agip di Castellanza. Poi con la conquista dell'Abissinia emigra in Eritrea, dove sposa la figlia del generale Tessitore. In seguito all'occupazione inglese, va prigioniero in India.
Filippo Panzeri torna in Francia e risiede a Marsiglia, si iscrive al fascio locale e continua a fare la spia contro i fuoriusciti mettendosi in diversi guai di natura penale e politica. Tornato a Milano nel 1929 ottiene la gestione di una edicola di giornali.
Giuseppe Viola, assolto al processo di Chieti, torna a Milano dove diventa un fortunatissimo imprenditore. La sua vita viene però capovolta dalla sentenza del 1947 che lo condanna all'ergastolo, pena poi commutata a trent'anni.
Amerigo Dumini ha invece la storia più tormentata, uscito di galera, con il timore che il Regime e Mussolini voglia dimenticarsi di lui gli si contrappone, minaccia. Scrive un memoriale di denuncia con l'astuzia di inviarlo ad uno studio di avvocati amici, negli Stati Uniti. E tenta segretamente anche di espatriare. Scoperto, torna diverse volte in carcere e in due occasioni mandato al confino. Solo negli anni trenta si chiude il suo rendiconto con il Regime; Mussolini gli concede una fruttosa azienda agricola in Cirenaica, poi varie concessioni commerciali e ancora pensioni e sussidi che fanno di Amerigo Dumini uno degli uomini più ricchi della Libia. Durante la Seconda Guerra Mondiale è protagonista di una ambigua storia di spionaggio e controspionaggio per la quale sembra finisca dinanzi ad un plotone di esecuzione inglese, non si sa come però, riesce a salvarsi.
Annullato il processo Matteotti di Chieti, nel 1947 viene condannato all'ergastolo, pena poi commutata a trent'anni. Dopo una serie di ricorsi comunque il 23 marzo del 1956 viene liberato. Muore il giorno di Natale del 1967.

 

FINE
ooo


 

ALTRI APPUNTI di preparazione di un'altra puntata televisiva
scritti molto peggio