IL «MURO DI BERLINO»,
I PROCESSI PARALLELI
E IL DIRITTO NATURALE
IN GERMANIAdi Raoul MUHM
Estratto da L'INDICE PENALE
Anno XXVIII - N. 3 - SETTEMBRE / DICEMBRE 1994
CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI - PADOVA
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IL «MURO DI BERLINO», I PROCESSI PARALLELI
E IL DIRITTO NATURALE IN GERMANIA
sommario:
I. Introduzione.
II. Il processo Honecker e i processi paralleli nei confronti delle guardie di frontiera.
II.a.1. Aspetti preliminari storico-politici.
II.a.2. Diritto penale vigente dopo la riunificazione della Germania.
II.b. Punibilità ai sensi del diritto internazionale penale.
II.c. Punibilità ai sensi del diritto penale internazionale della Repubblica Federale di Germania.
II.d. Le scelte e gli sviluppi giurisprudenziali in riferimento ai procedimenti a carico di Honecker e delle guardie di frontiera.
II.d. l. Profili preliminari
II.d.2. Quadro normativo.
II.d.3. Problemi interpretativi e giurisprudenza delle corti.
II.d.4. La sentenza della Corte suprema federale di cassazione (BGH-St, 3 novembre 1992, StR 370/92).
III. Considerazioni sulla sentenza 3 novembre 1992.
III.a. Aspetti tecnico-giudirici.
III.b. Rinascita del giusnaturalismo.
III.e. Riflessioni metagiuridiche.
I
Per la seconda volta in Germania si avverte l'esigenza di giudicare politicamente, moralmente e giuridicamente gli effetti di un sistema politico dittatoriale. La riunificazione della Germania, infatti, non ha comportato soltanto un radicale mutamento dell'assetto geo-politico europeo, bensì anche l'elaborazione «interiore» della dittatura comunista dell'ormai estinta Repubblica Democratica Tedesca (DDR). Il processo Honecker, ossia la c.d. Norimberga rossa rappresenta, come il processo di Norimberga nel 1946 al termine della seconda guerra mondiale, il processo-simbolo di quel ben più complesso processo storico-sociale di autoanalisi.
Durante il processo di Norimberga era la comunità delle nazioni che, in base al diritto internazionale penale, giudicava le efferatezze commesse dal regime nazionalsocialista. Nel caso del processo Honecker è la Repubblica Federale di Germania (BRD) che siede a giudizio degli esponenti del regime comunista. A differenza del processo di Norimberga però, benché fosse possibile, non si giudica in base al diritto internazionale, bensì in virtù del diritto nazionale vigente nella Repubblica Federale di Germania dopo la riunificazione.
Il dato principale, che contraddistingue dogmaticamente il processo di Norimberga e il processo Honecker, consiste nel fatto che, secondo l'ordinamento positivo nazionale sia del regime nazionalsocialista sia della DDR, i misfattisimbolo perpetrati in nome delle rispettive ideologie erano, se considerati secondo una visione prettamente positivista, nella maggior parte dei casi perfettamente «legali», visto che i legislatori del tempo avevano emanato degli atti aventi valore di norma, i quali giustificavano i comportamenti posti in essere. Il problema che insorge è il conflitto tra il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta e l'avvertita indefettibile esigenza morale di giustizia. Ora, durante il processo di Norimberga il conflitto tra certezza e giustizia, quantunque avvertito, venne risolto riferendosi allo statuto istitutivo del Tribunale di Norimberga, e dunque in nome della supremazia del diritto internazionale nei confronti di quello nazionale. Ben più complessa, al contrario, appare una soluzione giuridica del summenzionato conflitto, qualora, come nel caso del processo Honecker, si debba giudicare applicando il diritto nazionale della BRD, il quale eleva il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta a norma di diritto di rango costituzionale. Le Alte Corti della BRD risolvono questo conflitto asserendo l'esistenza di un diritto di natura, il quale, essendo di rango superiore rispetto al diritto positivo, può essere causa di nullità assoluta di singole norme del diritto positivo. In virtù di tale assunto le stesse Corti riconoscono l'esistenza di una fonte di diritto superiore. In questo modo, superando il metodo dogmatico-giuridico di identificabilità delle singole norme, si entra nel discorso metagiuridico, al contempo riconoscendo alla filosofia del diritto non solo una mera funzione teorico-formale bensí una funzione pratica, ed il ruolo di una «meta-fonte» di diritto.
In questo contesto appare opportuno ricordare che la riunificazione della Germania ha posto complessi problemi giuridici e metagiuridici di diritto internazionale, costituzionale, nonché penale. E comunque in sede di diritto penale che la riunificazione esprime le sue implicazioni politiche e umane più dolorose e sofferte, considerando che in questa fase storica il processo penale è divenuto in Germania, al contempo, processo di catarsi politica.
I principali temi di controversia giuridica in materia di diritto penale sorti a causa della riunificazione riguardano:
a) la punibilità dei giudici e procuratori dello Stato dell'estinta DDR per il delitto di Rechtsbeugung, ovvero per il reato di applicazione volutamente erronea del diritto (§ 336 StGB-BRD e § 244 StGB-DDR: questo delitto è in parte paragonabile agli artt. 323 e 328, comma 2, del codice penale italiano);
b) la punibilità dei membri dei servizi di sicurezza nazionale e dei membri dei servizi segreti (MFS e STASI) a causa delle attività di spionaggio svolte dal territorio dell'estinta DDR ai danni della BRD anteriormente alla riunificazione (tale controversia giuridica è particolarmente interessante in virtù delle eventuali cause di giustificazione derivanti dal diritto internazionale);
e) la punibilità del Presidente della DDR Erich Honecker, dei membri del Direttivo Politico del Politbiiro e delle guardie di frontiera (Mauerschùtzen) in merito agli omicidi commessi da quest'ultimi nei confronti dei cittadini della DDR che tentavano di attraversare «illegalmente» il confine intratedesco allo scopo di recarsi nella BRD, nonché la punibilità di Honecker e dei membri del citato Direttivo a causa delle adozioni coercitive (Zwangsadoptionen). Occorre infatti ricordare che ai dissidenti politici spesso veniva tolta la tutela legale dei propri figli, dando poi questi ultimi coercitivamente in adozione a famiglie politicamente più consone al regime comunista.
Solamente quest'ultimo complesso di argomenti (sub e) sarà qui oggetto di esame.
IIII.a.l. Sin dalla riunificazione l'opinione pubblica tedesca, sia ad est che a ovest del c.d. muro di Berlino, esige che i politici, i funzionari e gli agenti di Stato dell'ex DDR vengano resi penalmente responsabili per gli innumerevoli summenzionati atti commessi, in quanto considerati altamente riprovevoli.
Il problema principale consiste nell'applicabilità del principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta, laddove la legge formale dell'estinta DDR non aveva la funzione di combattere, bensì di formalizzare e di legalizzare l'illegittimità, ovvero l'ingiustizia.
Ora, dei misfatti perpetrati, quello più simbolico dell'esistenza della divisione delle due Germanie era l'ordine impartito di sparare a vista contro quei cittadini della DDR che tentavano di attraversare il muro di Berlino. Giova sottolineare che, eseguendo quest'ordine, il quale era stato impartito da Honecker e dagli altri coimputati del direttivo politico, i mèmbri delle truppe di frontiera intratedesche, secondo la Procura della Repubblica di Berlino, hanno ucciso circa 200 persone.
II.a.2. Dogmaticamente il processo Honecker e i processi paralleli si pongono ai limiti tra il diritto internazionale penale, il diritto penale internazionale e il diritto penale interno della Repubblica Federale di Germania. Quest'ultimo dispone, a sua volta, l'eventuale applicabilità del codice penale della DDR, interpretato però, secondo la giurisprudenza tedesco-federale, con riferimento a criteri di diritto internazionale, o addirittura in base al diritto naturale. Allo scopo di una più agevole comprensione necessita esporre sommariamente il complesso quadro normativo inerente al diritto penale vigente dopo la riunificazione della Germania.
In virtù dell'art. 8 del «Trattato sull'unificazione» del 31 agosto 1990, entrato in vigore il 29 settembre, il diritto vigente nella Repubblica Federale di Germania, è entrato automaticamente in vigore anche nel territorio dell'ex DDR.
In materia di diritto penale sono previste due eccezioni.
La prima consiste nel fatto che alcune norme del codice penale della DDR continuano a restare in vigore, per un certo periodo di transizione, in quello che fu il territorio dell'ex-DDR: ad es., il § 191/a, concernente i pericoli per l'ambiente. In Germania, infatti, si può constatare l'anomala situazione di una parziale scissione del diritto penale, il quale sottosta al principio di territorialità locale, comportante cosi un «diritto penale interlocale ».
A prescindere da queste norme particolari, il diritto penale della DDR è stato abrogato.
La seconda eccezione consiste nell'applicabilità del diritto della DDR, qualora più favorevole, ai fatti penalmente rilevanti compiuti nel territorio della DDR antecedentemente alla riunifìcazione. E inoltre previsto, ai sensi dell'art. 315, comma 4, della legge introduttiva al codice penale della Repubblica federale (EG-StGB) che verrà applicato direttamente e unicamente quest'ultimo nel caso in cui esso, in virtù del proprio diritto penale internazionale, fosse già stato applicabile prima della riunificazione. Verrà applicato quindi direttamente il § 5 (principio di difesa), il § 7 (principio di personalità attiva e passiva) e il § 6 (principio di universalità) del codice penale della BRD (o R.F.T.).
Ciò significa che, tranne l'eccezione di cui sopra, grazie al principio di irretroattività espresso nei §§ 1 e 2 dello stesso codice (nella loro struttura paragonabili agli artt. 1 e 2 del codice penale italiano) agli atti commessi nel territorio dell'ex DDR prima della riunifìcazione non si applicherà direttamente la legge in vigore nella Repubblica Federale di Germania.
Si applicherà invece, das mildeste Gesetz, ossia la disposizione più favorevole al reo: il che ovviamente comporta che il giudice penale tedesco è obbligato a raffrontare le disposizioni dei due ordinamenti.
II.b. Come sopra accennato, una prima soluzione giuridica della c.d. Norimberga rossa potrebbe essere data se i fatti commessi dall'allora governo della DDR configurassero dei crimini ai sensi del diritto internazionale (delicta juris gentium).
In questo contesto le questioni principali sono:
a) l'ammissibilità dell'esistenza di un diritto penale di diretta derivazione dal diritto internazionale, il quale sottoponga dunque direttamente l'individuo al diritto internazionale e, premessa l'esistenza di quest'ultimo,
b) il problema dell'eventuale impossibilità di salvaguardare e tutelare i principi di garanzia tipici del diritto penale nazionale, quali il principio di irretroattività, di stretta legalità, del giudice naturale, ecc., visto che tuttora non esistono ne una codificazione del diritto internazionale penale, ne, tantomeno, un tribunale internazionale penale permanente.
Ora, se si considera la dottrina di diritto internazionale, si può notare agevolmente come quest'ultima suffraghi tendenzialmente la tesi dell'esistenza del diritto internazionale penale. Tale dottrina propugna l'esistenza del diritto internazionale penale riferendosi principalmente sia al diritto internazionale consuetudinario «immemorabile», il quale ad esempio prevede la punibilità della pirateria e dei crimini di guerra, sia ai celebri processi di Norimberga e Tokyo, i cui tribunali internazionali furono istituiti in base al diritto internazionale.
Al contrario, si può constatare come la dottrina penalistica domestica sia propensa a negarne l'esistenza, preferendo ampliare - laddove si noti la necessità di tutela di beni giuridici internazionali, ovvero dell'umanità - il principio di universalità (v. § 6 cod. pen.: Weltrechtsprinzip).
Come è noto, il principio di universalità nasce, nonostante sia desiderata la protezione di beni di diritto internazionale, dalla volontà unilaterale del singolo Stato, il quale, o per volontà propria, o in esecuzione di convenzioni internazionali, stabilisce la punibilità, mediante legge domestica, dei delitti di interesse di tutte le nazioni. Il motivo principale per cui i penalisti domestici sembrano essere inclini a negare l'esistenza di un diritto internazionale penale - il quale sottoporrebbe direttamente l'individuo alle proprie norme, indipendentemente dall'esistenza di norme nazionali - è giustificato dal timore che il diritto internazionale penale non sarebbe in grado di garantire il patrimonio storico dei diritti fondamentali.
Un problema fondamentale attiene alla possibilità o meno di trovare riconoscimento, nel diritto internazionale penale, del principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta. Come è noto, in virtù di questo principio non è consentito incriminare e punire un fatto senza previa legge scritta, per cui sono proibiti i precetti penali derivanti da processi analogici, dal diritto consuetudinario, dal diritto di natura, cosi come è anche vietata l'irretroattività della norma penale. La grande maggioranza degli ordinamenti nazionali sancisce questo principio, il quale è comprensivo dei principi di stretta legalità e tassatività, elevandolo addirittura al rango di diritto costituzionale.
Si pone ora la questione se il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta sia veramente un principio universale.
In primo luogo necessita ricordare che in Stati, noti come esempi di civiltà, quali la Danimarca e l'Islanda, è ammessa l'esistenza di leggi penali retroattive, e che addirittura il parlamento inglese sino alla fine della II guerra mondiale aveva promulgato leggi penali con effetto retroattivo, le quali successivamente furono considerate valide dalle Corti Inglesi.
Inoltre, anche la Corte permanente di giustizia internazionale non ha potuto confermare che il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta fosse un principio generale di diritto riconosciuto ai sensi dell'art. 38, § 1, lett. e del suo Statuto.
Infine si riscontra, in proposito, una certa «ambiguità» insita nei più noti Patti internazionali sui diritti fondamentali.
L'art. 7, comma 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del Consiglio d'Europa e l'art. 15, comma 1 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, del 19'dicembre 1966, suggellano si il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta, ma i rispettivi articoli 7, comma 2 e 15, comma 2 dispongono che non si debba comunque considerare esclusa la punibilità di persone che abbiano commesso fatti, i quali secondo i principi generali riconosciuti dalla comunità dei popoli civili costituiscono reato.
Occorre infine aggiungere che i patti e le convenzioni internazionali contemplano il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta come obbligo degli Stati nell'ambito dell'ordinamento interno domestico, non intendendo cosi, per lo meno direttamente, creare un nuovo ordine penale internazionale.
In conclusione, si deve ritenere, non solo che non è riconoscibile una diuturnitas che confermi il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta a livello di diritto internazionale penale - si pensi ai processi di Norimberga e Tokio, i cui capi di imputazione volutamente non rispettavano il predetto principio - ma che è impossibile riscontrare altresì una opinio juris in riferimento all'applicabilità del summenzionato principio in ambito di diritto internazionale penale.
Il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta non è dunque ravvisabile come diritto internazionale consuetudinario.
Per comprendere e condividere i timori di quei penalisti di diritto interno domestico nei confronti del diritto penale internazionale, i quali paventano una ricaduta della cultura giuridica ad un livello preilluministico, occorre considerare i seguenti aspetti:
a) Secondo il diritto internazionale penale «classico», per i crimini più gravi potrebbe essere comminata la pena di morte.
b) Da un punto di vista prettamente internazionalistico, a causa della per lo meno teorica preminenza del diritto internazionale su quello nazionale, a nulla serve il richiamo al diritto costituzionale domestico, qualora quest'ultimo suggellasse l'abolizione della pena di morte.
c) Le norme di diritto internazionale le quali contemplano una responsabilità penale non garantiscono ne la certezza della fattispecie, ne il tipo e il limite preciso della pena da irrogare.
d) Infine, l'inesistenza di un giudice naturale, ovvero di un tribunale precostituito al fatto.
Per quanto questi aspetti possano giustificare le cautele ed i timori nei confronti del diritto internazionale penale, la storia purtroppo insegna che le autorità di Stato e il legislatore nazionale più di una volta hanno formalizzato e legalizzato le barbarie più atroci.
Si pensi al diritto vigente in Germania durante il periodo nazista, oppure ai tentativi di legalizzare l'epurazione etnica e i connessi crimini compiuti in questo periodo in Bosnia.
In questi casi eccezionali, e solamente in questi ultimi, non solo è un'esigenza politica, bensì un imperativo del concetto di giustizia, che la comunità delle nazioni civili istituisca un tribunale internazionale, eventualmente ad hoc, il quale giudichi grazie ai summenzionati principi generali, cosi come espressi dalle convenzioni e dai patti internazionali.
In tale contesto va annoverata la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 25 maggio 1993 in merito all'istituzione di un tribunale internazionale penale ad hoc, allo scopo di giudicare coloro che nell'ex-Jugoslavia hanno violato il diritto internazionale umanitario.
Dopo aver sottolineato l'esistenza e la necessità del diritto internazionale penale, passiamo ad esaminare le differenti fattispecie eventualmente applicabili al caso Honecker.
I delitti internazionali riconosciuti come delicta juris gentìum sono i crimini di guerra, il genocidio, il crimine dell'apartheid e i crimini contro l'umanità.
Sorge ora la questione se il regime di Honecker, a causa dei predetti omicidi commessi dalle guardie di frontiera e delle c.d. Zwangsadoptionen, si sia macchiato di crimini contro l'umanità.
Innanzitutto va sottolineato che è difficile enucleare la tipologia di questi crimini.
Secondo l'art. 6, § 2, lett. e) della Carta del Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, sono considerati crimini contro l'umanità l'omicidio, il genocidio, la schiavitù, la deportazione e gli altri atti disumani compiuti ai danni della popolazione civile, nonché la persecuzione per motivi politici, razziali e religiosi commessi in esecuzione di un crimine per il quale il Tribunale era competente. E ciò indipendentemente dal fatto se gli atti compiuti violino o meno le norme di diritto interno, ossia le leggi vigenti sul territorio del fatto commesso.
L'estensione del concetto di crimini contro l'umanità viene però ampliata dai progetti proposti per conto della Commissione di Diritto Internazionale delle Nazioni Unite, ossia deìl'Intemational Law Commission.
Il «Draft Code of Crimes Against the Peace and Security of Mankind», accetta, infatti, una fattispecie ben più ampia, di cui all'art. 14, § 5, definendo crimini contro l'umanità tutti gli atti inumani («inhuman acts»}. Questa nozione comprende, ma non solamente, l'omicidio, la persecuzione e la distruzione delle proprietà commessi a danno delle popolazioni o degli individui per motivi sociali, politici, razziali, religiosi e culturali.
Per quanto concerne l'ex DDR, crimini contro l'umanità possono essere considerati soprattutto le adozioni coercitive dei figli degli oppositori politici, le quali hanno causato traumatiche separazioni in seno alle famiglie e l'ordine di sparare a vista contro chi tentava di fuggire dalla DDR.
Parte della dottrina tedesca rileva che i suddetti crimini contro l'umanità non fanno parte del diritto internazionale penale, in quanto non si sarebbe affermata una consuetudine consolidata. La consuetudine, come è noto, richiede l'esistenza degli elementi costitutivi della diuturnità! e della opinio juris. Per la dottrina maggioritaria tedesca, però, il processo di Norimberga e quello di Tokio contro i criminali di guerra, le cui rispettive carte istitutive prevedevano il concetto di crimini contro l'umanità, sarebbero rimasti due eventi isolati, non essendo constatabile una ulteriore prassi degli Stati.
Questa argomentazione appare opinabile, in quanto sembra voler considerare come prassi consolidatrice unicamente lo svolgimento di processi penali internazionali, nella loro struttura analoghi a quelli di Norimberga e Tokio, senza tenere conto di altre forme di prassi internazionale anch'esse costituenti un comportamento costante. Infatti si deve anche considerare che al trattato dell'8 agosto 1945, con il quale le quattro potenze istituirono il Tribunale Internazionale di Norimberga, e alla relativa Carta annessa hanno aderito ulteriori 19 Stati delle Nazioni Unite, e che inoltre l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha ribadito i principi della suddetta Carta con la risoluzione GA RES 95 (I) dell'11 dicembre. Giova infine considerare la risoluzione GA RES 177 (II) del 21 novembre 1947, con la quale si richiedeva all' Intemational Law Commission di formulare e concretizzare - come s'è già ricordato - i principi inerenti ai crimini contro l'umanità.
Secondo la dottrina prevalente tedesca, però, benché sia riscontrabile l'elemento della opimo juris verrebbe a mancare comunque l'elemento della diuturnità!.
D'altro canto, la consuetudine non è l'unica fonte di diritto intemazionale. Come è noto, delle fonti di diritto internazionale fanno parte anche i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili, ai sensi dell'art. 38, comma 1, lett. e) dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja.
Si pone ora la questione se i crimini contro l'umanità possano essere riportati nell'ambito dei suddetti principi generali. Va premesso che questi ultimi non si evincono unicamente dagli ordinamenti giuridici nazionali, bensì anche dalle risoluzioni e dalle dichiarazioni dell'assemblea generale dell'ONU, nel caso in cui quest'ultime siano espressione di un comportamento costante.
Come già illustrato, l'assemblea e i lavori successivi hanno pili volte ribadito che anche i crimini contro l'umanità sono parte integrante del diritto internazionale penale.
In conclusione si può asserire che, indipendentemente dal fatto se la nozione dei crimini contro l'umanità sia già parte integrante del diritto internazionale penale a causa della consuetudine internazionale, la nozione dei crimini contro l'umanità fa comunque parte del diritto internazionale penale, in quanto ravvisabile nei principi generali di diritto ai sensi dell'articolo 38, comma 1, lett. e) dello Statuto Internazionale della Corte Internazionale di Giustizia.
Nonostante ciò, riguardo al processo celebrato nei confronti di Honecker e dei coimputati, la Procura della Repubblica di Berlino, per quanto concerne la grave prassi delle adozioni coercitive e degli omicidi perpetrati dalle guardie di frontiera, non ha proposto atti di accusa in base ai summenzionati crimini contro l'umanità. E ciò in conformità con l'opinione maggioritaria che, negando la prassi, nega l'esistenza di tali crimini ai sensi del diritto internazionale penale, ammettendo invece solamente la configurabilità dei crimini di genocidio, di apartheid e di guerra.
II.c. Una seconda soluzione giuridica della c.d. Norimberga Rossa potrebbe essere intravista nell'attuazione del diritto penale internazionale della Repubblica Federale di Germania.
Infatti, secondo il principio di personalità passiva, di cui al § 7, comma 1, cod. pen., la legge penale della Repubblica Federale di Germania si applica anche agli atti commessi all'estero ai danni di un cittadino tedesco, qualora tali condotte configurino dei delitti anche nel luogo ove sono stati commessi.
Secondo il principio di personalità attiva ai sensi del comma 2 dello stesso paragrafo, la legge tedesca si applica nei casi in cui l'atto viene considerato un reato o delitto nel luogo ove è stato commesso e quando l'attore è cittadino tedesco al momento dell'azione, o nell'eventualità che lo sia divenuto in seguito.
Alcuni autori, come Hruschka, Küpper e Wilms sono dell'avviso che il trattato sulla riunificazione non osta all'applicazione diretta dei sopracitati principi.
Secondo questi autori, se è vero che in virtù del diritto internazionale la DDR era uno Stato sovrano indipendente a tutti gli effetti, è anche vero che per la Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania e per la giurisprudenza della Corte Costituzionale federale la Germania, come soggetto di diritto internazionale nei confini del 1937, cioè la Germania «als Ganzes», ovvero nella sua totalità, non ha mai cessato di esistere.
Per questo motivo la Corte suprema federale di cassazione era dell'avviso, sino all'entrata in vigore del
«Grundlagenvertrag » del 21 dicembre 1972 (il trattato che regolava i rapporti tra i due Stati), che la DDR era da considerarsi «Inland», ovvero territorio «nazionale», con la particolarità di applicare il diritto interlocale. Cosicché la Repubblica Federale di Germania si considerava autorizzata a perseguire tutti i reati commessi sul territorio dell'ex DDR.
Dopo il «Grundlagenvertrag», la Corte costituzionale federale accettava la nozione «statuale» della DDR, anche se non ammetteva una scissione totale, propugnando la tesi di un rapporto sui generis tra la Repubblica Federale di Germania e la DDR.
A seguito di ciò, la Corte suprema federale di cassazione, nelle sentenze BGH-St 30,1,3 e BGH, NJW 81,851, sviluppava il concetto funzionale di «Inland» («Funktioneller Inlandsbegriff»), ovvero il concetto funzionale di territorio nazionale con la conseguenza pratica che in via generale e tranne singole eccezioni, la Repubblica Federale di Germania non si considerava più competente in merito ai reati commessi nel territorio dell'ex DDR.
L'opinione dottrinale che, contrariamente a tali criteri, vuole applicare il diritto penale internazionale del codice penale della Repubblica Federale di Germania ai reati commessi sul territorio dell'ex DDR, motiva questa presa di posizione, definendo, da un lato, la DDR come «Ausland», ovvero come territorio estero ai sensi dei §§ 3-9 del cod. pen. R.F.T. e considerando, dall'altro lato, i cittadini «tedeschi» della Repubblica Democratica Tedesca dei «cittadini» ai sensi del § 7 cod. pen. R.F.T., e dunque ai sensi del principio di personalità attiva e passiva.
Ciò comporterebbe, praticamente, che tutti i reati commessi nel territorio della Repubblica Democratica Tedesca sarebbero punibili secondo i §§ 3-9, cod. pen. R.F.T., cioè ai sensi del diritto penale internazionale della Repubblica Federale Tedesca.
Questa interpretazione è in palese contrasto con il citato «Funktioneller Inlandsbegriff», ed è respinta sia dalla dottrina maggioritaria (v., ad es., Luederssen/GrünewaId), sia dalla giurisprudenza.
II.d. Mentre numerosi mèmbri delle guardie di frontiera sono stati processati e condannati per omicidio ai sensi dei §§ 212, 213, 2 cod. pen. BRD, 113, 213 cod. pen. DDR e art. 315 EGStGB-BRD, nei confronti di Honecker e degli altri mèmbri del Politbüro è stata mossa l'accusa di istigazione ad omicidio plurimo (commesso materialmente dalle guardie di frontiera) ai sensi dei suddetti paragrafi.
Com'è noto il processo a carico di Honecker ha trovato il suo esito nell'archiviazione, motivata dal suo stato di salute.
Questo evento è, ai fini dogmatici, di scarsa rilevanza, visto che con la suddetta sentenza, BGH 3 novembre 1992, 5 StR, 370/92, pronunciata nei confronti delle guardie di frontiera, i principi di diritto applicabili sono stati già enucleati.
Innanzitutto, appare opportuno ricordare che, in ordine a questa tematica, vi sono, per ora, in tutto tré sentenze ed un'ordinanza: due sentenze di I grado (Corte d'assise) nei confronti di diversi mèmbri delle truppe di frontiera, ed una sentenza della Corte suprema federale di cassazione; inoltre, un'ordinanza della Corte d'assise d'appello di Berlino in merito all'ordine di cattura nei confronti di Honecker.
Le suddette quattro decisioni hanno sostanzialmente in comune la constatazione che i delitti di cui sopra sono solamente punibili in base alla norma transitoria dell'art. 315, comma 1 e 3, EGStGB insieme al § 2, comma 3, del cod. pen. R.F.T., cosicché si applicherà, qualora sia più favorevole, il diritto penale della DDR vigente al momento del reato commesso.
Tutte le decisioni, in conformità con la ricordata dottrina maggioritaria, sono unanimi nel sottolineare che non si può applicare il diritto penale internazionale ai sensi dei §§ 3-9 cod. pen. R.F.T.
D'altro canto si può notare come, benché tutte le summenzionate decisioni giungono alla punibilità dei reati, esse differiscano notevolmente quanto alle motivazioni.
II.d.2. Allo scopo di una più agevole comprensione necessita esporre in modo sommario il complesso quadro normativo in merito.
Il § 113 cod. pen. della DDR disciplinava la punibilità dell'omicidio; il § 213 contemplava la punibilità del passaggio di frontiera, senza previa autorizzazione, che veniva considerato delitto.
Secondo il § 213, comma 3, n. 3, cod. pen. DDR, l'espatrio illegale, qualora commesso con «particolare intensità», configurava gli estremi di un crimine.
Il § 27 della legge sulla frontiera della DDR disciplinava l'impiego dell'arma da fuoco al fine di impedire l'espatrio.
Il § 27, comma 2 prevedeva che l'arma da fuoco potesse venire impiegata qualora un crimine stesse per essere immediatamente commesso, o nel caso di flagranza, nonché allo scopo di arrestare una persona gravemente indiziata di aver commesso un crimine di altro tipo.
Il § 27, comma 1 insieme al § 27, comma 5 concretizzava il principio di proporzionalità, permettendo l'uso dell'arma da fuoco solo come ultima ratio. Al comma 5 si specificava che, pur impiegandosi l'arma da fuoco, andava possibilmente risparmiata la vita.
In questo contesto va però aggiunto che alle guardie di frontiera veniva impartito l'ordine secondo il quale era preferibile «a tutti i costi» evitare che un cittadino della DDR fuggisse. A causa di quest'ordine, formulato in modo volutamente ambiguo, le guardie di frontiera, pur di evitare la fuga, erano tenute ad uccidere.
II § 95 del cod. pen. della DDR contemplava l'esclusione di cause di giustificazione nel caso in cui la legge, l'ordine, o la direttiva non fossero stati conformi ai diritti fondamentali, ai diritti umani e agli obblighi internazionali.
Ovviamente si è posta la questione se gli omicidi alla frontiera intratedesca fossero giustificati in virtù dell'esimente di cui al § 27 della legge sulla frontiera della D.D.R.
II.d.3. Il primo problema consiste in un'analisi del complesso normativo; il secondo, nell'esaminare se la prassi di Stato possa considerarsi conforme all'indicato principio di proporzionalità; il terzo consiste nell'accertare, ai sensi del diritto naturale, la nullità o meno delle norme della DDR costituenti cause di giustificazione.
a) La sentenza della Corte d'assise di Berlino 5 febbraio 1992 (518 2 JS 63/ KL -57/91-) sottolinea che il § 213, il quale criminalizzava il passaggio di frontiera illegale, in quanto non autorizzato, si pone in contrasto con i trattati internazionali, in special modo con il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, che essendo stato ratificato dalla DDR 1'8 novembre 1964, era entrato in vigore in virtù del diritto internazionale.
Secondo questa sentenza, il solo fatto che il § 213 fosse in conflitto con l'art. 12 del suddetto Patto non comporta automaticamente che fosse in contrasto con i principi di diritto generalmente riconosciuti e con i principi di umanità ai sensi del diritto di natura.
Questa pronuncia ammette che possa sussistere un conflitto con il «Kernbereich des Rechts», ovvero con il «nucleo centrale del diritto», e dunque con il concetto di giustizia.
Il suddetto «nucleo centrale del diritto» sarebbe riscontrabile in alcuni principi fondamentali, intangibili di diritto, riconosciuti da tutte le nazioni civili (da non confondersi con i princìpi fondamentali dell'ordinamento nazionale).
In questa sentenza si nega altresì che il diritto alla libertà di espatriare, ai sensi dell'art. 12, commi 1 e 3, del suddetto Patto, faccia parte di tali principi.
Ora il conflitto tra la giustizia, e la certezza del diritto, con particolare riferimento al principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta dell'art. 103, comma 2, della Costituzione tedesca, va risolto, secondo la Corte berlinese, in favore del principio di certezza del diritto.
Dunque, il § 213 non potrebbe essere ritenuto viziato da nullità, e, conseguentemente, sono anche da considerarsi valide le citate esimenti ai sensi della legge sulla frontiera.
La Corte addiviene poi al risultato che l'ordine di impedire l'espatrio anche a costo della vita, violava però il principio di proporzionalità, cosi come espresso dalle norme della DDR. La Corte giunge quindi alla condanna degli imputati.
b) Ben differenti sono le motivazioni della Corte d'assise di Berlino, 20 gennaio 1992, 523 2 S 48/90-9/91 (v. in NJ, 1992, 270). Anche in questo processo le guardie di frontiera erano imputate di omicidio plurimo commesso nei confronti dei fuggiaschi.
La Corte parte, in questo caso, dal presupposto che la normativa della DDR in merito all'espatrio non fosse ne conforme al diritto internazionale, ne ai principi generali di diritto, ne, tanto meno, al diritto di natura.
Rifacendosi ad alcune sentenze della Corte suprema federale di cassazione (BGH-St 2, 234, 237) e della Corte Costituzionale federale (BVerfGE 3, 232; 6, 199 e 25, 294), la suddetta Corte berlinese riconosce l'esistenza di un diritto naturale intangibile, negando ogni efficacia al diritto positivo, qualora con quest'ultimo contrastante.
La stessa Corte afferma, inoltre, che per. quanto concerne il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta, il principio dello Stato di diritto non comprende solamente il diritto alla tutela della certezza, ma anche il concetto di «giustizia sostanziale» («materielle Gerechtigkeit»).
Analoga argomentazione è stata sviluppata anche dalla Corte d'assise d'appello di Berlino nell'ordinanza in merito all'arresto di Honecker (v. in N/, 1992, 270).
II.d.4. Contro la predetta sentenza della Corte d'assise 5 febbraio 1992 è stato proposto ricorso in cassazione. Con sentenza 3 novembre 1992 la Corte Suprema ha cassato la decisione berlinese esattamente pochi giorni prima che si aprisse il procedimento penale nei confronti di Honecker (v. in Jus, 1992, 163). Tale contiguità temporale ha suscitato non poche perplessità.
La Corte ha ritenuto, in primo luogo, che, per quanto concerne l'immunità giudiziaria, ai sensi del diritto internazionale [par in parem non habet judicium) delle guardie di frontiera, la «act of State doctrine» non è riconosciuta come regola generale del diritto internazionale, ai sensi dell'art. 25 della Costituzione tedesca. Ha rilevato, inoltre, che gli imputati non godevano di alcuna immunità in virtù del diritto internazionale dato che la DDR era ormai da considerarsi estinta.
Facendo eco, poi, alla menzionata dottrina maggioritaria, la Corte non ha ammesso l'applicabilità del diritto penale internazionale della Repubblica Federale di Germania, e, per converso, ha ritenuto l'applicabilità, qualora più favorevole, del diritto penale vigente nell'ex DDR.
Ha ritenuto, inoltre, che il § 27 della legge sulla frontiera della DDR, cosí come interpretato e applicato dalla prassi di Stato, non desse base ad una valida causa di giustificazione, e, d'altro canto, che nel conflitto tra il bene giuridico del diritto alla vita e quello dell'integrità delle frontiere, la legge della DDR e la relativa prassi di Stato, intravedevano nell'impedimento dell'espatrio non autorizzato un interesse di rango superiore a quello della salvaguardia della vita, cosicché il comportamento degli imputati sarebbe stato, secondo quella prassi DDR, giustificato dalla norma del § 27 della legge sulla frontiera della DDR.
A proposito, poi, della questione se tale esimente potesse considerarsi nulla, in quanto concretante una violazione dei principi generali di diritto, la Corte ha espresso l'avviso che la nozione in discorso, cosi come interpretata ed applicata dalla prassi di Stato, giustificava l'omicidio di persone che null'altro desideravano all'infuori dell'espatrio, e giustificava dunque l'omicidio di persone indifese le quali non mettevano in pericolo alcun altro bene giuridico.
Tale esimente, peraltro, non poteva essere presa in considerazione, in quanto nulla.
La Corte ha specificato che tale tipo di nullità deve essere ammessa solo in casi estremi, e, inoltre, che una causa di giustificazione, considerata come tale al momento del commesso reato, può venire disapplicata unicamente nel caso in cui rappresenti una violazione delle norme di diritto di rango superiore, e più particolarmente dei principi di giustizia e di umanità.
Secondo la Corte, la violazione deve essere di tale entità da contrastare la opimo juris comune a tutti i popoli e a tutte le nazioni in merito al valore della dignità umana. In altri termini, il conflitto tra il diritto positivo e il concetto di giustizia deve essere talmente insopportabile da imporre l'esigenza che la legge positiva, in quanto norma di un diritto ingiusto ed erroneo sia soppressa, accantonata dalla giustizia.
I parametri sviluppati dalla Corte allo scopo di individuare i summenzionati particolarissimi contesti sono desumibili dai Patti e dalle convenzioni internazionali in tema di diritti umani, e cosi, più in particolare, dall'art. 12, del ricordato Patto dell'ONU: comma 2 «Ogni individuo è libero di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio» e comma 3, in forza del quale i suddetti diritti «non possono essere sottoposti ad alcuna restrizione tranne quelle che siano previste dalla legge, siano necessario per proteggere la sicurezza nazionale, l'ordine pubblico, la sanità o la moralità pubbliche, ovvero gli altrui diritti e libertà, e siano compatibili con gli altri diritti riconosciuti dal presente Patto».
Secondo la Corte, nella Repubblica Democratica Tedesca il diritto d'espatrio non era la regola, ma piuttosto l'eccezione, tenuto anche conto che non sussisteva alcun mezzo legale di impugnazione avverso il diniego del permesso di espatrio.
Nello stesso ordine di idee, la Corte, tra l'altro, rilevava che la frontiera era caratterizzata dal «muro di Berlino», dalle fortificazioni e dall'ordine di sparare a vista: un ordine che violava anche l'art. 6, comma 1, capoverso 3 del summenzionato Patto, il quale prevede che: «Nessuno può essere arbitrariamente privato della vita».
Le truppe di frontiera, secondo questa pronuncia, potevano dunque, anche in presenza degli artt. 6 e 12 del Patto qui in discorso, impiegare l'arma da fuoco, tranne che con dolo eventuale di omicidio. Inoltre, il § 27 della legge sulla frontiera della DDR avrebbe potuto dar base ad una valida causa di giustificazione solo nel caso in cui fosse stato interpretato in base al concetto di supremazia della vita sugli interessi statali.
Per la Corte, dunque, sia in considerazione dei principi del diritto di natura, sia in base ad una interpretazione conforme ai diritti umani della normativa vigente nell'estinta DDR, le guardie di frontiera hanno commesso fatti illeciti.
Quanto poi al problema se simile giurisprudenza possa violare l'art. 103, comma 2 della Costituzione tedesca, ossia il principio nullum crimen nulla poena sine lege scripta la Corte ha affermato che le cause di giustificazione sottostanno alla tutela costituzionale dell'irretroattività della legge penale, dato che la differenza tra fattispecie e causa di liceità è differenza di natura meramente tecnica.
Ha però disatteso l'opinione secondo cui non sarebbe possibile condannare colui che abbia agito in virtù di una causa di giustificazione, la quale fosse stata in contrasto con il diritto di natura («Überpositives Recht»).
Anche se la ratio del citato art. 103 consiste nella tutela della fiducia che l'individuo possa venire giudicato solamente in base al diritto vigente al momento del fatto, questa tutela però non sussiste nel caso in cui una norma penale fosse stata interpretata in modo non conforme ai diritti umani.
Secondo la Corte non è assolutamente arbitrario giudicare ora in base a criteri interpretativi i quali avrebbero dovuto essere stati sviluppati già all'epoca dell'ex DDR.
IIIIII.a. Questa sentenza della Corte suprema federale di cassazione, suscita, per alcuni aspetti, notevoli perplessità.
C'è da dire che, in primo luogo, viene praticamente ribaltata la giurisprudenza della medesima Corte in merito ai criteri di applicazione dell'uso dell'arma da fuoco da parte delle guardie di frontiera federali a scopo preventivo e repressivo, ai sensi del § 11 UZwG. Infatti anche la costante giurisprudenza di quella Corte prevedeva la liceità dell'omicidio di dolus eventualis, per lo meno ai sensi della «Wahrscheinlichkeitstheorie», al fine di impedire la fuga e l'espatrio non autorizzato dalla Repubblica Federale di Germania.
In secondo luogo, per quanto concerne il diritto all'espatrio, ai sensi del menzionato Patto internazionale, va ricordato che, per quanto auspicabile sia il diritto all'espatrio illimitato, sono pochissimi gli Stati che ufficialmente e secondo prassi lo riconoscano.
Inoltre va fatta la distinzione tra un'eventuale violazione dell'art. 12 del Patto internazionale, nel caso in cui fosse per legge ingiustamente impedito l'espatrio, e gli atti commessi per reprimere il suddetto «reato».
In effetti dal mero fatto che il diritto all'espatrio venisse impedito in violazione del diritto internazionale non si può desumere che gli atti commessi dalle guardie di frontiera fossero conscguentemente in violazione del diritto internazionale stesso, visto che il diritto all'espatrio, secondo l'art. 12 non giustificava che vi fosse anche il diritto all'espatrio illegale.
III.b. Con questa sentenza si è voluto deliberatamente riaffermare l'esistenza del «diritto di natura» [Cfr. E.M. ambrosetti, In margine alle c.d. sentenze el muro di Berlino: note sul problema del «diritto ingiusto», in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 596 ss.; in particolare, § 7.]
La Corte si riallaccia, in tal modo, a quelle celebri sentenze, sia della Corte costituzionale federale sia della medesima Corte di cassazione, emesse nei primi anni della Repubblica Federale di Germania, le quali, nell'intento di condannare i crimini perpetrati nel periodo nazionalsocialista, avevano sviluppato principi di diritto naturale.
Il più noto filosofo del diritto che enucleò i presupposti giuridico-filosofici per una rinascita del diritto naturale, denunciando i limiti assoluti di ogni visione puramente positivista, fu Gustav Radbruch, esponente principale, insieme ad Hans Kelsen, del « Südwestdeutscher Neu-Kantianismus».
Già nell'immediato dopoguerra, nell'articolo «Gesetzliches Unrecht und Überpositives Recht» Radbruch ebbe a scrivere: «II conflitto tra la giustizia e la certezza del diritto, dovrebbe essere risolto nel senso che il diritto positivo, il quale è assicurato dalla legge statuita e dal potere, ha priorità anche se è nel suo contenuto ingiusto ed inopportuno, a meno che la contraddizione con la giustizia non abbia raggiunto un limite talmente insostenibile, che la legge, in quanto diritto ingiusto, debba cedere il posto a favore della giustizia».
Prendendo atto di queste analisi giuridico-filosofiche, la Corte, nella sentenza BGH 2, 237, esprime la tesi che la libertà dello Stato di decidere ciò che sia diritto («Recht») e ciò che sia illecito («Unrecht») può essere considerata amplissima, ma non illimitata: « Nella coscienza dei popoli civili vi è sempre un certo nucleo ("Kern") di diritto, il quale, secondo l'opinione di diritto generale, non può essere violato da nessuna legge o misura d'autorità.
Esistono principi intangibili di comportamento umano, i quali si sono sviluppati presso tutti i popoli civili sulla base di visioni etiche fondamentali evolutesi nell'arco del tempo».
In seguito la Corte costituzionale federale, nella sentenza BVerfGE 3, 225, 232, mentre richiamava il nazionalsocialismo come creatore di diritto illegittimo esprimeva il concetto che l'atteggiamento filosofico del positivismo giuridico e del relativismo dei valori era già da lungo tempo superato nella dottrina e nella prassi e che, conseguentemente, essa Corte fonda la sua attività e il suo processo di identificazione delle norme, non solo sull'autorità derivante dalla Costituzione, ma anche sul concetto di diritto e sull'idea di diritto ("Rechtsbegriff" e "Rechtsidee") connaturata all'essenza della propria attività giurisprudenziale.
Nella sentenza della Corte costituzionale federale, BVerfGe 6, 198, 199, viene reiterato il principio secondo cui leggi pervase di ingiustizia non debbono essere accettate come valide, ossia come aventi valore di diritto.
Tutto ciò premesso, va però anche ricordato che anche un'attenta analisi delle succitate considerazioni non permette di definire con certezza quale concetto filosofico stia alla base del diritto di natura, cosi come individuato dalle corti tedesche, all'interno o all'esterno della disputa che vede differenziarsi due correnti di diritto naturale, la prima di ispirazione cristiana, la seconda di natura illuministica e razionalistica.
III.c. Il processo Honecker e i processi paralleli alle guardie di frontiera si prestano ad alcune considerazioni metagiuridiche e filosofiche.
La Corte poteva certamente addivenire ad una condanna delle guardie di frontiera solamente in base al diritto penale della DDR.
Questa soluzione giuridica è stata anche affermata in alternativa, ma meramente in via sussidiaria, al solo scopo tecnico di rendere impossibile un annullamento della sentenza a causa di un eventuale ricorso presso la Corte Costituzionale federale.
L'interesse della Corte di cassazione era sicuramente incentrato sull'enucleazione dei principi di diritto naturale e sulla loro applicazione ai crimini commessi da un regime comunista. Sebbene nella pronuncia venga specificata la differenza tra la dittatura nazionalsocialista e quella comunista, rifacendosi a Gustav Radbruch e alle sentenze sviluppate allo scopo di punire i crimini nazionalsocialisti, è stata volutamente sottolineata una certa affinità. Il denominatore comune è rappresentato dal disconoscere alle norme-simbolo, sia del regime nazista, sia di quello comunista, il carattere giuridico.
Ad ogni modo, sul piano giuridico-filosofico merita consenso il fatto che la Corte abbia ribadito i limiti del diritto positivo, avendo sottolineato che il solo imperio, la mera volontà e la pura validità dovuta a forza cogente non possono costituire diritto. Il diritto vigente deve, per non divenire arbitrio, riferirsi al concetto di giustizia, ossia all'idea di diritto sostanziale («Gerechtigkeit») o per lo meno all'idea di diritto («Rechtsidee»).
Il diritto positivo può solamente far derivare la sua autorità, la causa di validità, addirittura la sua validità, dal fatto di dare concretezza agli obblighi imposti dal concetto di giustizia, o per lo meno dall'intento di servire l'idea di giustizia.
Raoul Muhm
Rechtsreferendar
(Monaco di Baviera)
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