"LE QUATTRO MANI" dell'Uomo della Sindone

di
Aldo Alessiani

 

Il seguente rilevamento sulla Sindone, facendone emergere un doppio movimento dell'immagine in tempi necessariamente brevi, scopre la più antica fotografia "a posa" avvenuta con sostanze recettive ed attivissime "per contatto" diretto della immagine stessa sulla lastra impressionabile (nella specie, tela di lino) e non per lenta evaporazione di altri occasionali elementi chimici per finalità conservative o d'indole cadaverica.
Il tutto conduce alla specifica intenzionalità di produrre la detta immagine, sapendone la immancabile concretizzazione fino alla immediata correzione di involontari errori.
Resa altresì indiscutibile come, dopo infiniti studi della Sindone, con ipotesi e riscontri talvolta di pura fantasia, ed accertamenti creduti inattaccabili quali la produzione tridimensionale, che mai, prima d'oggi, una osservazione così clamorosa, sia stata fatta



La foto di centro pagina riproduce l'immagine "negativa" così come fece il 28/05/1898 l'avvocato S. Pia, dilettante fotografo che, non portandola a positiva (infatti è su fondo nero mentre la Sindone è su fondo bianco), si positivizzava automaticamente, essendo il preteso sudario anch'esso una negativa. Devesi interpretare specularmente (cioè la mano sinistra è in realtà la destra e viceversa).

L'osservazione trasporta implicitamente la venerata immagine totalmente al di fuori della cronologia evangelica per la incompatibilità con i fattori tanatologici (fenomeni cadaverici) considerabili, addirittura traslando di oltre 24 ore almeno, l'inumazione indicataci nel tramonto del venerdì pasquale.
La prima chiave è nel presupposto biblico (Deuterenomio 21:22-23) che ordina categoricamente il non protrarsi dell'appiccato (qui crocifisso) oltre la fine del giorno, perché in esecrazione a Dio e dunque il suo seppellimento.
Ora, appartenendo la morte del Cristo ad un venerdì che era Parasceve (ovvero 15 di Nizan che terminava dando adito al "Gran Giorno", sabato, doppiamente santo perché pasquale) l'appeso non rimosso avrebbe significato empietà ed anatema.
Il sopravvenire del giorno dopo, per gli ebrei coincideva con il tramonto (suddivisione egizia al contrario della assiro-babilonese); nella specie (tramonto) le 18.40 circa e quale "dodicesima ora" perché il giorno lo si divideva in 12 frazioni (la notte non era contabile) dall'alba.
Cristo subì il processo alla ora sesta (mezzogiorno) e spirò, sempre secondo i vangeli alla nona (ore 15). Restano ancora circa tre ore e quaranta minuti di luce per il compimento del venerdì.

Essendo già sera ed il sabato imminente (Matteo 27:57 - Marco 15:4 - Luca 23:54) Giuseppe d'Arimatea pretese da Pilato il nihil-obstat per il seppellimento nel suo sacello nuovo di fresco; si procedette alla unguentazione del corpo con cento libbre di mirra e aloe, more-judeorum, (Giovanni 19:38.39.40) ai fini imbalsamatorili.
Il resto, più o meno, lo sappiamo tutti.
Tuttavia emerge un fatto importante, subito: Pilato appare recalcitrante ad autorizzare perché gli si dice che il Cristo è morto alla ora nona: troppo presto per lui e se ne meraviglia (Marco in 15:44). Il decesso è stato troppo sollecito; lui, il Cristo, lo ha visto, ci ha parlato lungamente e, malgrado la flagellazione (di questa ne parleremo in seguito) ed il lungo corteo con il legno in carico, non è convinto sul letale evento.
Invia allora sul luogo dell'esecuzione il centurio-exactor perché con una "punta" (poi ritenuta lancia) esamini sul corpo una possibile superstite riflessività.
Non è dunque un colpo di grazia: anche il costato venne saggiato ma il Vangelo non dirà da quale parte (Giovani 19:34). Fu la passionalità emotiva dei fedeli presumerlo a sinistra con il trapasso del cuore; lo stesso vale per i chiodi, non descritti nella cronaca giovannea. Sono ammessi "per deduzione" per la incredulità di Tommaso. E' una fase posteriore tra la verità, ed il beneficio d'inventario, e la fede.

Cristo dunque restò sulla croce fino al tramonto quando a Pilato fu richiesto per disappenderlo; ora, ammessa la morte violenta già da diverse ore, il rigor-mortis doveva pervadere il corpo e possiamo rappresentarci l'appeso calato dalla croce a braccia aperte, così come nell'atteggiamento del supplizio.
Poiché certamente non lo si poteva trasportare in siffatte condizioni è diritto il pensare ad un forzamento sul posto degli arti superiori in adduzione sovrapubica. Una procedura difficile innanzitutto perché il rigor così vinto, essendo ancora nella fase iniziale, si ristabilisce sollecitamente nella nuova positura per poi raggiungere il suo acme (procede dai muscoli del capo verso l'estremo inferiore) quanto meno in sette ore.

Arriviamo al punto: la Sindone è un lungo rettangolo di lino (4 metri e 36 centimetri per 1 metro e 10) il corpo in essa rappresentato: 1 metro e 78 cm.: ripiegato alla sua metà (2 m. e 18) riprodurrà la intera parte di quello posteriormente intesa con il lembo sottostante e l'anteriore, con il superiore.
Ma il corpo della Sindone dovette essere trattato verosimilmente con sostanze (organiche o inorganiche?) ben diverse dalla mistura mirra-aloe evangelica la cui evaporazione, per esperienza sia pur primitiva, in ambiente chiuso e caldo, s'apprendeva al tessuto inizialmente in modo non visibile. Dopo congruo tempo, allontanato il corpo dal lenzuolo, si riportava quest'ultimo in completa estensione alla illuminazione solare intensa per molte ore ( la lente monoconvessa sconosciuta e concentrante la luce su lastra sensibile, viene così ovviata). Appare l'immagine, eppure sfocatissima sul lino che lasciandosi trasversare dalla luce è pur sempre una lastra pervasa da elementi che chimicamente dovevano necessariamente essere passibili di ossidazione all'aria e alla luce stessa.
Nessuna meraviglia: Aristotele aveva descritto anche la camera oscura che riproduceva l'immagine capovolta in luminosità circolare mediante una fessura quadrata.
Quali gli ingredienti ossidanti? Impossibile dirlo. Certo, per esempio, gli antichi erano sapienti nella salificazione dell'argento, nella evaporazione aromatica, nella reazione di cloruri e nitrati usando magari il bitume di Giudea purificato, gli acidi gastrici di un ruminante, le combinazioni con il rame ecc. Certo ne dovevano sapere moltissimo, fino alla scaltrezza.
Una cosa è indubbia: il lenzuolo non fu riverentemente e subito piegato come una reliquia così come dicono i Vangeli per il sudario del Cristo.
Lo si sapeva che il lenzuolo recava una immagine e che l'avrebbe mostrata.



Ed ecco come avvenne: il corpo è posto in un primo momento ed orizzontalmente sul lembo che gli è sottostante, mentre il superiore è aperto: si procede alla unguentazione chimica.
Sono diverse persone ad agire: almeno tre.
Lo si unge sul davanti per intero, poi si passa al dietro; ma per far questo lo si deve porre "di quarto" ovverosia su un fianco (il sinistro per esattezza, data la negativa del 1898).
Qui le mani che erano incrociate sul pube, per gravità scendono sulla coscia, restando abbastanza unite. La superiore è in flessione, ma anche l'altra che le è sottostante si pone in tale atteggiamento; solo il mignolo resterà in parziale estensione.
Si riadagia il corpo così trattato, supinamente, e lo si copre con il lembo libero. Ma....

Ma qualcuno dei presenti, il più perfezionista, s'accorge che con tutto il lenzuolo coprente la parte anteriore, trapela la figura nella sua difformità: le mani sono ancora di lato e tale anomalia può essere ragione di impreciso lavoro.
Un rimprovero per lo sbadato collaboratore o attenuanti generiche per lo sprovveduto apprendista. Un "lapsus": se si farà presto non si vedrà niente. Lo vedrà invece, dopo secoli, la sensibilità fotografica, ma non lo si poteva prevedere né immaginare.
Si ricopre il corpo e le cose, stavolta, le si fanno per bene.
Le mani si ritrasportano sul pube; anzi, quella inferiore, la si estende addirittura "a spatola" accostandone le dita.
Ecco dunque la seconda fase dell'immagine.
Tuttavia, tra l'accorgersi dell'errore e la correzione, non passò verosimilmente molto tempo; ma pur se breve, era stato sufficiente per impressionare l'immagine anomala delle mani "fuori posto" raffigurandone la fase: la prima fase.
Diventa così chiaro che l'azione chimica sul tessuto, qualsivoglia potesse essere, era stata bastevole per recepire l'impronta minore e più scarsa della definitiva (mani sovrapubiche) perché temporanea e con meno tempo a disposizione per inscriversi.
Una considerevole azione chimica, attivissima; tanto attiva da dover ricorrere al rimedio e presto.

Ora lasciamo il passo alla matematica applicata: usiamo un compasso il cui estremo fisso è sulla spalla destra (in una foto del corpo completo, certo), e l'altro, il mobile, sulla mano a "spatola"; ruotiamo ora verso l'impronta sulla coscia e rapportiamo in goniometro: Risultato: settore circolare perfetto di 38,5 gradi. Le quattro mani sono "toccate" dall'arco goniometrico.
Identiche altresì le lunghezze dei mignoli; tutte le dita appaiono inusitamente lunghe.
In stato di "rigor" è impensabile che le mani si sarebbero ruotate per quasi un quarto d'angolo piatto: la semplice gravità è stata sufficiente a far questo. Dunque "NON" rigor degli arti superiori dopo quasi quattro ore dalla morte.
Potrebbe anche essersi verificato il caso abnorme di assenza di rigor, ma l'immagine intera dell'uomo della Sindone rivela gli arti inferiori non a "canna di fucile da caccia" così come sarebbe stato maggiormente da attendersi perché come detto, la rigidità cadaverica procede dalla testa ai piedi. Non rigor sopra, ancor meno in basso.
Si vede invece l'opposto: la gamba destra è in flessione ed il suo piede è accollato e sottostante al sinistro, così come nelle raffigurazioni della crocifissione, unificati e sovrapposti per unico chiodo.
Qui i casi sono due: o la rigidità degli arti inferiori è solo abile regia "di posizione" tanto più che il cadavere necessariamente dovette essere preso per le ascelle ed i piedi in fase di deposizione, portando così meccanicamente in estensione le gambe, oppure, se essi erano in rigidità "già" immodificabile, molto di più dovevano esserlo gli arti superiori, rendendo impensabile una loro mobilità facile, spontanea, autonoma.
Resta solo una rigidità compiutasi nel tempo con un rilasciamento (anch'esso dalla testa ai piedi) sopravveniente e talmente avanzato da lasciare soltanto gli arti inferiori nel primo fenomeno, quello della rigidità cadaverica.
Ma allora i tempi evangelici diventano inapplicabili per la Sindone poiché l'immagine cadaverica, cronologicamente intesa nelle modificazioni della morte, viene scientificamente ad appartenere almeno 24 ore (calcolo per difetto) dopo la inumazione del tramonto del venerdì che non è più quello tradizionalmente ammesso e dopo il quale ogni manomissione della salma, in seguito, è esclusa nel racconto dei vangeli sinottici e apocrifi.

Si esagerò in questo abile artifizio? Anche questo.
Se contiamo ad esempio, i colpi della flagellazione che nella figura sono almeno 160 se non 200 addirittura, ed effettuati con "flagrum" (staffile) munito terminalmente di 2 sfere plumbee coassiali, ci sbalordisce come un essere umano abbia potuto sopravvivere a sì imponente politrauma simultaneo e bastevole a fiaccare un cavallo normanno.
Pilato aveva emesso due condanne in contemporaneità: flagellazione e crocifissione. Già la prima sarebbe stata una condanna capitale escludente una impensabile sopravvivenza per un immediato successivo supplizio con tutta la sequela di tanti altri traumi intermedi e sforzi sovrumani.
Eppure si meraviglia del decesso sollecito; lui, soldato, aduso a veder morire ed a uccidere in battaglia e repressioni, non può non avere una grossa esperienza in merito. Questa morte non gli è chiara.
Marco, Giovanni, Matteo, ci parlano della flagellazione ma non con quale metodologia ed intensità fu effettuata.
La legge ebraica (Deuteronomio 25:1.2.3) stabiliva tassativamente, non più di quaranta colpi (caso mai nel dubbio di conto errato: trentanove); Paolo di Tarso viene infatti fustigato ben cinque volte in occasioni differenti con trentanove colpi (Atti Apostoli 16:37 - 16:22 - 5:40). I romani se ne astennero quando rivendicò la sua cittadinanza non giudaica.
La normativa era molto rigida per Roma (XII Tavole - Legge Porcia 195 A.C. e Sempronia 123 A.C.) e improntata acciocché il supplizio non provocasse il decesso). Per il Cristo, il numero è taciuto nei sinottici; appare però nella versione greca del vangelo di Niccodemo (9:5 - 4:3) in cui Pilato applica la legge "dei suoi pii imperatori": 40 colpi con nervi di bue e bastoni. Tuttavia nella sindone i 160/200 colpi si vedono ed effettuati con il peggiore degli strumenti, quasi che altri non fossero abbastanza probativi per la pietà e commozione dei fedeli. Colpi tutti chiari, da contarsi, davanti, dietro, compresi i polpacci ed i talloni. Troppo.

Su tale stura, si vollero vedere anche gli scicli d'argento posti sulle palpebre del Cristo; è cosa recente.
Il loro conio? Manco a farlo apposta, quello di Pilato. Una moneta così leggera, avrebbe determinato una impronta indelebile.
Ma sul negativo fotografico le palpebre dell'uomo della Sindone appaiono chiarissime, chiuse; una moneta ad esse soprastante le avrebbe intercettate rendendole visivamente intramandabili.
Era usanza incostante dei romani, porre sugli occhi del morto due monete, quali viatico pagatore per il suo spirito nel viaggio per gli inferi.
Come possiamo pensare che tale particolare, così pagano e superstizioso, sarebbe stato ripetuto da ebrei anti- idolatri e da quei discepoli, supremi eredi di un messaggio antico e nuovo, così ripudiante una tradizione blasfema?
Sarebbe come mettere, nella bara di un Papa, un cornetto portafortuna; anche se lo si facesse, non ci crederemmo.

 

 

[Testo pubblicato su "La Regione Giornale di Roma e del Lazio", anno XXIV, n. 6, giugno 1991, p. 4-5]