I vari scioperi nella storia

di Elsa Dal Monego

 



Dobbiamo andare indietro di milenni per arrivare al primo sciopero generale. Secondo la mitologia politica romana
raccontataci da Tito Livio, Menenio Agrippa sarebbe riuscito a convincere i plebei, impegnati in uno sciopero rivoluzionario sul Monte Sacro (Aventino) con il noto apologo dello "stomaco" cioè si riferivano ai patrizi della Roma antica.
In origine si chiamavano patrizi i membri delle famiglie i cui capi erano senatori per l'ampiezza dei possedimenti fondiari e il diritto a essi riservato di essere eletti alle magistrature e ai sacerdozi che costituivano una casta chiusa divisa in genti,e gruppi di famiglie che ripetono la loro origine da un antenato comune il cui nome ha una posizione predominante nella città.
L'uguaglianza civile e politica tra patrizi e plebei fu da questi conseguita solo dopo due secoli V e IV avanti Cristo di lotta. Nella tarda Repubblica e durante l'impero furono detti furono detti patrizi i nati nobili.
Un nuovo patriziato creato da Costantino ebbe il carattere di nobiltà personale onorata e vitalizia Patrizi dei romani dignità che compare a Roma verso il secolo VIII e vi perdura fino al XII di origine imperiale, suo ufficio era quello di proteggere la chiesa romana.
Si dice che Menenio Agrippa racconta come erano scese in sciopero le mani, perchè stanche di lavorare per uno stomaco che a loro appariva un ozioso parasita. Però ben presto hanno capito che la colpa non era dello stomaco, ma bensi proprio di loro che si erano indebolite causa la loro protesta, che lasciavano senza nutrimento lo stomaco e anche tutto il corpo.
Secondo Menenio Agrippa la società è come un oranismo il cui buon funzionamento complessivo permette la sopravvivenza di tutte le sue parti, mentre se uno
dei suoi organi incrociasse per cosi dire, le braccia, non solo verebbe meno l'organismo ma anche la parte (mani) che avesse preteso di far valere il proprio interesse particolare contro quello della totalità.

Jacquerie e Ciompi

Già anni prima verso il 1321-28 i contadini si erano rifiutati di pagare al conte di Fiandra le imposte perchè erano troppo gravose ma nel maggio del 1358 esplose la rivolta, Il nome di jacquerie deriva dal termine Jacques Bonhomme, col quale i notaboli del tempo chiamavano sprezzantemente i contadini.
In seguito questo termine significava ribelle, per questo la jacquerie significava rivolta brutale delle masse opresse.
I contadini si ribellarono perchè tra l'altro covavano un forte disprezzo nei confronti dei nobili che non erano riusciti a vincere la guerra contro gli inglesi. E volevano togliere alla nobiltà i privilegi e far governare anche la borghesia.
Il 28 maggio 1358 a Saint Leu lungo il corpo dell'Oise, furono uccise diciotto persone.
Dopo aver condiviso le idee dei contadini, Etienne Marcel un mercante borghese che diventò cosi famoso e potente, che volle persino imporre al Delfino delle riforme che limitassero i poteri della stessa monarchia. Carlo II di Navarra detto il malvagio che fu liberato apposta dalle prigioni dal movimento borghese di Parigi riuscì a catturare il 9 giugno 1358 il capo dei jacques, Guglielmo Cale, e a vincere a Clermont. Anche Marcel venne ucciso a Parigi.

I Ciompi

Questi operai che cardavano la lana, erano lavoratori salariati e appartenevano ad uno dei scalini più bassi della scala sociale,Non godevano di nessuna rappresentanza politica e venivano pagati in quantità appena utile alla sopravvivenza. avevano come luogo di ritrovo la chiesa di Santa Maria dei Battilani in via delle Ruote.

La rivolta


Fu una rivolta popolare che avenne a Firenze tra il giugno e l'agosto del 1378. Si tratta di uno dei primi esempi di sollevazione per scopi economico-politici della storia europea.
Il 24 giugno del 1378 stanchi dei soprusi dell'oligarchia essi con una somossa occuparono il Palazzo dei Priori chiedendo il diritto di associazione e la partecipazione alla vita pubblica. Per l'inaspettata loro reazione, la pretesta ebbe buon esito.
Anche se solo di breve duratariuscirono ad eleggere come gonfaloniere di giustizia una specie di capo di governo il loro leader Michele di Lando.
Michele di Lando non è stato un abile uomo politico, il malcontento contro la sua figura aumentò in poche settimane specialmente quando venne chiesta e non concessa la cancellazione del debito verso i datori di lavoro. Fu allora che i rappresentanti della vecchia eligarchia fecero cerchio per isolare il prestito pubblico dei Ciompi.
Ormai anche abbandonata dallo stesso Michele di Lando.
La rivolta dei Ciompi ebbe inizio il 20 luglio 1378 al suono delle campane delle chiese. Si armarono e bruciarono la casa del Gonfaloniere di Giustizia, esportandone il drappo otennero la liberazione dei tre detenuti e il giorno dopo assaltarono il Palazzo del Podestà dando un duro ultimatum alle Istituzioni cittadine, dettando secche condizioni: abolizione del Giudice straniero dell'Arte della lana; crezione di tre nuovi Corporazioni dei Mestieri; concessione al popolo della quarta parte delle cariche pubbliche compreso il Gonfalonierato di Giustizia; sospensione per un biennio dei giudizi per debiti inferiori ai cinquanta fiorini; limitazione del potere dei Capitani. Il 22 luglio mentre l'assise comunale si accingeva a pronunciarsi sulle richieste, i Ciompi ordinarono alla Signoria di abbandonare il palazzo, Benedetto Alberti e Tommaso Strozzi costrinsero i Priori ad uscire minacciando in caso di resistenza, il massacro delle loro famiglie.
Il 24 luglio i neoeletti occuparono gli uffici e garantirono l'allontanamento di tutti i vecchi rancori.
Convinti del buon esito della rivoluzione e del miglioramento delle loro condizioni economiche e politiche i Ciompi si ritrovarono, invece senza lavoro e reddito, a causa dei tumulti, le fabbriche erano state chiuse.
Il 31 agosto al Gonfaloniere Michele di Lando fu rinfacciato il disinteresse per le difficoltà economiche di quanti lo avevano eletto e gli fu duramente imposto di dimettersi. Irritato da tanta arroganza egli pose mano alla spada e fece arrestare i ribelli. Munito dell'insegna scese in piazza e raccolta una schiera di armati al grido di "libertà" agredì i dispersi. I Ciompi che sconfitti dal loro stessoreperente persero tutte le posizioni conquistate.
La rivoluzione era sostanzialmente fallita. E come scrisse Filippo Villani "I Ciompi se ne andarono, si come gente rotta et senza capo et sentimento, perchè si fidavano et furono traditi dai loro medesimi..."
Mentre la dominazione del popolo grasso allieato col popolo minuto era di fatto restaurata.
La persecuzione dello sciopero fu condotta con strumenti legislativi che lo identificavano come un reato di cospirazione tanto in Gran Bretagna (Combination Acts dal 1799 al 1824) quando in Francia dove la legge De Chapelier del 1791 fu in tal senso recepita dal codice napoleonico. Dove in Gran Bretagna agli inizi del secolo si verificarono forme di lotta che comprendevano anche la distruzione delle macchine, il diritto di coalizione dei lavoratori a seguito di lotte generalizzate fu riconosciuto nel 1859 che iniziarono con uno sciopero di nove mesi degli edili. Nel 1867 il Master and Servant Act pena del carcere per la deroga ai patti di lavoro mediante sciopero.
In Francia il movimento degli scioperi accompagnò le lotte contro il regime della Restaurazione; ma una fase nuova di conflittualità si aprì con il trionfo della borghesia liberale nella rivoluzione di luglio del 1830. Alle rivolte degli operai della seta di Lione negli anni trenta seguirono lotte molto intense tra il 1844 e il 1848 dopo l'instaurazione del Secondo impero la risi economica del 1857 provocò una serie di agitazioni che si prolungarono fino al 1862. Come conseguenza nel 1864 fu riconosciuto per legge il diritto di coalizione per il mantenimento dei livelli salariali. I momenti di maggiore conflitualità successivamente coincisero con gli scioperi dei minatori del 1869 e del 1886 per aumenti salariali e la riduzione della giornata di lavoro. Nel corso di queste lotte il comportamento delle autorità fu duramente repressivo con il ricorso all'esercito per piegare gli scioperanti.
In Francia come in genere in tutti gli stati il diritto del lavoro non sembrava esistere.
Il controllo della mano d'opera permaneva molto forte attraverso strumenti come il libretto di lavoro che doveva garantire l'affidabilità del lavoratore. Anche la legge Waldeck-Rousseau del 1884 in Francia non riconosceva il diritto di sciopero ma si limitava a sostituire il delitto di coalizione con una tutela sul piano penale non su quello civile.
Gli anni trenta dell'ottocento negli stati tedeschi furono punteggiati da rivolte contadine. Con lo sciopero dei tipogrqafi di Lipsia (1838) e le lotte dei tessitori della Slesia il problema degli scioperi operai si impose all'attenzione dei governanti e nel 1845 una "legge industriale" sanzionò il divieto di sciopero e di coalizione solo dopo oltre vent'anni nel 1869 un'ordinanza industriale riconobbe con la libertà drl commercio e dell'industria anche il diritto di sciopero. Negli Stati Uniti gli scioperi e le prime organizzazioni sindacali nelle città della costa orientale (New York, Baltimora, Filadelfia, e Boston comparvero nella prima metà del secolo. Nel 1844 a Boston fu avanzata per la prima volta la rivendicazione della giornata lavorativa di otto ore. Nella seconda metà dell'Ottocento e nel primo quindicennio del Novecento gli scioperi e l'attività rivendicativa si intensificarono in tutti i paesi industriali, benchè nessuno di essi riconoscesse espressamente sul piano normativo la libertà di sciopero ad eccezione del Canada. Un significato particolare in questo contesto assunse la riccorenza del Primo maggio, festa dei lavoratori per la prima volta proclamata nel 1890 in cui l'astensione generalizzata dal lavoro ebbe internazionale dimensione.



ARMA SOCIALE E POLITICA
. Alla fine dell'Ottocento prese piede in Francia l'idea dello sciopero generale sostenuta da A. Briand e F. Pelloutier nel 1892-1893 (vedi sindacalismo rivoluzionario) e adottata come strumento di lotta dal congresso di Amiens della Cgt nel 1906. Praticato dal movimento operaio in diversi paesi, avrebbe dovuto avere la sua più completa applicazione di fronte allo scoppio del conflitto mondiale, ma abortì nella crisi della seconda Internazionale. L'entrata dell'Italia nel processo di industrializzazione fu accompagnata da una mobilitazione proletaria che si sviluppò non solo nei centri manifatturieri, ma anche nelle campagne (scioperi agricoli della valle padana nel 1884, degli edili nel 1887 e operai del 1888; sciopero dei metallurgici nel 1891, Fasci siciliani nel 1889-1894). Dal 1889 il codice Zanardelli affermò la non punibilità dello sciopero pacifico quale strumento normale delle lotte nel mondo del lavoro. Con il nuovo secolo la dinamica degli scioperi si intensificò (lotte bracciantili del 1902-1904), culminando nello sciopero generale del 1904. Nel 1911 lo sciopero generale politico fu adottato dal Partito socialista come estremo mezzo di lotta contro la guerra italo-turca (1911). Anche in Italia fallì tuttavia lo sciopero glavoro. Tra gli scioperi organizzati dai sindacati assunsero maggiore peso, nel quadro di una funzione sostanzialmente riconosciuta, quelli indirizzati ai poteri pubblici perché intervenissero con decisioni favorevoli ai lavoratori e quelli dimostrativi o simbolici: così gli scioperi promossi, soprattutto nel periodo più acuto della guerra fredda (1947-1960) in Italia e in Francia, dalle organizzazioni di ispirazione socialcomunista, che unirono rivendicazioni politiche a quelle di stampo economico-normativo. A ciò corrispondeva però l'atteggiamento tenuto dai sindacati per frenare le rivendicazioni dei lavoratori al fine di sostenere un governo amico (come avvenne nei confronti del governo laburista in Inghilterra tra il 1945 e il 1951: austerity). Una frattura di notevole rilevanza fu costituita dal ciclo di lotte 1968-1974 che toccò, pur in misura differente, tutti i paesi industrializzati e che fece emergere necessità e richieste di componenti spesso neglette dalle politiche sia dei sindacati sia delle organizzazioni politiche e delle istituzioni. Quell'ondata di scioperi mise in luce esigenze di nuovi rapporti di rappresentanza e di democrazia in fabbrica. Negli stessi anni emersero, accanto ai tradizionali protagonisti operai, anche nuovi soggetti del conflitto di lavoro: gli addetti del terziario e soprattutto della pubblica amministrazione e dei servizi. Ciò complicò il quadro degli scioperi nelle società industriali avanzate, in quanto si verificò una terziarizzazione del conflitto anche nel senso che gli addetti al terziario chiamavano in causa, come destinatari del danno dello sciopero, non i detentori del potere (economico o politico), ma gli utenti dei pubblici servizi. Questa nuova realtà apriva complessi e delicati problemi in merito alla regolamentazione e alla gestione dello sciopero nei paesi industriali avanzati.

La repubblica delle camicie nere contro la guerra mondiale, nel corso della quale prevalse l'atteggiamento repressivo delle autorità come in tutti gli stati europei. Ciò non impedì in realtà diversi episodi di rifiuto del lavoro (in Italia, scioperi di Torino del 1917), ma essi vennero tacitati anche per l'atteggiamento collaborazionista della maggioranza dei sindacati. Alla fine della guerra la spinta rivoluzionaria proveniente sia dalle tensioni accumulate sia dalla rivoluzione d'ottobre esplose in una ripresa acutissima della conflittualità sociale: in Gran Bretagna la frequenza degli scioperi fu rilevante fino al 1924 e toccò il suo punto più alto nello sciopero generale del 1926, il Great Strike, di solidarietà con i minatori, fronteggiato e contenuto con abilità dal governo, che ne uscì vincitore. Due anni più tardi poté così essere approvato il Trade Disputes Act che vietava gli scioperi di solidarietà, abolito solo nel 1945 dal governo laburista. Gli scioperi di stampo politico del primo biennio postbellico lasciarono il posto a una fitta conflittualità negli anni venti e, ancor più, dopo la crisi del 1929. In Italia dal 1925 e in Germania dopo il 1933 lo sciopero fu messo fuori legge dai regimi fascisti, mentre in Francia l'avvento del Fronte popolare (1936) fu sostenuto e accompagnato da una grande mobilitazione operaia che portò anche al riconoscimento della contrattazione collettiva (accordi di palazzo Matignon); negli Stati uniti il New Deal incentivò le rivendicazioni collettive. Dopo la seconda guerra mondiale lo sciopero assunse, nelle società industriali avanzate, due forme: le agitazioni promosse dalle organizzazioni sindacali riconosciute su temi contrattuali, occupazionali, dei diritti del lavoratore; e quelle nascenti da esigenze di gruppi più o meno estesi sul posto di lavoro.

Tra gli scioperi organizzati dai sindacati assunsero maggiore peso, nel quadro di una funzione sostanzialmente riconosciuta, quelli indirizzati ai poteri pubblici perché intervenissero con decisioni favorevoli ai lavoratori e quelli dimostrativi o simbolici: così gli scioperi promossi, soprattutto nel periodo più acuto della guerra fredda (1947-1960) in Italia e in Francia, dalle organizzazioni di ispirazione socialcomunista, che unirono rivendicazioni politiche a quelle di stampo economico-normativo. A ciò corrispondeva però l'atteggiamento tenuto dai sindacati per frenare le rivendicazioni dei lavoratori al fine di sostenere un governo amico (come avvenne nei confronti del governo laburista in Inghilterra tra il 1945 e il 1951: austerity. Una frattura di notevole rilevanza fu costituita dal ciclo di lotte 1968-1974 che toccò, pur in misura differente, tutti i paesi industrializzati e che fece emergere necessità e richieste di componenti spesso neglette dalle politiche sia dei sindacati sia delle organizzazioni politiche e delle istituzioni. Quell'ondata di scioperi mise in luce esigenze di nuovi rapporti di rappresentanza e di democrazia in fabbrica.

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Gli anni che precedono la prima guerra mondiale sono anni burrascosi dal punto di vista dell'assetto sociale e politico dello stato nazionale. Sono anni di lotte sociali e di scioperi, primo fra tutti il grande sciopero generale del 1904, sotto il governo Giolitti.
Sono stati i due grossi stabilimenti Coduri a Ponte Zanano e Mylius a Cogozzo a Sarezzo attorno ai quali si concentrava lo scontro tra operai e industriali in questi anni. Nonostante quest'ultimo si trovasse in un altro comune era però di grande importanza per Sarezzo, che vi convogliava gran parte della manodopera. Le cronache dei giornali locali, non a caso, quando riferiscono di avvenimenti riguardanti la Mylius provengono per lo più dal nostro comune. Buona parte dell'organizzazione sindacale all'interno della fabbrica era nelle mani dell'Unione Cattolica del Lavoro, che aveva a Sarezzo una rappresentanza cospicua. Una parte esigua della manodopera era invece riunita nella Lega socialista. In giugno del 1906 si stiene il primo sciopero del Novecento alla Mylius. Era la richiesta di un aumento di un aumento dei salari (aumento delle tariffe) come si chiamava allora, che avrebbero dovuto essere pareggiati ai salari di altri stabilimenti simili come era stato stabilito dal collegio dei Probiviri (l'organo che si occupava delle controversie interne alle fabbriche, composto da persone che non facevano parte direttamente di queste ultime, rappresentanti in modo paritetico operai e industriali).
Il 19 giugno il rappresentante del "Cittadino di Brescia" scrive che "dopo parecchi scioperi parziali per ottenere aumenti (in parte ottenuti), ieri mattina 20 filatori si presentavano al direttore, ingegner Beltrami, per chiedere un aumento del 5% sulle paghe in corso, minacciando in caso di rifiuto, l'abbandono del lavoro e preannunziando la solidarietà degli attaccafili. Il Direttore, certo per istruzioni del proprietario, chiuse lo stabilimento senza però licenziare gli 800 operai. Sono in corso le pratiche per risolvere la grave vertenza. Gli operai sono calmissimi". Anche in queste occasioni come è normale, ogni giornale locale sosteneva l'una o l'altra parte politica e le prese di posizione di questo o quello schieramento. In particolare il Cittadino, di area cattolica, era generalmente favorevole ad un atteggiamento piuttosto conciliante negli scontri, mentre la Provincia, di area liberal-zanardelliana, era su posizioni più decise, se non altro per contrastare la posizione dei cattolici, che come abbiamo detto avevano qui una forte rappresentanza.
Intanto, i delegati della Camera del Lavoro di Brescia, Mangano e Uberti, il 20 giugno scrivono al sindaco di Sarezzo chiedendogli che comunichi alla Mylius in risposta a quanto contenuto in un manifesto della Direzione esposto all'ingresso dello stabilimento, le controproposte degli operai, che avrebbero ripreso il lavoro a certe condizioni e cioé l'aumento di 10 centesimi al giorno ai 20 operai filatori, l'aumento del 29% giornaliero per le operaie addette ai "rings" (un tipo di filatoio ad anelli), l'aumento del 5% ogni 100 punti alle operaie addette ai banchi e agli stiratoi, l'adeguamento all'orario di 9 ore giornaliere per tutte le categorie e infine l'opposizione netta alla minaccia di licenziamento degli operai se lo sciopero fosse proseguito. Ancora il giorno successivo i due rappresentanti della C. d. L. rinnovano al sindaco l'invito a presentare tali proposte e confidano che, consideratane la ragionevolezza, "Ella, che già si è prestata per la pacifica e legale soluzione della vertenza, anche ora farà opera buona onde ottenere un buon risultato". Quel giorno stesso quando lo sciopero stava per volgere al termine il corrispondente del Cittadino scrive che "da qualche malintenzionato per dar maggior esca all'eccitazione degli animi dei lavoratori della Mylius si fece correre voce che nello Stabilimento Coduri di Ponte Zanano si lavorasse per conto del Mylius stesso a disimpegnargli gli ordini più pressanti al quale scopo due carichi di materia sarebbero stati spediti da Cogozzo durante la notte". La notizia fu verificata e, almeno a quanto pare, risultò falsa e costruita ad arte proprio per "eccitare gli animi" degli scioperanti.
Il corrispondente del Cittadino Il 22 giugno scrive "Ci viene riferito che oggi alle 13, per disposto della direzione, lo Stabilimento Mylius di Cogozzo, chiuso lunedi 18 in conseguenza a nuova richiesta di aumento avanzata da una ventina di filatori verrà riaperto con la ripresa di tutti gli operai alle stesse condizioni di orario e di mercede vigenti prima di quest'ultimo movimento. La stessa direzione ha comunicato che quegli operai che entro lunedi non riprenderanno il loro posto, dovranno ritenersi licenziati" Lo sciopero purtroppo non ha ottenuto niente. Tutto sommato il lavoro non doveva però scarseggiare, nonostante le lamentele degli industriali, se l'anno successivo si inaugura, con grande partecipazione di popolo, autorità, banda musicale, la posa della prima pietra di un nuovo stabilimento della ditta Mylius, sulla quale il piccolo Enrico Mylius, figlio del cav. Giorgio, sparge simbolicamente cemento con una cazzuola d'argento.
Il 27 di questo mese si legge sul Cittadino: "Nello stabilimento ove lavorano circa 800 operai con l'orario di 9 h., apparve il 12 corr. un manifesto in termini piuttosto contraddittori in cui si diceva che per la crisi dei cotoni e per l'impossibilità di reperire in Valtrompia la manodopera necessaria per aprire un nuovo stabilimento, la Ditta era costretta a portare le ore di lavoro ad 11 riducendo nello stesso tempo le mercedi al livello di 3 anni fa. Gli operai si sono mostrati molto disponibili nel trattare con la direzione concedendo 1 ora in più, ma la ditta si é mostrata irremovibile. Da qui lo sciopero. Gli operai sono assistiti dall'Unione Cattolica del Lavoro". Per fugare alcuni dubbi espressi anche su altri giornali locali, Il 30 giugno il Cittadino ritiene opportuno, riportare integralmente il testo del manifesto affisso il giorno 12 dalla direzione della Mylius. Oltre a quanto già detto vi si specifica che la direzione riteneva necessario sostituire ai due turni di lavoro un turno unico. L'orario era quindi così stabilito: "Entrata ore 6 - uscita ore 12 - Entrata ore 13.30 - uscita ore 18.30". Si aggiungeva, magnanimamente, che "il licenziamento attuale non toglie agli operai che verranno riassunti il diritto di computo degli anni di servizio". Gli operai che non si fossero presentati a queste condizioni potevano "ritirare la quindicina il libretto paga e il benservito il giorno 30 giugno".
In questo periodo si richiamano a Cogozzo parecchi carabinieri e, in seguito anche ad alcuni fatti, successi come l'ingresso nella fabbrica di alcune donne, che volevano controllare se qualcuno lavorasse nonostante lo sciopero (peraltro subito bloccate e malmenate dai carabinieri), e la rottura di vetri dello stabilimento nuovo e si dice che si sono fatti accorrere addirittura 200 bersaglieri forse chiamati per sostituire i lavoratori in sciopero In questo clima teso non mancano gli scontri tra operai e tutori dell'ordine, con conseguenti arresti e anche alcuni scontri, almeno verbali, tra gli stessi lavoratori. Comunque lo sciopero prosegue e il corrispondente del Cittadino il primo luglio non perde l'occasione per polemizzare con il giornale avversario e scrive che la Provincia, "per non parlare d'altro oggi parla di canzoni oscene che vanno cantando gli scioperanti" e aggiunge: "Ammetterò volentieri che le canzoni che si cantano - tutte ricamate sull'argomento dello sciopero - sono una specie di attentato alla grammatica, alla sintassi e alle regole della metrica: ma le oscenità non esistono che nella fantasia della Provincia". Pare comunque che nello stesso giorno la vertenza sia risolta "mercè l'intervento dell'on. Longinotti rappresentante dei cattolici, segretario delle Unioni del Lavoro, venuto espressamente da Roma" e "giunto in paese colla seconda corsa d'oggi". invece la Provincia si scaglierà proprio contro l'on. Longinotti accusandolo di aver convinto gli operai a tornare al lavoro senza effettivi risultati. Infatti, ancora una volta, lo sciopero non ha portato ai lavoratori i vantaggi sperati e molti operai sono costretti a trovare lavoro presso altre ditte.
Lo sciopero ebbe ancora strascichi, fu ripreso alcuni giorni dopo, lo stabilimento fu nuovamente chiuso e il lavoro riprese solo in agosto.

 

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Un altro importante sciopero fu quello delle FILATRICI ALLA DI PONTE ZANANO

All'inizio del 1893 lo stabilimento "Fermo Coduri" da Milano si trasferì a Ponte Zanano.
Questa organizzazione fu fondata da Fermo Coduri a Milano nel 1884. Fermo Coduri che è stato un personaggio molto importante perchè fino al 1850 fece parte della spedizione a fianco di Giuseppe Garibaldi a Bezzecca nel 1866.
Certamente in quel periodo la sua fabrica fu una delle più importanti nel mondo per la la filatura di seta in Italia, che fu anche nota con il nome di "burette" che vuol dire cascame di cascame perchè proveniva dalle prime filature.
La "Fermo Coduri" comperava la seta in Cina e Giappone e, dopo la lavorazione nel proprio stabilimento, il prodotto finito (filati per la fabbricazione di nastri, tappeti, panneggi ecc.) veniva venduto in tutta Europa, specialmente in Turchia e Germania. La fabbrica potè disporre già dal 1893 di una notevole manovalanza. Accanto agli operai esperti trasferiti da Milano, che assunsero la qualifica di caporeparto, si aggiunsero nuove assunzioni per lo più di donne e ragazze provenienti dai paesi vicini. La possibilità di trovare un'occupazione permanente richiamò infatti a Ponte Zanano molte famiglie che giunsero dall'Alta Valle e dal lago d'Iseo. E così nel 1871 il censimento della popolazione, che aveva registrato a Ponte Zanano la presenza di 254 abitanti, nel 1901 registrò un incremento notevolissimo pari quasi al 100%, con gli abitanti che divennero 511. Nella finlanda secondo le testimonianze di quell'epoca si imponeva la figura della "maestra delle filatrici" che con le operaie aveva atteggiamenti ineducati, inoltre i capi officina e gli assistenti impedivano alle operaie di recarsi ad una vicina fontana costringendole, quando avevano sete, a bere l'acqua del Mella. L'esigenza di aumentare il profitto spinse il padrone a risparmiare sui costi per la sicurezza dell'ambiente così alla "Coduri" si lavorava in laboratori, nei quali bastava rimanere pochi minuti per imbiancarsi di polvere e sentirsi soffocare per l'assenza di aria pura.
In un articolo del 23/9/1893-Il settimanale "Il lavoratore bresciano" descrive così la situazione lavorativa di queste operaie nelle fabbriche per la lavorazione della seta: "le filatrici costrette a lavorare dalle 14 alle 16 ore al giorno, con una ricompensa massima di £. 1,10 (comprensiva del diritto al nutrimento, che viene commisurato in ragione di 30 centesimi di lire al giorno). Trenta centesimi al giorno per sostentare delle infelici che si logorano i nervi e lo stomaco in un lavoro bestiale di 14 o 15 ore al giorno, mentre certi signori, sbadiglianti d'inerzia, su per i caffè o nelle loro sale dorate e certe nevrotiche signore che non trovano mai vivande abbastanza squisite per la delicatezza del loro palato spendono fino a 10 lire e più per una colazione. Al vederle queste poverine, in gran parte pallide, anemiche, sintetizzanti tutto ciò che vi è di più infelice, di più straziante nella vita, destano sensi di dolore e di raccrapiccio anche nei cuori più induriti e fanno imprecare al barbaro sistema di sfruttamento che le opprime e che non cesserà che relativamente con la diminuizione di due ore di lavoro ch'esse insistentemente chiedono".
Fu cosi che il 13/9/1893 nelle filature di Iseo le filatrici proclamarono il primo sciopero per la riduzione dell'orario di lavoro giornaliero da 14 ore a 12 ore al giorno.
In data 16/9/1893 "Il lavoratore bresciano" riporta: "finalmente la corda troppo tesa si è spezzata; la classe lavoratrice, rappresentata questa volta da ben trecento operaie filatrici ha dato un'altra prova che è stanca di sopportare il giogo che la borghesia le ha posto al collo. Le filatrici scioperanti hanno chiesto la riduzione del loro lavoro a dodici ore. Sui giornali non si fa alcun cenno di questo sciopero scoppiato proprio nella rocca Zanardelliana, ma già si sa: essi parlano delle vicende di Iseo quando si tratta di banchettare in onore del suo padrone o di fare la claque ai discorsoni dello stesso emessi fra le fumanti pietanze ed i ricolmi calici". Ben presto lo sciopero si allargò alle filande di Brescia ed anche la fabbrica di Ponte Zanano ne fu coinvolta: verso la metà di ottobre anche le filatrici di Ponte Zanano aderirono allo sciopero con sospensioni a singhiozzo dall'attività produttiva che durarono per tre giorni.
Accompagnate dai Rappresentanti della Camera del Lavoro "Le filatrici scioperanti sono rientrate ai propri stabilimenti cessando immediatamente lo sciopero, per effetto dell'accomodamento dei proprietari delle filande che finalmente accordarono le dodici ore giornaliere" così riporta "Il lavoratore bresciano" a conclusione della vicenda rivendicativa. I dipendenti della "Fermo Coduri" che in occasione dei primi tumulti erano una cinquantina, nel 1898 diventarono circa 210 e nel 1904 divennero oltre trecento.. Nel 1895 la fabbrica veniva premiata dalla fondazione Brambilla nel concorso bandito dall'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. Nel 1904 alla "Coduri" fu assegnata la medaglia d'oro della Esposizione Bresciana "per il rapido sviluppo conseguito dall'azienda in pochi anni d'attività".
Nel 1904 alla "Coduri" fu assegnata la medaglia d'oro della Esposizione Bresciana "per il rapido sviluppo conseguito dall'azienda in pochi anni d'attività".Lo stabilimento coordinato ad altre aziende prese il nome sociale di "Filature Bourrettes Riunite" di cui fu gerente lo stesso Coduri. Più tardi dopo la morte di Fermo Coduri avvenuta a Milano il 1 aprile 1907, lo stabilimento passò a Luigi Rivetti. Anche in seguito nella fabbrica non cessarono comunque le rivendicazioni salariali e le richieste di maggiori garanzie igieniche sui luoghi di lavoro, anzi la fabbrica per molti versi anticipò le vicende sindacali nazionali. In Valle Trompia esistevano in quel tempo due grosse fabbriche tessili, appunto la Coduri e la Milyus (a Villa Carcina), nelle quali prevaleva nettamente una manodopera femminile e minorile.
Se però alla Mylius non ci fu traccia di conflittualità operaia, alla Coduri prese forma una certa autonomia operaia che si espresse sia con gli scioperi, e la lotta sia nella costituzione di una lega di resistenza. Questo sentimento fu certamente favorito dalla vicinanza di Ponte Zanano a Gardone Val Trompia dove già esistevano dei gruppi sindacali ben organizzati. A Ponte Zanano si verificarono due grosse astensioni dal lavoro, la prima nel 1901 che precedette e probabilmente determinò i grandi scioperi nazionali dell'autunno di quell'anno.
"Brescia nuova" in data 27/7/1901 riporta: "il 9 luglio alla Fermo Coduri scendono in lotta quasi 300 tessitrici per chiedere aumenti salariali. L'astensione dura fino alle 13, quando vengono accolte le richieste, dopo l'intervento di un arbitrato composto da 3 probiviri operai e 3 industriali, 1 rappresentante della Ditta , 1 rappresentante operaio ed un rappresentante della Camera del Lavoro. La seconda si verifica nel 1903 e sempre "Brescia Nuova" scrive "In luglio le operaie inviano un memoriale "per modifica dell'orario e aumenti salariali". Di fronte al diniego padronale lo sciopero è indetto nei primi giorni di agosto e dura fino al 12 con l'accoglimento parziale delle richieste operaie. Sono anche attivi gli organizzatori socialisti che tengono conferenze davanti ai cancelli della fabbrica".
Circa tre mesi dopo, sull'onda dello sciopero di Ponte Zanano alla "Fermo Coduri", Il 9 ottobre del 1901, la federazione sindacale dei tessili appena nata il 28 aprile di quell'anno, organizzò il primo sciopero regionale della categoria. Ed anche nella fabbrica di Ponte Zanano ovviamente ci fu una forte adesione così come nelle successive agitazioni di lotta per la tutela delle donne e dei fanciulli, che contribuì poi, nel 1902 alla pubblicazione della legge che introdusse il limite minimo dei dodici anni per il lavoro minorile (poi passato a 14 anni) e nel 1905 il riposo per le donne in maternità. Fu questa una grande conquista per le operaie delle filande, che già allora erano in grande maggioranza, con molte bambine lavoratrici: nel 1903 nella filanda di Ponte Zanano lavoravano circa 60 uomini e 240 donne delle quali oltre il 21% (circa 50) avevano meno di 15 anni contro solo il 10% dei ragazzi della stessa età. Altre battaglie in quel periodo vennero vinte per un generale miglioramento dei salari e dei luoghi di lavoro, come quella dell'orario di lavoro a 10 ore (nel 1910), che fu vinta solo quando, a fianco dei tintori, scesero in sciopero anche le tessitrici, molto più numerose e che, come racconta una cronaca, "facevano molto più fracasso degli uomini ed erano ritenute, dai padroni, più pericolose".

 

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Gli scioperi del 1943 e 1944 in Italia

«Le agitazioni operaie si diffusero da Torino, vero epicentro della protesta operaia, a partire dal 5 marzo, nelle altre città del Piemonte (Asti, Cuneo, Alessandria, Vercelli) e alla fine di marzo le agitazioni coinvolsero anche Milano e il resto della Lombardia. Infatti, a partire dalla giornata del 24 e per tutta l’ultima settimana del mese, il centro della lotta si spostò a Milano, Varese e Como con un’appendice finale espressiva che si registrò nei primi giorni di aprile nuovamente in Piemonte, in particolare nei lanifici di Biella.

I reali protagonisti delle agitazioni operaie, al di là dell’ultima settimana guidata dalle maestranze tessili biellesi, furono quindi gli operai metalmeccanici delle grandi aziende torinesi e milanesi, dalla FIAT Mirafiori alla Falck di Sesto San Giovanni, ai Caproni, alla Ercole Marelli, alle Officine Fratelli Borletti, Bianchi, eccetera. Tuttavia, episodi significativi di lotta si registrarono sia in altre regioni italiane, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, passando per Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche, che negli altri settori manifatturieri oltre che nei rami “chimici” a partire dalle miniere, alle aziende del vetro, nel settore della concia e in quello delle fibre tessili artificiali, ma soprattutto nel settore della gomma, con gli scioperi alla Pirelli di Milano.

Gli operai scesero in sciopero e diedero avvio alla contestazione aperta contro il Regime chiedendo “pane e pace”, quindi, dissociandosi dalla guerra fascista, considerata sbagliata e ingiusta, e segnando la sconfitta di Mussolini sul fronte interno attraverso la perdita definitiva del consenso già prima della sua destituzione.

Gli scioperi operai del marzo-aprile 1943 rappresentano le prime agitazioni di massa dopo quasi un ventennio di repressione sociale.

Tuttavia va sottolineato come il corporativismo fascista e la storia stessa del sindacalismo fascista avevano rappresentato il tentativo di integrare le masse lavoratrici all’interno dello Stato autoritario. Non a caso, nei momenti di crisi, la conciliazione con il mondo del lavoro appare in maniera evidente – anche alle classi dirigenti più retrive – come l’unico modo per evitare il dissolvimento finale.

Di fatti, prima che l’Italia si ritrovasse spezzata in due, sotto il governo Badoglio, nel momento di maggiore disorientamento delle classi dirigenti del Paese, viene concluso l’accordo Buozzi-Mazzini per il riconoscimento delle Commissioni interne: vi è la consapevolezza che la Nazione non può sopravvivere senza riaprire quantomeno il dialogo con il mondo del lavoro. E immediatamente dopo gli anglo-americani capiranno che le forze vive e affidabili del paese sono le forze sociali e sosterranno la riorganizzazione sindacale già decisamente avviata dai lavoratori in tutte le province liberate del Paese. E lo stesso Mussolini, attraverso le norme di indirizzo generale approvate dal Consiglio dei Ministri della RSI, puntava alla impossibile riconciliazione con il mondo del lavoro, proponendo il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese e, più in generale, proponendo una disperata riedizione del fascismo sociale delle origini e rispolverando i motivi anti-borghesi della prima ora.

Ma la strada intrapresa dal mondo del lavoro portava inequivocabilmente verso la democrazia e verso la ricostruzione su nuove basi della vita civile ed economica italiana. Il momento di rottura più significativo che emerge appunto nel primo ciclo di lotte, attraverso gli scioperi del marzo ’43, lo si ha attraverso la presa di distanza dalla guerra fascista. E’ l’atteggiamento di fronte alla guerra che determina la vera rottura tra il fascismo e il Paese. Il senso di una disfatta, quale quella che segue al 25 luglio e all’8 settembre, che è decisiva per dare al mondo del lavoro la percezione della caduta, della vera e propria cesura della storia nazionale.

Gli scioperi, pur nascendo da esigenze strettamente economiche, ebbero una forte valenza politica ponendo al centro i tre temi della libertà, della pace e del lavoro. Inoltre, le lavoratrici e i lavoratori scesi in piazza si riappropriarono con forza, seppure per breve tempo e senza particolari effetti immediati, di una delle tante libertà calpestate dalla dittatura: lo sciopero il cui divieto era stato sancito nel 1926 dal fascismo.

In seguito, la destituzione di Mussolini e la sua sostituzione con il maresciallo Badoglio, e la fine del fascismo, aprono a un periodo di intensa attività politica all’interno dei Comitati di opposizione cittadini e nelle neo-costituite Commissioni interne di fabbrica. Al contempo l’occupazione dell’Italia del Nord da parte della Germania hitleriana, all’indomani dell’armistizio con le forze anglo-americane, e la costituzione della Repubblica sociale italiana danno avvio ad una nuova fase.

Gli scioperi e i sabotaggi alla produzione nelle fabbriche del nord caratterizzano questo periodo che vede la partecipazione diretta dei lavoratori nei Comitati di agitazione, nelle squadre armate dei cittadini e nelle brigate partigiane.

In questo clima si inscrive lo sciopero del 1944, guidato dalla classe lavoratrice. La connotazione e la dimensione politica che si concretizza negli scioperi del 1943 e, ancor più, del marzo 1944 non nasce improvvisa, ma ha alla base una vasta azione di vero e proprio antifascismo che precede il momento insurrezionale, traslandolo dalla dimensione più economica a una più esplicitamente politica. Antifascismo e lotta contro l’occupazione tedesca, quindi, si mescolano e si intrecciano con la repressione repubblichina e la deportazione nazista, complici le strutture e la proprietà delle fabbriche, determinando un nuovo flusso di deportati, che vide protagonisti migliaia di lavoratori italiani a partire dagli operai delle aree industriali ai contadini e braccianti.

Lo sciopero generale del 1944 segna il passaggio definitivo del mondo del lavoro all’azione diretta, alla resistenza più ferma e alla guerra partigiana che assumerà definitivamente i caratteri di guerra di popolo contro l’occupazione nazi-fascista. È in questa fase che diventa ancora più decisivo l’apporto di tutte le categorie di lavoratori, di tutto il mondo del lavoro, mentre si consuma progressivamente e definitivamente il distacco dell’intera nazione dal fascismo. E il ciclo di lotte dei lavoratori del 1943-1944 – col passaggio dalla richiesta di pace all’aperta resistenza contro la Repubblica di Salò – è l’esperienza che darà poi le più solide basi di massa all’azione insurrezionale dell’aprile 1945.

Così nel marzo del 1944, la reazione operaia – e questa volta con una estensione straordinaria – annientò il tentativo della Repubblica sociale italiana di tessere nuovi rapporti col mondo del lavoro, di recuperare il consenso perduto attraverso i progetti di socializzazione e attraverso tutte le proposte tardive, velleitarie e contraddittorie del governo mussoliniano di Salò.

La classe operaia italiana che giunge agli scioperi del ’43-44 è una classe che riacquista piena fiducia nelle proprie forze; si assiste al passaggio da una fase difensiva e di lotta di tipo quasi esclusivamente economico, ad una offensiva in cui la caratterizzazione è essenzialmente di natura politica. Non si sciopera solamente contro gli industriali e i padroni, ma contro il fascismo, contro la guerra fascista e a sostegno della lotta partigiana, per l’insurrezione, per la libertà e per la democrazia.

La fabbrica, ma non solo la grande fabbrica, ritorna ad essere quello spazio di socializzazione politica che vent’anni di dittatura non erano riusciti mai a neutralizzare del tutto. A Milano, infatti, i tranvieri paralizzano la città e accanto agli operai entrano in sciopero anche gli impiegati e gli studenti universitari. Emblematico è inoltre lo sciopero del più autorevole giornale della borghesia italiana, il “Corriere della sera”. Le campagne tornano in fermento in tutta Italia. Lo svolgimento degli scioperi al Nord, infatti, è parallelo all’avvio del grande ciclo delle lotte per la riforma della terra partita dal Mezzogiorno, parallelamente all’avanzata Alleata, che contrapponeva la struttura politico e sociale del regime fascista alla opportunità apertasi con i ‘Decreti Gullo’.

È in questa fase che diventa ancora più decisivo l’apporto di tutte le categorie di lavoratori, di tutto il mondo del lavoro, mentre si consuma progressivamente e definitivamente il distacco dell’intera nazione dal fascismo. E il ciclo di lotte dei lavoratori del 1943-1944 – col passaggio dalla richiesta di pace all’aperta resistenza contro la Repubblica di Salò – è l’esperienza che darà poi le più solide basi di massa all’azione insurrezionale dell’aprile 1945.»


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1950 - FERRARA, LE LOTTE DEI BRACCIANTI


Il dopoguerra - Rottura dell'Unità Sindacale - Le lotte agrarie
Il dopoguerra e gli anni '50 sono un momento cruciale, una svolta nella lunga storia del sindacato.
Maturano nel paese processi, già avviati nel periodo fascista, di subalternità dell'agricoltura all'industria, mentre quelle trasformazioni che erano nelle aspirazioni e nel programma del movimento contadino non riescono ad affermarsi. Viene indubbiamente modificato il ruolo della vecchia Agraria, ma acquistano rilievo nuove forme di gestione del potere e del controllo sociale: basti pensare alla Federconsorzi, al rapporto Federconsorzi e Coldiretti, agli Enti di Riforma.
Sono anni di grandissima lotta, ma sono anche anni in cui un processo economico complessivo da un lato e dall'altro una controffensiva agraria e governativa di grandissima ampiezza, dopo l'espulsione delle sinistre dal Governo, contribuiscono ad indebolire l'azione del proletariato agricolo. A tale proposito è da ricordare che la popolazione di Ferrara non rimase affatto indifferente (anzi reagì con uno sciopero e con l'occupazione dei locali della Prefettura) all'emarginazione che fu operata nei confronti del P.C.I. e del P.S.I.; emarginazione che riduceva progressivamente il peso e il ruolo dei lavoratori della terra e contribuiva a creare le condizioni per un processo di ristrutturazione in agricoltura non certo a vantaggio dei braccianti e dei salariati
La ricerca storica e il dibattito che si è svolto all'interno del movimento sindacale hanno finora indicato alcuni elementi di valutazione su quella fase di lotte. Per esempio si è rilevato come la pressione del movimento sia riuscito a cancellare gli elementi negativi introdotti dai patti durante il fascismo e anche a conquistare livelli salariali nettamente superiori a quelli degli anni trenta. Per Ferrara si può calcolare che le paghe degli uomini siano aumentate 66-68 volte circa rispetto al 1938, quelle delle donne 88-90 volte circa. Dall'altro lato la controffensiva agraria riesce ad ottenere la regolamentazione statale del collocamento, un indubbio arretramento per il movimento operaio.
Nei primi anni dal 1945 al 1947 la lotta è caratterizzata sopratutto dall'abolizione degli elementi negativi dei patti del periodo fascista. Sorge la Costituente della Terra. E nel 1947 vi è uno sciopero che pone la questione dell'imponibile, delle 8 ore, della contingenza, degli assegni familiari.
Oltre 100.000 lavoratori della terra scesero in sciopero dall'8 al 19 settembre, in seguito alla rottura delle trattative tra la Confederterra e la Confida per il rinnovo dei contratti dei salariati fissi. In un primo momento scesero in sciopero i soli braccianti, impiegati in lavoro in economia e i salariati fissi, i quali però continuarono ad accudire al bestiame senza farlo uscire dalle stalle per nessun genere di lavoro. Poi, continuando l'intransigenza della Confida, che addirittura si era rifiutata di prendere in esame le questioni, dimostrando in tal modo il suo disinteresse per la produzione, la Confederterra minacciò di fare scendere in lotta anche i compartecipanti, cosa che fece di li a 48 ore, provocando la cessazione quasi totale del rifornimento di bietole agli zuccherifici.
La Confederterra si preoccupò soprattutto di non arrecare danni agli interessi dei mezzadri e dei piccoli coltivatori diretti, garantendo loro tutta la manodopera richiesta. D'altronde la solidarietà dei mezzadri e dei coltivatori diretti aderenti alla Confederterra, non tardò a manifestarsi, poiché giuste furono considerate le richieste dei braccianti e dei salariati fissi.
Con la firma dell'accordo raggiunto il 19 settembre, si poneva fine allo sciopero durato ininterrottamente 11 giorni, che vide la partecipazione pressoché totale della categoria.
Fu questa la prima azione coordinata di sciopero condotta dalla categoria dopo la Liberazione nazionale. L'accordo raggiunto istituiva e regolamentava:
l'indennità di contingenza anche nell'agricoltura; l'orario di lavoro per i salariati fissi; il contratto dei tagliariso.
I due anni successivi, il '48 e il '49, sono di grandissima importanza: da un lato rappresentano un momento di altissimo scontro, in cui si esprime anche la volontà dei lavoratori agricoli di non piegare il capo dopo il 18 aprile, dall'altro risentono della scissione avvenuta nel '48 nella Camera del Lavoro con la conseguente uscita della corrente democristiana.
Nella provincia operava la Federbraccianti i.c.i componenti avevano aderito in passato alla vecchia Federterra di cui essi costituivano la categoria più numerosa. E fu proprio a Ferrara, nel gennaio 1948, che essa venne costituita come organizzazione nazionale i cui intenti erano ben chiari: ottenere la centralizzazione dei consigli di azienda, i collettivi, le cooperative contadine e soprattutto la concessione delle terre incolte o malcoltivate, private o demaniali che nel loro complesso avrebbero dato il via alla tanto desiderata Riforma Agraria.
Nel primo Congresso veniva ribadita la necessità di affrettare la promulgazione degli opportuni provvedimenti legislativi per la riforma del sistema previdenziale e assistenziale attualmente vigente nel settore agricolo, al fine di equiparare le prestazioni a favore dei braccianti e dei salariati fissi a quelle delle altre categorie di lavoratori.
Come pure si rivendicava, al fine di assicurare l'occupazione di più numerosa mano d'opera agricola, un provvedimento per rendere obbligatoria l'esecuzione di opere di miglioramento per il sussidio a tutti i disoccupati agricoli.

Il Congresso protestava per i troppi frequenti interventi della polizia contro i lavoratori nelle vertenze e nelle agitazioni di natura sindacale. Veniva denunciata infine l'offensiva dei gruppi più retrivi della grande proprietà e del padronato agrario, guidati dalla Confida, per impedire ai lavoratori la loro ascesa e per sottrarre loro quei benefici che già avevano conseguito
Lo sciopero nazionale del 1949 fu il più esteso e il più aspro nella storia del proletariato agricolo.
Mentre i braccianti e i contadini meridionali lanciavano il loro assalto al latifondo, in un clima di alta tensione patriottica e civile, grandi scioperi bracciantili per il lavoro, il collocamento, il salario scuotevano le campagne di quasi tutta Italia.
Anche Ferrara ne fu investita. Non si trattava di una serie di lotte parziali e a carattere locale, ma di una sola grande lotta unitaria e nazionale con obbiettivi e rivendicazioni comuni a tutta la categoria dei braccianti
La prima manifestazione contro il crumiraggio si è avuta a Molinella. Oltre seimila braccianti e mondine si concentrarono nelle campagne provenienti dai vicini paesi, dalle province di Bologna, Ravenna, Ferrara e ingaggiarono una lotta furibonda contro i crumiri, molti dei quali rimasero pestati. Intervenne la polizia in grandi forze iniziando cariche violente e sparatorie. Qui cadde la prima delle sei vittime dello sciopero: Maria Margotti. Era un'operaia della fornace cooperativa di Filo d'Argenta, dove aveva trovato da poche settimane occupazione.
Insieme alle compagne di lavoro partecipò ad una manifestazione tesa a contrastare una vasta azione di crumiraggio a Marmorta dove gruppi di lavoratori, ingaggiati dagli agrari e favoriti in questo dalla avvenuta scissione sindacale, avevano rotto il fronte della lotta portandosi nei campi a lavorare. L'assassinio venne compiuto il 17 maggio 1949.
Lo sciopero del '49 ebbe il proprio epicentro nella Valle Padana e costrinse i lavoratori a compiere duri sacrifici. Nel maggio '49 il Sindacato chiedeva, ormai da mesi, di risolvere in una trattativa diretta con la Confagricoltura la vertenza; gli agrari respinsero tutte le richieste che venivano loro rivolte e non accettarono neppure la mediazione del Governo. Contro i lavoratori che manifestavano intervennero i carabinieri e la celere: cariche indiscriminate, lancio di bombe lacrimogene, sventagliate di mitra in aria, arresti e distruzioni di biciclette furono il triste bilancio.

Lo sciopero si concluse con una netta vittoria sul piano economico, sindacale e politico: i braccianti ottennero un aumento dell'indennità infortuni; l'impegno a corrispondere l'indennità di caro-pane e le prestazioni farmaceutiche ai loro familiari; l'emanazione della legge che estendeva il sussidio e l'indennità di disoccupazione a tutti i braccianti e salariati agricoli e che rappresentava una delle più grandi conquiste sul piano della legislazione sociale.
Negli. stessi anni ci fu un tentativo di trasformare la compartecipazione in "Collettivo integrale", in cui tutti i lavori sono messi in comune (28).
Il Collettivo è stato una particolare forma di organizzazione, adottata dal bracciantato agricolo di alcune zone della nostra provincia, che trovò la sua ragione d'essere in quella sollecitudine prestata nell'immediato dopoguerra alle possibili nuove forme di organizzazione del lavoro agricolo.
Non fu una scoperta, una cosa che emerse, che nacque da sé improvvisamente, ma fu piuttosto una concreta e tempestiva interpretazione delle esigenze bracciantili e trasse senso e sostanza dalle tradizioni organizzative locali. Si sviluppò soprattutto nella zona di Argenta, in cui le tradizioni sindacali del bracciantato, rimasero solide e anzi si arricchirono nonostante i reiterati tentativi compiuti dal governo fascista di fiaccare e svuotare di valore le conquiste e il patrimonio di lotta di questa tenace popolazione.
Per capire cosa fu il Collettivo e quale importanza abbia avuto, bisogna rifarsi alla compartecipazione bracciantile che, come già rilevato, era sempre esistita in questa zona.
Ma nella compartecipazione i lavoratori erano ancora divisi, ognuno lavorava in modo indipendente il proprio lotto di terra assegnatogli dall'agrario, e pertanto sussistevano profondi motivi di discordia tra i lavoratori stessi, a causa, ad esempio della migliore o peggiore qualità della terra, della lontananza del fondo dall'abitazione, contrasti e discordie che andavano a tutto vantaggio dell'agrario che in tal modo non aveva da temere l'unità di lotta dei braccianti.
Il Collettivo divenne l'unico contraente a trattare con i padroni, incidendo con la propria forza sulle scelte colturali, con lo stabilire il collocamento delle forze lavorative e il controllo amministrativo.
In particolare il lavorare insieme valorizzò la solidarietà, la collaborazione tra i lavoratori, incidendo anche sulla loro capacità e preparazione nella direzione dell'unità produttiva.
Nella provincia i Collettivi si diffusero oltre che nella zona di Argenta a Bondeno e a Portomaggiore.
L'altra grande lotta dei braccianti ferraresi è quella del collocamento: si batteranno per mantenere il collocamento sindacale, che come abbiamo visto aveva le sue origini nei primi del '900.
Vi fu una durissima repressione per sostenere gli uffici statali e per impedire le elezioni democratiche dei collocatori proposte dal sindacato.
Per questa lotta nel '49 perderà la vita colpito dalla forza pubblica il lavoratore Ercolai, mentre denunce e arresti si susseguirono a Lagosanto, a Bondeno e in altre località.
Sul collocamento non sono mancate da sinistra le riflessioni critiche, in particolare ci si è chiesti il perchè della firma dell'accordo con il Governo (accordo del 9 aprile 1949 che prevedeva una commissione con il compito di coadiuvare il collocatore con funzioni puramente consultive) su basi prima respinte dalla Federbraccianti. La questione è ovviamente da approfondire.
Tra il 1950 e il grande sciopero del 1954 si svolsero notevoli lotte per l'imponibile e per ottenere lavori di bonifica e una forte azione per il patto di compartecipazione. Più simbolica sembrò essere l'azione per l'applicazione della legge Gullo - Segni sulle terre incolte, mentre quella per la legge Stralcio, se dapprima scontò incertezze e oscillazioni presenti nel sindacato e nella sinistra, in un secondo momento nella provincia si organizzò una mobilitazione notevole.
La limitatezza delle superfici messe a disposizione per l'assegnazione dall'Ente Delta e il modo stesso in cui queste assegnazioni vennero fatte, ingenerarono nella popolazione un profondo malcontento. Le attribuzioni vennero fatte con criteri discriminatori soprattutto di matrice ideologica; inoltre a causa della limitata estensione del fondo, molti assegnatari furono costretti ad abbandonarlo: di qui le ragioni delle lotte per la promulgazione di una legge di reale riforma fondiaria.
Su questo tema offrono interessanti testimonianze molti interventi che si susseguono al 5° Congresso Provinciale del PCI ferrarese nel 1954 e una importante documentazione ritrovata nell'archivio del PDS.
In quegli anni aveva suscitato l'interesse nella provincia la proposta della CGIL presentata al Congresso di Genova nel 1949 da Giuseppe Di Vittorio di un Piano del Lavoro con il quale si cercava di rispondere ad una esigenza vivamente sentita da ceti vastissimi di popolazione, che chiedevano di uscire da una situazione che diveniva sempre più intollerabile, situazione caratterizzata da una disoccupazione cronica e quindi da una miseria crescente.
Le conseguenze della fallimentare politica economica governativa adottata dopo il 18 aprile, si aggravavano sempre più. Si smobilitavano nella nostra provincia, importanti settori di piccola e media industria: i licenziamenti erano all'ordine del giorno, il numero dei disoccupati aumentava costantemente. I prezzi dei prodotti agricoli crollavano e la linea economico-finanziaria del Governo non indicava, in prospettiva, nessun miglioramento. Di questo quadro fallimentare della politica economica del governo D.C. si ha visione anche su scala provinciale. La città e la provincia di Ferrara ci offrono l'indice di una situazione che era diventata addirittura tragica. Su una popolazione complessiva di 419.000 abitanti, nell'anno 1950, si contano dai 75 agli 80.000 disoccupati. Il Piano del Lavoro, scaturito dalla esigenza di eliminare dal nostro paese alcune zone, abbastanza estese, di miseria e di desolazione sociale, non poteva non interessare per le sue intenzioni e fini le popolazioni della nostra provincia, soprattutto quelle della zona del Delta, più direttamente toccate dalla miseria.
I1 Piano generale del Lavoro, rivendicava nella nostra provincia la soluzione immediata di tre grossi problemi - lo scavo del Cavo Napoleonico, la bonifica della Valle di Comacchio, il problema dell'irrigazione e della navigazione interna. La soluzione di queste importanti questioni avrebbe rappresentato un ragguardevole passo in avanti sulla strada della soluzione dei problemi della società ferrarese.
Il processo di meccanizzazione, la crisi della canapa (un prodotto tradizionale della compartecipazione), la diffusione della frutticoltura (cui la compartecipazione, tranne poche eccezioni, non si applica), la tendenza degli agrari ferraresi a sostituire la compartecipazione con il piccolo affitto, sono processi che avanzano negli anni '50 in maniera connessa all'inizio dell'esodo dalle campagne e sono da tenere presenti nel valutare lo sciopero del 1954, uno degli ultimi che avesse ancora, per certi versi, le caratteristiche delle grandi lotte del decennio precedente. Questo sciopero, alla luce dell'oggi, assume quasi un significato simbolico: i braccianti non furono piegati dall'azione repressiva, dalle ordinanze prefettizie, dall'afflusso dei crumiri, dall'intransigenza dell'agraria. Gli obiettivi immediati furono raggiunti: per i salariati si chiedeva l'applicazione del Contratto Nazionale che stabiliva il riposo settimanale e delle festività infrasettimanali, le 8 ore di lavoro giornaliere; per i braccianti l'aumento del 15% della paga base, l'avvicinamento del salario delle donne e dei giovani a quello degli uomini; la modifica del rapporto di compartecipazione; ma il processo generale che stava avanzando e che riduceva il ruolo del bracciantato all'interno di uno sviluppo economico non equilibrato, era destinato a prevalere. Di fronte ad esso la linea stessa della difesa della compartecipazione cominciava a mostrarsi non più sufficiente.
Per meglio illustrare gli eventi di quegli anni di grande impegno e tensione vorrei soffermarmi su alcuni significativi aspetti dello scontro del '54, che pare chiudere un'epoca.
Lo sciopero vide schierati, nella nostra provincia, 120.000 braccianti e salariati fissi, insieme a migliaia di mezzadri e contadini.
La tattica adottata fin dall'inizio dall'organizzazione sindacale tenne conto del fatto che la lotta sarebbe stata dura e lunga, e che ogni forma di pressione sarebbe stata messa in atto per colpire le avanguardie del movimento. L'azione di chiarificazione svolta in modo costante, verbalmente e con la propaganda scritta dalle organizzazioni dei lavoratori, sulle rivendicazioni dei braccianti e dei salariati fissi, determinò la crescita della solidarietà tra categorie interessate e ceti intermedi delle campagne. Lo stesso modo differenziato in cui ci si pose nei confronti dei mezzadri e dei coltivatori diretti, non facendo mancar loro la manodopera richiesta per i lavori agricoli, contribuì ad accrescere questa fronte di solidarietà, che divenne sempre più vasto. Ogni mezzo fu posto in atto per spezzare la resistenza dei lavoratori, fu predisposto un servizio imponente di forze di polizia. Si giunse a bastonature, alle violazioni di domicilio, all'arresto di centinaia di lavoratori e dirigenti.
In un rastrellamento notturno in due comuni (Migliarino e Massafiscaglia) furono arrestati i segretari dei partiti di sinistra; i segretari delle C.d.l. comunali e delle leghe frazionali, ed alcuni collaboratori frazionali per un totale di 41 persone e sequestrati documenti e registri dell'organizzazione sindacale.
Anche il ceto medio fu solidale con i lavoratori partecipando in diverse forme alla protesta; gli esercenti chiusero i negozi a Massafiscaglia, gli ambulanti sciolsero il mercato a Berra e a Copparo; votarono ordini del giorno, inviarono telegrammi al Prefetto e al Governo a Migliarino, Ostellato, Bondeno, chiedendo una soluzione della vertenza secondo le giuste richieste dei lavoratori.
Si rispose con decisione ad ogni manovra avversaria ed in special modo a quella sul "bestiame morente", orchestrata dalle forze governative ed agrarie, attraverso i loro organi di stampa. I lavoratori decisero di assicurare al bestiame un pasto al giorno e di pulire le stalle salvando in questo modo gli animali dalla morte e la popolazione dalle malattie.
Fu inviato anche l'esercito per sostituire gli scioperanti, ma anche questa manovra non servì in realtà a nascondere il grande senso di responsabilità dei lavoratori.
Quando sui campi il grano giunse a maturazione i grandi agrari pensarono che, con l'inizio della mietitura, lo sciopero si sarebbe esaurito. Nelle aziende dei mezzadri e dei coltivatori diretti il lavoro di mietitura venne concluso in breve tempo con l'aiuto delle macchine agricole. Quando si trattò di andare a lavorare nelle grosse aziende i lavoratori si presentarono in squadre di centinaia, rifiutando di usare la falciatrice e la mietilega, ma mietendo a regola d'arte con il falcetto.
Questo significava lasciare sul campo la maggior parte della paglia, provocando in questo modo le furie dei padroni che si vedevano gravemente danneggiati.
La "battaglia del falcetto" fece crollare ogni speranza del fronte padronale e vide la più grande solidarietà tra braccianti e ceti medi.

La Confida fu costretta ad abbandonare le sue posizioni di intransigenza e ad accettare le richieste dei lavoratori.
Non si possono dimenticare inoltre in quel periodo di guerra fredda le lotte che si svolsero in difesa dell'indipendenza nazionale e per rivendicare una politica di pace. Svariate furono le forme di lotta adottate per creare attorno al grande tema della pace la più ampia mobilitazione: si va dalla raccolta di firme alle grandi manifestazioni di piazza. La raccolta delle firme veniva fatta casa per casa ( Ferrara fu la prima provincia italiana per numero di firme raccolte: se ne raccolsero infatti 320.000 attraverso un comitato che produsse anche un periodico "La VI Potenza", che uscì per circa un anno ) e quindi si correva continuamente il rischio di essere denunciati. Si affermava cosi il desiderio dei lavoratori di vivere in un clima internazionale: di distensione e di amicizia fra i popoli.

 

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LE AGITAZIONI NELLE FABBRICHE DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE


Le agitazioni nelle fabbriche durante la Prima Guerra Mondiale assunsero un'importanza ragguardevole: il ruolo delle maestranze in una guerra basata sull'industria (armi e vettovaglie sono a questo punto ormai totalmente di produzione industriale) è, infatti, centrale ai fini dell'esito stesso della guerra. Per tale motivo tutti i paesi tentano di introdurre diverse forme di controllo volte a limitare ciò che poteva costituire una perdita di giornate di lavoro, in primis le agitazioni stesse, ma anche assenze per malattie, trasferimenti…
Le manifestazioni di dissenso nelle fabbriche assunsero così in ogni paese caratteristiche diverse a seconda del grado di oppressione subito, dei rapporti di forza fra le classi, fino ad assumere in alcuni casi un carattere rivoluzionario. In tutti i paesi la protesta si scatenò a partire da motivi concreti, che creavano nei lavoratori la sensazione di essere vittime di un'ingiustizia. Questo è rilevato da tutta la produzione letteraria sulle agitazioni nella prima guerra mondiale, ed in particolare dall'opera di Moore1 . Il filo conduttore di questa ricerca è la constatazione di come l'ingiustizia sia il motore della ribellione che muove anche settori lavorativi passivi o tendenzialmente conciliatori, e di come il fattore politico -le idee socialiste- godesse di attenzione minoritaria e di scarsa importanza. La produzione marxista che si rifà a Lenin e a Trotskij ha chiaramente affermato a sua volta come il senso di ingiustizia scaturito da problemi e bisogni di tipo materiale sia il motore dell'avanzamento di classe che porta alla ribellione. Moore tuttavia sostiene che l'ingiustizia è inizio e fine della ribellione: a causa di essa ha inizio la ribellione, che cessa con la soluzione del problema. La chiara polemica di Moore verso i rivoluzionari, visti in ultima analisi come astuti manovratori di scioperi e malcontenti, è esplicitata quando dichiara che la rivoluzione d'ottobre instaurò una dittatura minoritaria2 . La teoria marxista controbatte a sua volta che se la rivoluzione di Ottobre fosse stata realmente un golpe non si spiegherebbe come né Kerenskij né le Armate Bianche riuscirono a far fallire la rivoluzione3.
In tutti i paesi si partì quindi da rivendicazioni sindacali, si passò in alcuni casi a rivendicazioni più avanzate riassumibili nel celeberrimo "pace, pane, terra"4 e, qualora i regimi non fossero stati ritenuti capaci di concedere quanto richiesto, si arrivò a movimenti rivoluzionari5.

ITALIA
L'Italia, late comer dell'industrializzazione, non aveva, di fatto, mai conosciuto la democrazia borghese: un regime sostanzialmente autoritario volto a sfruttare e reprimere i lavoratori fu lo strumento scelto dalle classi dirigenti per colmare il divario con le altre nazioni.
Con l'inizio del conflitto fu istituita la Mobilitazione Industriale, dapprima sottosegretariato e poi ministero per le armi e le munizioni, che sottopose alla giurisdizione militare gli stabilimenti militari, ausiliari ed il personale "requisito" di stabilimenti non ausiliari per garantire la produzione richiesta dallo sforzo bellico. La gestione dello stato nei rapporti di lavoro, basata su norme repressive e sulla presenza fisica di militari in fabbrica, venne mutuata dalle esperienze austriache e tedesche. La giornata di lavoro minima fu fissata in dieci-dodici ore più lo straordinario obbligatorio ed il cottimo per tutti. La possibilità di aumenti salariali era quindi "affidata" al lavoratore stesso proprio tramite straordinari o cottimo. I militari in fabbrica, con funzione di capireparto e sorveglianti, spesso impartivano ordini che, però, data la loro imperizia, risultavano spesso dannosi per i macchinari, con conseguente multa per i lavoratori, o per i lavoratori stessi, che rimanevano spesso feriti o uccisi. Multe, carcere, e nei casi più gravi il fronte erano le punizioni, impartite per ogni infrazione, anche piccola, e lo strumento per l'epurazione politica ed il controllo sociale.
Dopo un periodo di scioperi frequenti contro l'eventualità della guerra durante l'anno della neutralità, scoppiò infine il conflitto. La classe operaia professionalizzata, rimasta nelle fabbriche per la sua necessaria competenza, si trovò come immobilizzata. Inoltre l'ingresso di nuove maestranze per rimpiazzare i coscritti ed aumentare la produzione bellica produsse svariate tensioni: donne e ragazzi visti talvolta come la causa dell'invio al fronte di compagni, talvolta come contadini inurbati, portatori di una mentalità conservatrice e contraria alla lotta di fabbrica; in alcuni casi, "falsi" operai, imboscati che attiravano su di loro l'odio delle maestranze.
Proprio donne e ragazzi furono i primi a riprendere le agitazioni: sia perché le repressioni in fabbrica indussero in loro un avanzamento della coscienza di classe, sia perchè le punizioni tendevano ad essere meno dure nei loro confronti, soprattutto perché non rischiavano l'invio al fronte. Le proteste quindi ripresero e si basarono su motivi oggettivi (condizioni durissime di vita e di lavoro, repressione sociale e politica) e soggettivi (rivolta morale verso una guerra avvertita come voluta dai padroni ma il cui prezzo era sostenuto dalla povera gente). Il motivo scatenante era solitamente un provvedimento repressivo verso i compagni o una rivendicazione salariale6 , che produceva una spinta che si propagava spesso in altri stabilimenti. La parola d'ordine della pace fu da subito onnipresente in ogni rivendicazione- peculiarità questa dei lavoratori italiani, che erano sempre stati in maggior parte inequivocabilmente contrari al conflitto-. Dal 1917 si ebbe un riavvicinamento fra città e campagna: scioperi partiti in una delle realtà cominciarono ad estendersi anche all'altra. Inoltre, sempre dal 1917, gli scioperi si fecero meno frequenti ma più intensi, lunghi e partecipati. La classe operaia tornò a lottare nella sua totalità, scoppiarono le rivolte a Torino, Livorno, Terni, Napoli, in Lombardia: fu, insomma, un anno di alta conflittualità7 .
Il 1918 fu invece un anno di relativa calma - a differenza di ciò che avvenne in Germania ed Austria - dovuta all'estensione delle zone di guerra a quasi tutto il centro-nord Italia proprio per porre un freno alla rinnovata combattività operaia. L'anno seguente tuttavia la rabbia esplose nuovamente assumendo carattere rivoluzionario nel "Biennio Rosso".
Un caso a parte costituì la mobilitazione unitaria dei metalmeccanici liguri, appoggiata dall'USI8 che durò tutta la guerra e la cui rivendicazione era l'adozione di un memoriale unico, una sorta di statuto dei lavoratori. La mobilitazione fu gestita dalla base, che scavalcò addirittura il segretario della Camera del Lavoro, e comprese ostruzionismi e scioperi.

GERMANIA ED AUSTRIA-UNGHERIA
La Germania era un paese fortemente industrializzato, con una classe lavoratrice più istruita rispetto alla media europea e fortemente integrata, ma con uno stato in cui burocrazia e militari avevano grande potere.
Con lo scoppio della guerra l'SPD9 ed il sindacato acconsentirono alla dichiarazione del Burgfrieden, cioè alla sospensione di ogni attività politica o rivendicazione sociale in nome della pace interna e del bene della patria. Dopo l'appoggio dell'SPD alla guerra, le dimostrazioni contro il conflitto cessarono, ed anzi, fra molti operai la posizione dei socialdemocratici e la chiamata alle armi parvero la realizzazione del sogno di essere finalmente accettati nell'ordine sociale10.
La rappresentanza dei lavoratori sembrò tornare indietro ai tempi di Bismarck, quando fu favorita la creazione di commissioni e consigli di fabbrica nella speranza di ingabbiare la conflittualità sociale e togliere consensi ai socialisti. Repressione e militarizzazione avevano così, di fatto, l'avallo dei rappresentanti dei lavoratori. Furono istituite commissioni paritetiche per la ricomposizione delle vertenze e le fabbriche furono militarizzate, fino ad arrivare, nel 1916, alla Legge sul servizio ausiliario, che stabiliva la mobilitazione di tutta la forza lavoro per lo sforzo bellico.
Inizialmente la tregua sembrò funzionare: si ebbero per lo più lamentele e richieste riguardo ai salari senza giungere ad effettuare scioperi. In particolare una rivendicazione fu quella della libertà di cambiare lavoro per avere salari più alti, avversata da padroni e militari perché comportava perdita di preziosa manodopera negli stabilimenti con paghe ritenute troppo basse. Tuttavia, le condizioni di vita cominciarono a peggiorare anche in Germania; gli aumenti di stipendio compensavano appena quelli dei prezzi, e la politica conciliatoria si rivelò un fallimento. Di conseguenza si formò un'opposizione sia nella socialdemocrazia11 sia nel sindacato, che organizzò tre grandi scioperi a Berlino. Nel 1916, il 28 giugno Karl Liebknecht fu arrestato con l'accusa di tradimento; immediatamente scesero in sciopero i tornitori, seguì poi Berlino con 55.000 aderenti. Nell' aprile 1917 lo sciopero fu convocato in seguito alla riduzione di un quarto della razione di pane destinata a ciascuno secondo le regole annonarie. Nel 1918 lo scioperò partì non appena si seppe dello sciopero di Vienna. L'opposizione intervenne nella maggior parte delle dispute salariali, organizzò manifestazioni, specie contro arresti (per esempio il già citato arresto di Karl Liebknecht dello Spartakusbund12 ) e contro le coscrizioni punitive. Le iniziative ebbero un grande sostegno delle categorie dei metalmeccanici turnisti e dei metalmeccanici di Lipsia.
Man mano che il regime si rivelava per niente disposto ad acconsentire alle richieste sindacali, la coscienza dei lavoratori avanzò fino a chiedere esplicitamente la fine della guerra e dell'Impero -con il sostegno delle masse, esercito compreso- e a diventare un movimento rivoluzionario, a partire dal celebre ammutinamento dei marinai di Kiel il 28 ottobre 1918 e dalla creazione dei consigli degli operai e dei soldati fino alla rivolta del 3 novembre con la conseguente fine dell'impero.
Anche l'impero austro-ungarico aveva una classe lavoratrice piuttosto integrata, soprattutto per quanto riguardava i lavoratori di lingua tedesca. Le condizioni di lavoro erano migliori rispetto alla media europea, il sistema scolastico meno selettivo rispetto al ceto e di qualità decisamente buona: tutto sommato il regime degli Asburgo riuscì a mobilitare consenso intorno a sé per un certo periodo di tempo. La peculiarità dell'impero dal punto di vista sociale stava, però nell'avere alcuni poli industriali circondati da realtà rurali, dove c'era inferiore sindacalizzazione e politicizzazione, e dove c'erano diffuse simpatie conservatrici. I conflitti sociali, tenuti sotto controllo in maniera analoga a quella tedesca, ebbero una prima avvisaglia nell'inverno di fame che vi fu fra il 1916 ed il 1917. Emerse una rinnovata conflittualità sociale, una vera e propria ondata di scioperi e proteste, in cui si avvicendarono manifestazioni per i beni di prima necessità, disordini, resistenza passiva, scioperi fino ad arrivare ad esplosioni di rabbia contro commercianti e venditori del mercato nero. Queste mobilitazioni furono per lo più spontanee e senza la guida della socialdemocrazia e del sindacato, verso i quali vi era ancora un diffuso discredito a causa della politica di collaborazione rispetto alla guerra13.
Il 1917 senz'ombra di dubbio preparò la scossa finale. Per la prima volta dallo scoppio della guerra si tornò a festeggiare il Primo maggio, con astensione dal lavoro. Il governo sperò di lasciar sfogare i lavoratori, ed effettivamente il Primo maggio non portò disordini.
Qualcosa riguardo alla rivoluzione di febbraio in Russia trapelò ed arrivò alle orecchie dei lavoratori. Si trattava di notizie censurate, riguardo alle speranze di pace e alla formazione di consigli dove i lavoratori si erano organizzati in maniera indipendente dalle istituzioni ma sufficienti a galvanizzare il movimento pacifista.
Nel gennaio 1918, quando ormai l'intero paese, civili e militari, soffriva la fame. Si ebbe uno sciopero generale a Vienna e dintorni. Fu questo sciopero a dare l'inizio alla ribellione, che non risparmiò alcun ramo dell'esercito, e si rivolse verso la guerra, il governo e scavalcò la dirigenza socialdemocratica, rimasta su posizioni riformiste. Operai e marinai pubblicarono pamphlet con le loro rivendicazioni. In seguito al fallimento del tentativo di contattare gli scioperanti viennesi ed i dirigenti del partito per coordinarsi e sostenersi, l'insurrezione dei marinai fu repressa, ma era ormai evidente come anche in Austria le rivendicazioni avessero ormai assunto carattere rivoluzionario. Il 1918 vide la socialdemocrazia dividersi in diverse correnti, i lavoratori ed i soldati organizzarsi in consigli e l'impero austro-ungarico sfasciarsi. Diverse le tesi, che vanno dall'implosione14 all'atto di costituzione rivoluzionario15 .

GRAN BRETAGNA E FRANCIA
La Gran Bretagna era non solo una grande potenza industriale ma anche una democrazia liberale di lunga data. La sua classe operaia era la più antica e la più integrata; il sindacato aveva un enorme potere di contrattazione.
Il governo inglese non aveva che da gestire la propria superiorità industriale dislocando al meglio la propria forza lavoro e favorendo la mediazione fra sindacati ed associazioni padronali. Un problema che si trovò ad affrontare fu la leva volontaria, che ridusse fino al 20% la manodopera, specie nei settori che producevano per la Marina Militare, rischiando di danneggiare lo sforzo bellico proprio nel settore in cui la superiorità britannica era indiscussa.
Non per questo non ci furono agitazioni: al contrario, una classe operaia forte scoprì quali vantaggi l'azione diretta potesse far ottenere -specie agli operai specializzati rimasti in fabbrica, contesi dai vari settori produttivi-. In una situazione in cui il governo non poteva elaborare una politica chiara ed uniforme per colpa della competizione fra vari ministeri e commissioni che avevano competenza in materia, la classe operaia sfruttò appieno i rapporti di forza favorevoli per ottenere numerose concessioni.
I motivi principali delle agitazioni furono l'aumento degli affitti e, dopo l'introduzione della leva obbligatoria nel 1916, la dilution e la tutela della manodopera specializzata. L'offensiva tedesca con l'invasione del Belgio neutrale stroncò sul nascere una possibile dimostrazione contro la guerra, fungendo al contrario da catalizzatore del consenso.
La politica di concessioni ( aggiustamenti salariali, calmiere sugli affitti, certificati e liste per la tutela della manodopera specializzata) permise la suddivisione dei costi della guerra, evitando che questi ricadessero quasi esclusivamente sui più poveri, come successe in Italia. Cito a riguardo la tesi storiografica di Hinton16 a riguardo, per il quale queste concessioni furono una politica volta ad allontanare la rivoluzione, a cui si può contrapporre quella di Reid17 ,che sosteneva invece come non vi fosse alcun pericolo di rivoluzione, dal momento che lo sforzo bellico aveva migliorato le condizioni sia degli operai specializzati sia dei padroni, gli uni con le concessioni, gli altri con l'impulso dato all'industria dalla guerra.
Anche la Francia aveva ormai consolidato una tradizione democratica ed egualitaria. Furono create commissioni che includevano associazioni padronali e sindacati per gestire la forza lavoro e risolvere le vertenze. Con l'arrivo di forza lavoro piuttosto politicizzata dall'estero, soprattutto, dal Belgio invaso, oppure altamente sfruttata ed emarginata dalle colonie, si avviò un processo di radicalizzazione delle maestranze che portò a scioperi e manifestazioni, specie a Parigi ed in Normandia.
La Bassa Normandia in particolare era una zona solo parzialmente industrializzata, anzi, in via di de-industrializzazione. La tipologia più diffusa di industria era l'azienda tessile, in cui lavoravano per lo più abitanti del luogo, contadini che lavoravano di mala voglia in una fabbrica e che non avevano alcuna intenzione di organizzarsi per avanzare rivendicazioni. Le uniche eccezioni erano Caen, dove i gruppi Thyssen e Schneider avevano esportato le acciaierie, Dives-sur-mer dove c'era uno stabilimento elettrometallurgico, alcuni stabilimenti chimici nella zona di Honfleur, le miniere di ferro a sud di Caen, e Cherbourg, dove c'era un polo metallurgico legato all'arsenale, e che costituiva il principale centro di insediamento della classe operaia -qui sindacalizzata e combattiva, durante il conflitto come in precedenza-. L'arrivo di lavoratori rifugiati, immigrati e dalle colonie produssero la sovracitata radicalizzazione: dei trenta scioperi tenutisi nella regione durante il conflitto, in otto giocarono un ruolo rilevante lavoratori stranieri insoddisfatti delle loro condizioni di vita o di lavoro. Un'altra categoria che rivestì un ruolo militante furono le donne, che giunsero a scioperare marciando per le strade con una bandiera rossa; da menzionare anche i ferrovieri, soldati che prestavano servizio sul loro posto di lavoro, che assicurarono la continuità e addirittura la sopravvivenza dell'attività sindacale a livello nazionale .


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Sciopero generale dell'1-8 marzo 1944

Mentre era in corso l'offensiva tedesco-fascista contro le formazioni partigiane, il Comitato di agitazione del Piemonte, Lombardia e Liguria aveva proclamato lo sciopero generale in tutta l'Italia occupata.

Ciò infliggeva al nemico uno dei più duri colpi, lo obbligava a spostare le sue forze verso i grandi centri industriali, alleggeriva la pressione sulle unità partigiane e soprattutto avrebbe ridato possente slancio ai lavoratori delle città e delle campagne e alle formazioni provate dai combattimenti. Lo sciopero generale preparato durante alcuni mesi di lavoro, riuscì in modo grandioso e superiore ad ogni aspettativa, fu certamente il più vasto movimento di massa che abbia avuto luogo in Europa durante la guerra, nei territori occupati dai tedeschi.
I grandi centri industriali di Milano e Torino furono per otto giorni completamente paralizzati. A Milano durante tre giorni scioperarono compatti anche i tranvieri, i postelegrafonici e gli operai del «Corriere della Sera».
Lo sciopero si estese dal Piemonte e dalla Lombardia al Veneto, alla Liguria, all'Emilia ed alla Toscana. Due milioni di operai parteciparono al movimento appoggiato da forti manifestazioni di contadini e di donne della campagna, specialmente nell'Emilia. Tutte le misure preventive e repressive della polizia fascista e delle SS non riuscirono a limitare ne a impedire lo sciopero, nonostante che il nemico ne conoscesse gli obiettivi e la data. Gli operai chiedevano di poter essere liberi nelle loro case, di non lavorare per la guerra, di non essere fermati, arrestati, deportati, torturati dai nazifascisti, chiedevano che i loro figli non fossero arruolati dallo straniero.
Ancora una volta i grandi industriali si dimostrarono in generale solidali con gli occupanti tedeschi; salvo casi singoli si rifiutarono di trattare e di ricevere le delegazioni operaie, arrivarono persino a passare ai tedeschi le liste degli operai scioperanti compiendo a fondo l'opera di aperto tradimento della nazione in guerra.

La macchina di guerra nazista ricevette un serio colpo, per una settimana la produzione bellica in tutta l'Italia del nord venne arrestata.
Gli scioperi del marzo del 1943 avevano segnato l'approssimarsi della fine del fascismo, lo sciopero generale del 1-8 marzo 1944 significò un grande balzo in avanti verso l'insurrezione generale, una battaglia vinta contro le forze fasciste-hitleriane.

Durante lo sciopero generale si ebbe una magnifica prova di unità e di solidarietà di tutte le forze patriottiche raggruppate attorno ai Comitati di liberazione nazionale ed in modo particolare da parte delle classi lavoratrici. Tale unità non fu certo realizzata senza contrasti, tant'è vero che lo sciopero generale già fissato per la metà di febbraio dovette esser rinviato. In seno al CLNAI sostennero la decisa volontà dei Comitati di Agitazione e dei comunisti specialmente il Partito d'azione e il PSI. Ma non furono pochele resistenze che si dovettero superare.

In ogni regione, i partigiani e i gappisti appoggiarono il grandioso movimento operaio con audaci azioni contro i tedeschi ed i fascisti. I gappisti e i partigiani a Torino organizzarono numerosi atti di sabotaggio, fermarono vetture tranviarie, interruppero linee elettriche e telefoniche. Nelle Valli di Lanzo e in provincia di Cuneo dove opera la brigata "Garibaldi-Cuneo" tutti i treni che dalle valli alpine scendono verso Torino sono fermati dai partigiani, che prelevano fascisti e tedeschi e li fanno prigionieri.

Il l° marzo distaccamenti garibaldini, bloccata la linea ferroviaria Ceva-Ormea, procedono dopo un violento conflitto con un distaccamento di repubblichini all'occupazione di Ceva.
I partigiani entrati in città, danno l'assalto al municipio, dove è asserragliato un reparto tedesco, e lo costringono alla resa. Alle ore tredici i partigiani occupano la stazione ferroviaria, e si impossessano di numerose casse di bombe e armi trovate nei depositi. fanno prigionieri altri tedeschi e fascisti Alle tredici e trenta riprendono l'attacco assaltando la caserma dei carabinieri, che si arrendono senza opporre resistenza. Alle quattordici e trenta l'azione è terminata ed i partigiani, centocinquanta in tutto, dopo aver requisito camion e macchine su cui caricano le armi e le munizioni conquistate, partono inneggiando all'Italia.

Le squadre gappiste interrompono a Milano e asportano tratti di binario abbattono piloni, , attaccano con le armi pattuglie di militi repubblichini e di tedeschi uccidendone una dozzina e ferendone un gran numero.
Tanto nell'Emilia, nel Veneto che e nella Toscana le linee ferroviarie principali e secondarie sono interrotte in più punti, a Prato Toscana un treno carico di esplosivi è fatto saltare. Poiché nella Valsesia, nel Biellese, e nell'Ossola la presenza di forti formazioni partigiane avrebbe assicurato la completa riuscita dello sciopero generale, gli operai pnella Valsesiarima che lo sciopero fosse dichiarato vennero messi «in ferie». In alcune località come a Gattinhara, Borgosesia, Grignasco, Omegna, e a Vercelli dove gli operai non erano stati messi in vacanza lo sciopero riuscì completamente.
A Novara città, un tentativo di reazione fascista si ebbe alle officine meccaniche Sant'Andrea dove intervenne un gruppo della «Muti» ed il fascista Belloni tentò di arringare gli operai. L'energico comportamento dei lavoratori impedì al gerarca di parlare.

Nell'interno di molti stabilimenti e nelle strade ad essi adiacenti avevano luogo comizi volanti tenuti in molti casi da oratori improvvisati ed anche da partigiani.


Eravamo quasi al termine del primo terribile inverno di guerra. Lo sciopero generale dava ai partigiani duramente provati dalle fatiche e dalle privazioni imposte dalla rigida stagione la testimonianza che essi non erano soli nella lotta.
La grande maggioranza dei giovani combattenti nelle formazioni, allo stesso modo di quelli che lavoravano nelle fabbriche, conoscevano per la prima volta il valore di questa arma potente: lo sciopero generale; conoscevano per la prima volta la grande forza dell'unità della classe operaia.

Durante tutto il 1944 e sino al momento dell'insurrezione di aprile la fabbrica fu il punto di aqppoggio della lotta contro i tedeschi e i fascisti, le agitazioni degli operai appoggiarono le azioni partigiane e queste a loro volta contribuirono a rendere più facile il successo delle rivendicazioni dei lavoratori. Non solo le formazioni garibaldine diedero sempre il loro appoggio agli operai durante gli scioperi, ma intervennero spesso direttamente presso gli industriali in favore dei lavoratori per chiedere il rispetto dei contratti, degli orari di lavoro, il riconoscimento delle commissioni interne.

Il generale Cadorna, nel suo libro La Riscossa, pubblica un rapporto certamente stilato da qualche tirapiedi di un grande industriale, nel quale l'anticomunismo sprizza da ogni riga, tuttavia tolte le esagerazioni, esso conferma lo stretto legame che vi fu sempre tra le azioni dei partigiani e la lotta degli operai.
«Tutti i capi delle formazioni garibaldine sono comunisti: la loro propaganda fra gli operai e i salariati in genere è molto attiva, cercano di accattivarsi l'animo della popolazione mostrandosi quali paladini della classe operaia, estorcendo dagli industriali con la minaccia delle armi contratti di lavoro sproporzionatamente favorevoli con condizioni tali da impedire il normale andamento dell'industria. Con tutto questo forzano la mano dei CLN i quali sono costretti a ratificare il fatto compiuto».

In realtà le formazioni garibaldine intervennero sempre soltanto per appoggiare le giuste rivendicazioni dei lavoratori, per impedire - quando questo era possibile - che la produzione fosse consegnata ai tedeschi, operando in modo energico nei confronti di quegli industriali che collaboravano col nemico.
Numerosi documenti stanno a testimoniare come l'intervento dei partigiani contro società e singoli industriali fosse motivato da fini altamente patriottici: agire contro coloro che con ordinanze all'interno delle fabbriche tradivano la patria.

 

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60° anniversario...

In occasione del 60° anniversario della coraggiosa rivolta operaia del marzo 1944 contro l'occupazione nazi-fascista il PMLI esprime eterna riconoscenza ai milioni di lavoratori, donne, giovani e antifascisti che a partire dal 1° marzo 1944 diedero vita alla più grande mobilitazione di massa contro le armate nazi-fasciste nell'Europa occupata. Oltre 1 milione e 200 mila lavoratori incrociarono le braccia e inflissero un colpo durissimo ai nazi-fascisti, contribuendo in maniera determinante alla loro definitiva sconfitta.
Quasi 4 anni di guerra, milioni di morti, sfollati e feriti, città interamente distrutte dai bombardamenti, la fame, i razionamenti, i salari decurtati, la giornata di lavoro che superava le 10 ore, l'insopportabile militarizzazione del lavoro e l'economia di guerra, con il supersfruttamento e la feroce repressione di qualsiasi tentativo di ribellione, avevano oramai ridotto allo stremo la sopportazione del popolo italiano.
Ma le cause principali che portarono agli scioperi del marzo '44 non furono solo economiche e sociali. Sul piano politico va ricordato che, dopo la caduta del regime mussoliniano il 25 luglio del '43, l'armistizio badogliano dell'8 settembre, la riorganizzazione dei fascisti sotto le bandiere della "repubblica di Salò" e la conseguente occupazione nazi-fascista, la situazione diventò ancora più dura e alla classe operaia apparve chiaro che ormai l'unico modo per ottenere la pace e riconquistare la libertà era la ribellione di massa contro gli aguzzini in camicia nera.
Un potente impulso in questa direzione lo esercitò sul gruppo di operai comunisti che organizzarono la protesta e sull'intero proletariato italiano la vittoriosa battaglia di Stalingrado e la grande controffensiva sovietica che tra la fine del '42 e l'inizio del '43 capovolse le sorti del conflitto mondiale, infliggendo una dura e irreversibile sconfitta alle armate hitleriane (e anche italiane), che fino ad allora sembravano invincibili su tutti i fronti. Va ricordato che già l'anno prima, il 5 marzo del '43, c'erano stati i primi scioperi alla Fiat. Oltre che a Torino gli operai erano scesi in sciopero a Milano, Porto Marghera, Bologna e Firenze ed erano riusciti a strappare un pur misero aumento salariale e qualche pacco viveri, ma la miseria e la fame continuavano a farla da padrone soprattutto quando tra il gennaio e il febbraio del '44 i fascisti e i capitalisti tolsero agli operai sia gli aumenti che i pacchi viveri.
Di fronte a questa situazione, il 1° marzo 1944 i lavoratori delle fabbriche del Centro-Nord ancora occupate dai tedeschi scendono in sciopero: per una settimana la grande industria italiana si ferma. L'aumento della produzione imposta dai tedeschi subisce un duro colpo. Epicentro del grande movimento di lotta sono le città di Torino e Milano dove la popolazione è ormai ai limiti della sopravvivenza.
A Torino, nonostante il giorno prima Zerbino, il capo fascista della provincia, avesse comunicato la messa in ferie delle fabbriche, giustificando tale provvedimento con la mancanza di acqua e quindi di energia elettrica, lo sciopero non viene sospeso. Vengono escluse dal provvedimento una serie di fabbriche, tra cui tutto il complesso Fiat, decisivo per le esigenze belliche. Seguendo l'appello del Comitato d'agitazione, diffuso nella fabbriche con un volantino clandestino, il 1° marzo scioperano in 60.000; alla sera Zerbino ordina la ripresa del lavoro per l'indomani, 2 marzo, minacciando la chiusura degli stabilimenti, con perdita delle retribuzioni, arresti e deportazioni in campo di concentramento, licenziamento in tronco e perdita dell'esonero per i lavoratori che hanno l'obbligo del servizio militare.
Nonostante queste minacce il 2 marzo l'esempio degli operai Fiat viene seguito dalla stragrande maggioranza delle fabbriche in attività (Zenith, Viberti, Ceat, Rasetti) e scioperano in 70.000, mentre in città vengono sabotate diverse linee tranviarie.
Il 3 marzo gli operai della Grandi Motori Fiat vengono attaccati dai fascisti all'uscita della fabbrica e numerosi sono i feriti. Intorno a Torino intervengono a sostegno dello sciopero le formazioni partigiane insediate ad ovest della città con l'obiettivo di interrompere i collegamenti tra Torino e le valli di Lanzo, la Val di Susa, la Val Sangone e la zona di Pinerolo.
In Valsesia sono i partigiani garibaldini a decretare lo sciopero, mentre in Val d'Aosta vengono compiuti atti di sabotaggio a sostegno dello sciopero: vengono interrotte le linee elettriche e danneggiati gli impianti per paralizzare alcuni dei più importanti complessi industriali della regione.
Il 3 marzo la Fiat dichiara la serrata degli stabilimenti e da quel momento tutte le fabbriche sono bloccate o dalla serrata stessa o dalla presenza di presidi fascisti e tedeschi.
In tutto il Piemonte sono oltre 150 mila gli operai che hanno scioperato.
A Milano e in tutta la zona industriale limitrofa lo sciopero assume subito un carattere generale. Accanto agli operai delle fabbriche si fermano infatti per tre giorni anche i tranvieri, che paralizzano il trasporto pubblico della città, gli operai del "Corriere della Sera", che per tre giorni di seguito non esce in edicola, e gli impiegati della Edison e della Montecatini.
Il generale delle SS Paul Zimmerman decreta lo stato d'assedio delle fabbriche, intima la consegna delle liste degli operai schedati come sovversivi, fa sospendere ogni pagamento dei salari. Ma lo sciopero non si arresta e prosegue sino all'8 Marzo, coinvolgendo sia le grandi fabbriche che le decine e decine di piccole e medie industrie.
Alla Breda di Sesto San Giovanni un ufficiale delle SS intima agli operai: "Chi non lavora esca dalla fabbrica e chi non lavora ed esce dalla fabbrica, è un nemico della Germania". Gli operai gli rispondono uscendo, uno ad uno, dalla fabbrica. Sempre a Sesto San Giovanni, la Magneti Marelli entra in sciopero compatta alle 10 esatte del 1° marzo: è un'operaia di 18 anni, Teresina Ghioni, che si prende l'incarico di abbassare, sotto gli occhi dei tedeschi, le leve a coltello per interrompere l'erogazione di energia elettrica all'intero stabilimento. Molte fabbriche, tra cui la Pirelli, vengono occupate militarmente. Si calcolano circa trecentomila scioperanti sin dal primo giorno, nonostante la reazione dei nazifascisti che cercano con ogni mezzo di fermare i lavoratori: arresti, deportazioni, ritiro delle tessere alimentari.
Compatta la partecipazione allo sciopero dei tranvieri milanesi. Per tre giorni su 800 vetture escono solo quelle guidate dai fascisti, che nel giro di poche ore fracassano per imperizia centosessantasei vetture. La lotta dei tranvieri è sostenuta dai gappisti, che fanno saltare la cabina elettrica che fornisce energia elettrica alla rete nord dei mezzi pubblici. Squadristi fascisti irrompono nei depositi dei tranvieri di via Brioschi, via Primaticcio e via Teodosio, per prelevare i conducenti e costringerli con la forza a riprendere il lavoro, sotto la vigilanza di scorte armate. Alcuni tranvieri riprendono il servizio, ma poi abbandonano le vetture per la strada dopo averle rese inutilizzabili. Allo sciopero seguono centinaia di arresti, 35 tranvieri vengono deportati nei campi di concentramento.
Lo sciopero dei tranvieri di Milano ha un notevole risalto nei bollettini delle emittenti radio dei tre grandi Paesi alleati nella guerra contro la Germania nazista.
Radio Mosca: "Viva i lavoratori addetti ai tram milanesi! Grande sciopero generale contro i tedeschi e i fascisti di Salò. Le autorità militari sorprese dalla perfetta organizzazione e riuscita dello sciopero. Fascisti e tedeschi si sono assunti la responsabilità di guidare i tram provocando incidenti nella popolazione. Si registrano morti e feriti. Viva i tranvieri milanesi, a morte i tedeschi. Avanti verso l'insurrezione generale per la fine della guerra".
Radio Londra: "Grande sciopero dei tranvieri milanesi, la parola d'ordine è: via i tedeschi! Abbasso la repubblica di Salò. I lavoratori dei tram hanno dimostrato una perfetta identità di sentimenti con la popolazione milanese. Da Radio Londra inviamo un caloroso e fraterno saluto ai tranvieri per la dimostrazione di fede delle forze democratiche contro il nazi-fascismo."
La Voce dell'America: "Grande entusiasmo ha provocato la notizia che i tranvieri milanesi hanno proclamato uno sciopero generale, in piena occupazione militare nazi-fascista. Tutta la stampa americana esalta il coraggio e il patriottismo di questi lavoratori addetti al servizio pubblico cittadino, sfidando la prepotenza degli eserciti occupanti. Le astensioni dal lavoro sono al 100%. Si vedono per Milano tram condotti da giovinastri volontari delle forze armate nazi-fasciste, provocando gravi incidenti con morti e feriti. Viva i tranvieri milanesi!"
Hitler minaccia fin da subito una repressione durissima e ordina ai suoi aguzzini di deportare il 20% degli scioperanti e metterli a disposizione di Himmler per il servizio del lavoro.
Ma la lotta non si ferma, anzi si intensifica e si allarga sempre di più. Al fianco degli operai si schiera il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) e alle rivendicazioni economiche degli operai si affiancano anche quelle politiche contro la guerra e l'occupazione nazi-fascista. Nonostante gli arresti e la deportazioni di migliaia di lavoratori, lo sciopero dura sino all'8 Marzo, quando il lavoro riprende, in base alle indicazioni date dal Comitato di agitazione interregionale.
Oltre che a Torino e Milano, imponenti scioperi si verificano in tutte le regioni ancora sotto l'occupazione nazi-fascista.
A Legnano gli operai della Franco Tosi, fabbrica interessata alla produzione bellica (mine, tubi di lancio, ecc.), anticipano di quasi due mesi la mobilitazione del 1° marzo e agli inizi di gennaio entrano in sciopero. Il generale delle SS Zimmerman fa visita alla fabbrica nella speranza di poter convincere, con minacce e false promesse, le maestranze a riprendere il lavoro. La lotta invece continua, diretta dai rappresentanti della Commissione interna, che chiedono l'aumento delle razioni di pane, dei salari e degli stipendi.
Per cercare di sbloccare la situazione la mattina del 5 gennaio camion carichi di SS entrano alla Franco Tosi: vengono piazzate le mitragliatrici contro i lavoratori che in quel momento sono radunati nel piazzale centrale dello stabilimento. Tramite un altoparlante viene ordinato ai lavoratori di ritornare in fabbrica, ma nessuno si muove. Allora il comandante delle SS ordina "fuoco", ma fortunatamente le raffiche delle mitragliatrici sono rivolte in aria. I lavoratori si disperdono nei reparti della fabbrica e i tedeschi cominciano la caccia ai rappresentanti della Commissione interna e ai più noti antifascisti.
Ottanta lavoratori vengono portati al carcere di San Vittore; vengono tutti rilasciati alcuni giorni dopo, tranne nove, quasi tutti appartenenti alla Commissione interna, che vengono deportati a Mauthausen.
Dopo lo sciopero di gennaio, i lavoratori della Franco Tosi iniziano una resistenza passiva, con lo scopo di rallentare la produzione bellica e produrre clandestinamente baionette, chiodi a tre punte per bloccare gli automezzi tedeschi, barre di deviamento per far deragliare le tradotte tedesche e i convogli carichi di armi.
In Liguria gli scioperi si concentrano soprattutto nel Savonese. A Savona, a Vado Ligure, a Finale e nella Valbormida si hanno scioperi nelle maggiori fabbriche (Brown Boveri, Ilva, Sams, Servettaz, Piaggio). A Pietra Ligure entrano in agitazione millecinquecento operai. Dovunque si scatena la reazione nazifascista con l'irruzione nelle fabbriche di reparti armati tedeschi e italiani, rastrellamenti interni, arresti e deportazioni. Nella sola Savona i deportati sono sessantasette, di cui solo otto faranno ritorno a casa. A La Spezia scioperano circa seimila operai dell'Oto Melara, della Termomeccanica, dei cantieri di Muggiano, dello Jutificio Montecatini. Alla fonderia di piombo della Pertusola, le milizie fasciste puntano i mitra sulla schiena degli operai in sciopero perché riprendano il lavoro, minacciando fucilazioni e deportazioni.
In Emilia-Romagna, Bologna è all'avanguardia. Qui i primi a scioperare sono gli operai della Ducati. Reparti di SS occupano lo stabilimento, ma non riescono a impedire lo sciopero. I lavoratori si rifiutano di trattare con i tedeschi e i reparti della fabbrica vengono invasi dalle SS, dalle guardie repubblichine e dagli agenti della questura che, armi alla mano, intimano la ripresa del lavoro. L'intimidazione cade nel vuoto e i nazifascisti arrestano 9 operai e 5 operaie tra i più combattivi. L'esempio di Bologna viene seguito dagli operai delle fabbriche di Reggio, Parma, Piacenza e Cesena.
In Veneto si verificano episodi di lotta nei maggiori centri industriali come Schio, Valdagno, Bassano e Porto Marghera. Le donne in particolare sono in prima linea a Valdagno: qui nel lanificio Marzotto, che occupa 4.000 operaie, lo sciopero è compatto.
In Toscana a Firenze scendono in sciopero gli operai della Galileo, della Pignone, della Cipriani e della Ginori. In tutto 20.000 operai in lotta, sostenuti dai Gap che sabotano le linee tranviarie e incendiano la sede dei sindacati fascisti, nella quale erano già state preparate le schede degli operai da inviare in Germania. Scioperi anche in altre città della Toscana, come a Empoli, Abbadia San Salvatore e soprattutto a Prato, dove vengono deportati per rappresaglia circa 400 lavoratori, in massima parte annientati a Ebensee, sottocampo di Mauthausen.
La repressione nazifascista degli scioperi è feroce. Migliaia di semplici lavoratori e di antifascisti vengono arrestati: per loro non ci sono interrogatori, i nazi-fascisti non cercano neppure di provare la loro partecipazione agli scioperi. Vengono portati nelle questure, nelle caserme o nelle carceri; a migliaia vengono deportati in Germania e la grande maggioranza di loro non tornerà più. Difficile fare un calcolo esatto dei diversi "trasporti" verso i Lager. I principali di marzo sono quattro: uno parte da Milano l'11 marzo con circa 100 deportati, destinazione Mauthausen; il secondo il 7 marzo da Torino con 150 lavoratori; il terzo da Firenze l'8 marzo: dopo aver fatto sosta a Fossoli e Verona, giunge a Mauthausen con circa 600 deportati; il quarto si costituisce a Bergamo il 16 marzo - anch'esso diretto a Mauthausen - con oltre 650 deportati provenienti in gran parte da Torino, Milano, Genova, Savona e dall'hinterland milanese. A Torino una relazione fascista del 6 marzo parla di 400 deportati, che probabilmente comprende sia gli operai arrestati sia i giovani catturati nelle operazioni di rastrellamento condotte nelle zone in cui i partigiani avevano con più decisione sostenuto lo sciopero. Altre centinaia furono arrestati e deportati dal circondario di Sesto San Giovanni. In totale si calcola che i deportati siano stati diverse migliaia, di cui il 90% non ritornò a casa a guerra finita.
24 marzo 2004

 

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IL VERCELLESE

Nel vercellese il primo sciopero in risaia, chiamato tumulto, ebbe luogo alla frazione Vittignè del comune di Santhià, nel mese di giugno 1882 e ci vollero 19 arresti per "sedare il tumulto". Il processo si svolse circa un mese dopo, con l'assoluzione dei 19 imputati "non essendo risultato a loro carico nessun fatto speciale che rivestisse carattere veramente delittuoso" che però avevano subito il carcere preventivo.
Il 29 maggio 1898, a Trino, quando venne pubblicato il manifesto che stabiliva in 80 centesimi la paga giornaliera, una fiumana di gente percorse le vie del paese issando sopra i bastoni dei cenci a mo' di bandiera. Contro di essa venne inviata la cavalleria e ci furono 60 arresti di lavoratori: 30 furono subito rilasciati, 5 assolti e gli altri condannati a 12 mesi e 12 giorni di carcere. La paga fu poi portata a 1,25 lire la settimana successiva. All'inizio del secolo cominciò le pubblicazioni il giornale "La Risaia" (dicembre 1900), fondato dall'avvocato Modesto Cugnolio e dal medico Fabrizio Maffi, si costituirono la Camera del Lavoro di Vercelli (24 marzo 1901), la Federazione Regionale Agricola Piemontese (agosto 1901) con sede a Vercelli, di cui fu poi segretario Cugnolio, e le Leghe sindacali di tutti i comuni risicoli vercellesi che lottarono per ottenere le famose tre 8: 8 ore per il lavoro, 8 ore per il riposo e 8 per l'istruzione e lo svago. La lotta sindacale era una lotta legale e sociale, per ottenere l'attuazione del "Regolamento per la coltivazione del riso" del 1896, derivante dal regolamento del 1866, noto come Cantelli dal ministro firmatario, che non fu mai applicato.
Il Regolamento prevedeva che "i lavori della risaia devono iniziarsi un'ora dopo il levar del sole e terminare un'ora prima del tramonto", proprio nelle ore in cui era più attiva la zanzara anofele che procurava la malaria, combattuta poi con il chinino di Stato.
Dopo la conquista a Vercelli delle 8 ore il 1° giugno 1906, il Regolamento venne abolito con la legge Giolitti del 1907, che prevedeva 9 ore di lavoro e 10 per le mondine forestiere. La lotta per le 8 ore proseguì negli anni successivi, tanto che durante lo sciopero del maggio 1909, al passaggio a livello del Belvedere a Vercelli e a Quinto, le mondine si sdraiarono sui binari con i bambini in braccio per impedire il passaggio ai lavoratori forestieri, i quali poi solidarizzarono coi locali. Il 31 maggio 1909 a Vercelli si raggiunse un accordo per le 8 ore e 30 minuti, con l'impegno delle 8 ore per il 1910. Successivamente, nelle elezioni politiche del 1913 a suffragio universale maschile, venivano eletti per il Psi con oltre il 50% dei voti: Cugnolio nel collegio di Vercelli, Maffi in quello di Crescentino e Umberto Savio in quello di Santhià. Durante il Ventennio, nel 1927 e nel 1931, ci furono scioperi in risaia nel vercellese e novarese, contro la riduzione dei salari, e nella primavera 1945 per i salari, la libertà e la pace. Dopo la Liberazione del 1945, a metà degli anni Cinquanta, iniziò l'esodo dalla risaia, che dura ancora oggi.
Dopo aver ottenuto le 7 ore di lavoro negli anni Settanta, attualmente l'Osservatorio Regionale del mercato del lavoro registra, per il 2004, 985 lavoratori dipendenti in agricoltura nel vercellese, di cui solo 307 donne, comprendendo alcune mondariso cinesi che lavorano a togliere il riso crodo. Diserbanti e mietitrebbia hanno sostituito circa 50 mila mondariso, braccianti e salariati, locali e forestieri. Abbiamo così nei piccoli paesi risicoli una grave condizione sociale, con l'invecchiamento della popolazione che in tutto il vercellese registra oltre 35 mila abitanti in meno rispetto al censimento del 1901, situazione unica nella pianura padana. Prima delle elezioni regionali del 2005 si è svolto un convegno delle quattro province risicole piemontesi per costituire il Distretto del riso, con un ritardo di due anni, rispetto alla legge dell'ottobre 2003 che prevede anche "progetti di interesse strategico per l'economia del Distretto, qualora sussistano esigenze di rilievo generale, che ci sarebbero per il territorio vercellese.

CONCLUSIONI

Per il Centenario della conquista delle 8 ore da parte delle mondine, è stata organizzata un'iniziativa l'8 marzo, Giornata internazionale della donna, affinché da questa vittoria si tragga anche un insegnamento sul piano sociale, dei diritti da mantenere e conquistare. Diritti da promuovere nel resto del mondo, estendendo il modello sociale europeo, per attuare la competitività nell'epoca della globalizzazione partendo dai diritti fondamentali, sancito nella Costituzione italiana e richiamati dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi nella sua recente visita a Vercelli.
Per estendere e attuare la democrazia può essere ancora attuale la frase con cui Modesto Cugnolio concluse la presentazione del primo numero di "La Risaia" nel dicembre del 1900: "Vi suoneremo la fanfare del risveglio".

 

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Il 4 settembre di 100 anni fa in Sardegna


Dall'eccidio di Buggerru scaturì il primo sciopero generale della storia d'Italia
Ispiriamoci ai gloriosi minatori sardi per le lotte sindacali d'autunno contro i padroni e il governo di oggi.

In occasione del 100° anniversario dell'eccidio di Buggerru (Cagliari), che vide il sacrificio di 4 minatori trucidati dalla truppa fascista di Giolitti e di decine di donne e bambini feriti negli scontri, il PMLI vuole rendere solenne omaggio al coraggio e alla determinazione dei minatori sardi che il 4 settembre del 1904 scrissero col sangue una delle pagine più gloriose della storia della lotta di classe in Italia e segnarono una tappa fondamentale per lo sviluppo di tutto il movimento operaio e sindacale.
Per noi non si tratta di un rituale puramente commemorativo, ma della rievocazione di un esempio di lotta a cui ispirarsi per affrontare le prossime battaglie politiche e sindacali e per decuplicare il potenziale di lotta contro i padroni e il governo di oggi. La lotta dei minatori sardi di inizio secolo e tutte le battaglie successive fino ai nostri giorni dimostrano che la natura del conflitto di classe fra borghesia e proletariato, fra capitalismo e socialismo è immutata. 100 anni di lotte hanno dimostrato che gli interessi del proletariato e quelli della borghesia al potere sono inconciliabili.

IL QUADRO POLITICO ISTITUZIONALE E L'AVANZATA DEL MOVIMENTO OPERAIO
Tra la fine dell'800 e i primi anni del Novecento l'Europa è scossa da un'ondata di scioperi e proteste popolari volte a ottenere migliori condizioni di vita e di lavoro e aumenti salariali.
Sullo sfondo, le crescenti contraddizioni fra le maggiori potenze imperialiste ormai divise in due blocchi contrapposti preannunciano il grande macello della prima guerra mondiale imperialista.
In Italia, di pari passo con lo sviluppo economico e industriale, in ritardo rispetto al resto del mondo, masse sempre più larghe di operai e contadini attratti dalle idee rivoluzionarie di Marx e Engels prendono progressivamente coscienza della propria condizione di classe; irrompono sulla scena politica animati dalla volontà di lotta contro lo sfruttamento bestiale del capitalismo; si organizzano e danno vita alle prime organizzazioni sindacali.
La risposta della borghesia reazionaria e dei governi Crispi, Di Rudinì, Pelloux, Saracco, Zanardelli e Giolitti contro i "pericolosi portatori di disordine e alterità" è brutale quanto spietata. Furono approvate una serie di leggi speciali che limitavano il diritto di sciopero, la libertà di stampa e di associazione. Gli eccidi di operai e contadini in lotta contro la guerra e la politica di espansione coloniale in Africa e le dure condizioni di vita e di lavoro a cui erano sottoposte le masse popolari erano all'ordine del giorno. Scontri fra "forze dell'ordine" e manifestanti si verificano in varie zone e località della Penisola.
Emblematiche le feroci repressioni contro il movimento dei Fasci siciliani ad opera di Crispi che nel 1893 ordinò l'intervento dell'esercito e proclamò lo stato d'assedio, soffocando nel sangue i tumulti dei contadini che erano scoppiati nell'isola. E quella del 7 maggio 1898 a Milano ad opera del governo Di Rudinì che per sedare i gravi tumulti scoppiati in conseguenza dell'aumento del prezzo del pane proclamò lo stato d'assedio e ordinò al generale Bava Beccaris, in qualità di regio commissario straordinario, di sparare sulla folla provocando centinaia di morti e feriti.
La repressione indiscriminata delle masse in lotta invece di fiaccare la protesta finisce per incentivarla e all'indomani dell'uccisione del re Umberto I per mano dell'anarchico Gaetano Bresci, la borghesia decide di cambiare strategia affidando al nuovo monarca Vittorio Emanuele III e ai governi Saracco prima e Zanardelli poi, il compito di attuare una svolta liberale tale da stemperare il clima esacerbato di scontro sociale e tale da venire incontro alle istanze progressive sempre più diffuse nella opinione pubblica.

L'ASCESA AL POTERE DI GIOLITTI E DEI GOVERNI LIBERALI
Nel 1901 Giovanni Giolitti diventa ministro degli Interni con il chiaro e pragmatico programma di imbrigliare lo sviluppo del movimento socialista, operaio e sindacale, nelle pastoie del parlamentarismo borghese e nel gioco politico-istituzionale col chiaro obiettivo di depotenziarne eventuali sbocchi rivoluzionari.
Nonostante le aperture dei governi liberali la situazione nel Mezzogiorno rimaneva esplosiva.
Nel novembre 1903 Giolitti diventa capo del governo e continua la sua politica "liberalprogressista" giungendo addirittura a proporre a Filippo Turati, capo dei riformisti del PSI, un posto nella compagine ministeriale.
In questo clima di tensioni, cambiamenti, insospettate aperture, inedite manovre politiche, mentre il governo cerca, e spesso ottiene, la collaborazione dell'ala riformista dei socialisti, la base e il mondo dei lavoratori viene attratto dalle prospettive di trasformazione rivoluzionaria.
Durante l'VIII congresso del PSI, tenutosi tra l'8 e l'11 aprile 1904, prevale, seppur di poco, la corrente di "sinistra", e nelle Camere del lavoro del Nord Italia, la tendenza egemone risulta quella di matrice anarcosindacalista e opportunista, sul modello francese: questa corrente guidata da Arturo Labriola, vicina alle teorie di Sorel e Lagardelle, era contrapposta agli opportunisti di destra: i riformisti di Turati e Bissolati, fedeli alla monarchia e favorevoli al governo.
Enrico Ferri cercò di ottenere un compromesso tra queste due ali ma quanto questa linea fosse opportunista e controrivoluzionaria lo si sarebbe visto proprio in occasione dei fatti di settembre a Buggerru.

LA SITUAZIONE POLITICA IN SARDEGNA E LE CONDIZIONI DI VITA E DI LAVORO DEI MINATORI
In Sardegna nei mesi precedenti a quel luttuoso 4 settembre di 100 anni fa, vi erano stati scioperi di scalpellini a Villasimius e alla Maddalena, di conciatori a Sassari e Bosa, di minatori a Lula e a Montevecchio, a Monteponi e a San Benedetto, a San Giovanni e a Ingurtosu. E poi, nei primi giorni del 1904, poco dopo la costituzione della federazione regionale dei minatori, fu la volta di Buggerru, centro che si affaccia sulla costa occidentale dell'isola, allora un grosso borgo di 9mila abitanti circondato dalle miniere di calamina, di blenda e di galena.
Lo sfruttamento delle quali venne assunto da una Società anonima francese con 12 milioni di capitale denominata "Malfidano". Il direttore era un turco, naturalizzato greco: l'ing. Achille Georgiades, coadiuvato da uno svizzero, tale Steiner.
A Buggerru tutto apparteneva alla società francese: i pozzi, la laveria, le officine, i magazzini, la scuola, le case, la terra, sulla quale nessuno poteva costruire neppure un muretto, né raccogliere legna per il focolare, né piantare un albero. Alla società francese apparteneva, oltre a tali proprietà, la vita stessa degli uomini, poiché poteva disporre del loro lavoro, poteva concedere o negare un tetto sotto il quale ripararsi, un luogo nel quale farsi curare nell'eventualità non remota d'un infortunio o d'una malattia (non erano molti i lavoratori che sfuggissero al flagello della silicosi e della tubercolosi che rodevano i polmoni).
I minatori a Buggerru erano più di 2mila e ad essi si aggiungevano le donne addette alla cernita dei minerali e i ragazzi.
I salari giornalieri erano a dir poco miserabili: per le donne "cernitrici" e i ragazzi oscillavano da 0,60 a 1,20 lire; per gli uomini "armatori" da 0,80 a 2 lire e pochissimi arrivavano a 3 lire.
Durissime le condizioni di lavoro.
Nelle laverie lavoravano, secondo le stagioni, dalle 10 alle 12 ore; nell'esterno delle miniere 10 ore, nell'interno 8 ore.
I turni avevano una durata non inferiore alle 9 ore; non esisteva il giorno di riposo settimanale; non esistevano contratti di lavoro, i minatori dipendevano interamente dai "caporali" che avevano il potere di assumere, di licenziare, di infliggere multe e di punire i lavoratori più sindacalizzati spedendoli nei punti di lavoro più disagiati. Ciascun minatore doveva provvedere da sé all'acquisto degli strumenti di lavoro e persino dell'olio per la lampada.
Per comprendere il valore reale di questi miserevoli salari basta rapportarli al prezzo di alcuni beni di prima necessità praticati nel 1904 dalla cantina di Buggerru dove il pane costava da 0,27 a 0,34 lire al kg; la pasta a non meno di 0,49-0,55 lire al kg; il vino oscillava da 0,24 a 0,30 lire al litro; l'olio al litro 1,25 lire; formaggio al kg 1,50; zucchero 1,50 al kg; lardo 1,90 al kg e il caffè a 2,80 lire al kg.
Ma la scintilla che diede il via alla protesta scoccò il 2 settembre 1904, quando la direzione ordinò di anticipare di un mese l'entrata in vigore dell'orario di lavoro invernale. Di conseguenza anche l'intervallo del lavoro sarebbe stato ridotto di un'ora.

LA RIVOLTA E LA BRUTALE REPRESSIONE
Quel pomeriggio i pozzi restarono deserti. Gli operai, in una massa che ingrossava via via, si diressero verso l'abitato e il cuore della miniera, interrompendo il lavoro nelle officine e in ogni altro impianto. Fu così anche l'indomani, sabato 3 settembre: pozzi, officine, laveria e magazzini deserti, mentre una gran folla riempiva la piazza.
La società francese corse ai ripari e chiese l'intervento del governo.
Il 4 settembre nel paese giunsero da Cagliari due compagnie del 42° reggimento di fanteria. La folla che gremiva la strada principale del paese li accolse in un silenzio ostile. Poco dopo i soldati con le baionette già cariche si schierarono in assetto da guerra all'esterno dell'hotel dove alloggiavano. Le minacce e i tentativi di disperdere con la forza i manifestanti da parte dei soldati non sortirono alcun effetto. Fu allora che i soldati imbracciarono i moschetti e spararono sulla folla inerme. La tragedia si consumò in pochi minuti: sulla terra battuta della piazza giacevano una decina di minatori. Due, Felice Littera di 31 anni, di Masullas, e Giovanni Montixi di 49 anni, di Sardara, erano morti. Un terzo, Giustino Pittau, di Serramanna, colpito alla testa, morì in ospedale. Un mese dopo anche il ferito Giovanni Pilloni perì.
Il 7 settembre nelle miniere di Buggerru riprese il lavoro: il direttore concesse che per tutto il mese l'intervallo fosse di 3 ore invece di 2. Una modesta vittoria ottenuta a prezzo altissimo.
Ma il sangue versato dai minatori sardi in quella eroica giornata di lotta non scorse invano. La notizia dell'eccidio di Buggerru suscitò grande emozione e clamore in tutto il movimento operaio e sindacale.

LA REAZIONE DEL MOVIMENTO OPERAIO E SINDACALE ITALIANO
La reazione dei lavoratori fu immediata. Manifestazioni di protesta si susseguirono in varie città. La direzione de "L'Avanti" viene letteralmente sommersa da ordini del giorno votati dalle organizzazioni di base del PSI che condannano risolutamente l'eccidio di Buggerru e chiedono l'immediata proclamazione di uno sciopero politico generale nazionale contro il governo.
Fra le prime a mobilitarsi la "Lega di San Gabriele" (Bologna) che: "riunita in adunanza, di fronte ai continui atti di repressione sanguinosa da parte del governo, fa voti che il partito socialista e il proletariato organizzato d'Italia usino - come mezzo estremo di lotta contro tali prepotenze - l'arma dello sciopero generale politico".
"I socialisti padovani attaccano il militarismo asservito al capitale che ha prodotto il nuovo delitto commesso contro i forti proletari sardi lottanti per il diritto alla vita: la responsabilità degli eccidi ricade sul governo sedicente liberale che, con la impunità e gli encomi, incoraggia questa nuova forma di delinquenza. La protesta energica ed unanime dei lavoratori saprà imporre alle classi dominanti quello che dovrebbe essere un principio elementare di civiltà: il rispetto all'esistenza umana".
Da Cagliari: "si nutre fiducia che il partito socialista sappia escogitare il mezzo migliore per impedire che simili carneficine abbiano nuovamente a verificarsi".
Pesaro si schiera: "contro la politica liberticida del Ministero Giolitti che risponde col piombo alla fame dei lavoratori".
Casale Monferrato denuncia che: "L'eccidio di Buggerru compiuto su operai inermi è la risposta sistematica dell'Italia ufficiale al proletariato chiedente migliori condizioni di lavoro e di vita. Il proletariato organizzato, mediante intensa agitazione, ha diritto di chieder conto al governo di questa nuova infamia".
Parole di indignazione giungono anche da 300 scalpellini di Wassen in Svizzera che scrivono per esprimere la loro viva protesta contro "lo zar Giolitti facendo voti che tutti i circoli e leghe promuovano una seria agitazione onde abbia da seppellire questo fucile omicida dei proletari".
E poi ancora le organizzazioni socialiste delle miniere del Valdarno, Sesto Fiorentino, Camerino, Napoli, Pontedera, Bologna, Portolongone, Isernia, Piombino, Ancona e tante altre che spingono per lo sciopero generale.
La reazione indignata del mondo del lavoro, operaio e sindacale si concretizza in una mozione per lo sciopero generale partita dalla Camera del Lavoro di Milano. Ma all'interno della capitolarda direzione socialista spaccata al proprio interno iniziava allora una defatigante "valutazione della proposta" che di fatto finisce per fare il gioco del governo assassino Giolitti.

LA PROCLAMAZIONE DELLO SCIOPERO GENERALE
L'11 settembre si tiene a Milano un grande comizio contro l'eccidio di Buggerru. Dalla cronaca dei giornali dell'epoca si evince chiaramente la spaccatura fra il vertice attendista e opportunista del PSI e la base che invece spinge sempre più decisamente per la proclamazione dello sciopero generale. Su "La Stampa" si legge il seguente resoconto: "Oggi ebbe luogo il Comizio di protesta pei fatti di Buggerru. Circa quattromila persone vi assistevano nel cortile delle scuole di Porta Romana. Molti oratori si susseguirono, tutti violentissimi, tutti inneggianti alla rivoluzione. Il meno violento fu il Dugoni di Mantova, il quale propose di proclamare entro otto giorni, quale protesta contro l'eccidio di Buggerru, lo sciopero generale in tutta Italia. I soli anarchici osteggiarono la proposta. Essi avrebbero voluto la rivoluzione immediata e si scagliarono contro i socialisti, i quali a Buggerru hanno tentato di sedare il conflitto, dicendo che se essi lo avessero lasciato proseguire sarebbe scoppiata La rivoluzione".
Sulle pagine de "L'Avanti" si sottolinea che: "è finito in questo momento il comizio per l'eccidio di Buggerru che riuscì imponentissimo. Parlarono il compagno Scaramuccia, segretario della Camera del Lavoro, il compagno Codevilla, della Commissione esecutiva della Camera stessa, ed altri oratori repubblicani, socialisti ed anarchici, ed Enrico Dugoni della Federazione socialista mantovana.
Infine, dopo 18 oratori, fu votato per acclamazione, su proposta di Dugoni e Codevilla un ordine del giorno in cui il comizio si augura che il proletariato italiano proclami entro 8 giorni lo sciopero generale, ed invita la Camera del Lavoro a farsi interprete presso le organizzazioni di mestiere. Una grande dimostrazione di popolo si svolge al canto dell'lnno dei lavoratori, ma una legione di poliziotti e carabinieri ne vieta la circolazione e procede a 20 arresti".
Il comizio di Milano (di due giorni successivo a quello al Politeama di Monza conclusosi con un nulla di fatto) e l'approvazione dell'ordine del giorno Dugoni sono una tappa fondamentale nel percorso che, in un crescendo di tensione, porta allo scoppio del primo sciopero generale.
Ma furono necessarie altre violenze poliziesche e altri morti prima che il vertice socialista rompesse ogni indugio e desse il via alla protesta. Il 13 settembre ad Anguillara Sabazia (Roma) una manifestazione di contadini contro alcuni grandi latifondisti, fra cui il principe Torlonia e l'onorevole Tittoni, fu repressa dall'esercito e si concluse con decine di manifestanti feriti. Il giorno dopo, 14 settembre, a Castelluzzo (Trapani) i carabinieri aprirono il fuoco contro una folla di contadini che protestano contro lo scioglimento di una riunione socialista. Il bilancio è pesantissimo: due morti e una decina di feriti.
Di fronte alla nuova ondata repressiva finalmente la direzione del PSI fu indotta a proclamare il 15 settembre il primo sciopero generale della storia d'Italia.
La mobilitazione divampò rapidamente in tutta la Penisola dal 16 al 21 settembre, sulla base dell'attivismo delle forze locali e in modo direttamente proporzionale al rapporto tra scontro sociale, organizzazione del movimento, violenza della repressione.
Milano, Monza, Genova, Torino, Parma, Alessandria, Savona, Bologna, Varese, Ancona, Piombino, Roma furono i centri principali di un vasto movimento diretto dalle Camere del Lavoro, che sarebbe giunto in Emilia e nelle Puglie, dilagando nelle campagne.
Di fronte all'offensiva operaia e contadina Giolitti fece preparare un provvedimento per la militarizzazione dei ferrovieri e per la mobilitazione straordinaria dell'esercito, senza però giungere ad attuarli.
Privo di una direzione autenticamente rivoluzionaria, il proletariato italiano non riuscì a dare alla sua splendida mobilitazione di classe quegli sbocchi e neppure quelle conquiste salariali, sindacali e sociali che si era prefisso.
L'esperienza dei minatori sardi e del primo sciopero generale della storia d'Italia confermano che la lotta di classe è il motore della storia. E che il proletariato, per quanto combattivo e determinato, se non è diretto da un partito autenticamente marxista-leninista non potrà mai aspirare alla conquista del potere politico e neppure al pieno soddisfacimento dei propri bisogni immediati.
Questo è l'insegnamento che dobbiamo trarre da quell'esperienza del primo Novecento per dar vita oggi, all'inizio del terzo millennio, con coraggio, determinazione e fiducia nelle masse popolari sfruttate e oppresse a un nuovo autunno caldo contro i padroni, la controriforma delle pensioni, il documento di programmazione economica e finanziaria di lacrime e sangue ed il caro vita. Bisogna buttar giù il governo del neoduce Berlusconi, per l'Italia unita, rossa e socialista.

8 settembre 2004

 

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Operai cenni storici
La figura dell'operaio nasce durante i processi di industrializzazione del XVIII secolo e XIX secolo avvenuti dapprima in Inghilterra e poi anche nell'Europa continentale. Diversamente dagli schiavi dell'antica Roma, l'operaio appare come il primo lavoratore privo di status definito, ossia mancante di garanzie ed assistenze per il vitto e per l'alloggio. Tale condizione ha spinto gli operai a cercare di formare organizzazioni per la difesa dei propri interessi. Non va dimenticato che in origine la figura dell'operaio era costituita, per lo più, da una massa di diseredati, divenuti disoccupati proprio a causa della rivoluzione industriale, che dalle campagne e dai piccoli centri si trasferivano nelle grandi città in preda alla disperazione.
Colletto blu
Il termine "colletto blu", con cui ci si può riferire ad un operaio, trae origine dal tipo di abbigliamento prevalente nei luoghi di lavoro. In passato, ma spesso ancora oggi, gli operai indossavano "abiti da lavoro" tra cui una resistente camicia di colore blu chiaro e la tradizionale tuta di colore blu.
Uno degli elementi distintivi della condizione operaia è una minore richiesta di educazione accademica formale: l'apprendimento avviene spesso direttamente sul posto di lavoro. Il capo di questi lavoratori viene usualmente chiamato capo reparto: il suo compito è quello di assegnare e controllare il lavoro dei subordinati. Solitamente il capo reparto è egli stesso un lavoratore manuale. Nel lavoro operaio è di norma usato un cartellino per registrare l'orario iniziale e finale del lavoro prestato e quindi il numero preciso delle ore sulle quali sarà calcolata la paga. In genere, le ore di lavoro sono fissate rigidamente (si veda lavoro a turni), ma, dopo aver timbrato l'uscita, il lavoratore non ha altri obblighi fino al giorno lavorativo seguente.
Di solito la paga per tali impieghi è inferiore a quella dei colletti bianchi, anche se più alta rispetto a molte occupazioni di ingresso nel mondo del lavoro. Talvolta le condizioni di lavoro possono essere particolarmente faticose o rischiose e, in rapporto alla mole di lavoro giornaliera prestata, il salario risulta spesso non adeguato. Inoltre, con la stipula di contratti a tempo determinato oggi sempre più frequenti, il lavoratore si trova a dover cambiare continuamente occupazione ed incontra maggiori difficoltà per formarsi una famiglia o, più in generale, per condurre una vita autonoma.
Spesso gli operai sono iscritti ad un sindacato di categoria. Queste associazioni utilizzano un processo di negoziazione chiamato contrattazione collettiva, per stabilire i diritti e le responsabilità dei lavoratori rappresentati e per negoziare il salario e i benefit che loro spettano. Esistono, inoltre, leggi, a volte disattese, ed organizzazioni che regolano e controllano la sicurezza sul posto di lavoro.

 

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LO SCIOPERO GENERALE


Venerdì, spontaneamente, senza alcun preavviso, né da nessuna lega organizzato, scoppia lo sciopero generale.
La causa si deve ricercare nel prolungamento dello sciopero dei metallurgici, inasprito dalla denegata concessione delle otto ore fatta dagli agricoltori alle mondarisi, fra le quali si numeravano pur molte donne degli operai disoccupati. In brev'ora si formò un imponente corte di otto o nove mila persone che attraversò tutte le vie della città cantando l'Inno dei Lavoratori, la Canzone delle Otto ore e varie altre canzonette improvvisate dagli scioperanti e invitando la popolazione tutta a voler prendere parte alla protesta. Tutti gli operai risposero all'appello entusiasticamente e tutti i negozi vennero chiusi.
Mai a Vercelli si vide una simile dimostrazione, che riuscì - ripetiamo - maestosa, quantunque siano avvenuti inconvenienti, che deploriamo, dovuti a qualche elemento teppistico, e più che a questi, all'incoscienza di un manipolo di ragazzi che invano gli operai redarguivano severamente.
Dopo aver attraversato l'intera città e i borghi, il corteo che andava man mano ingrassando si recò in piazza Cavour dove si tenne un comizio.
IL COMIZIO
La piazza era gremitissima di gente, rigurgitanti i portici, piene le vie laterali. Sale per primo sul tavolo, accolto da un lungo applauso, il compagno Angelo Fietti, il quale a grandi tratti fa la storia della presente agitazione.
Dice le ragioni che militano a favore delle richieste delle mondarisi, descrivendo efficacemente quale triste lavoro sia quello della risaia. Protesta contro l'inazione dell'autorità municipale, e termina inneggiando alla solidarietà dei lavoratori. Il discorso, spesso interrotto da approvazioni, venne coronato da uno scrosciante applauso.
A lui successe il compagno Somaglino. Egli ricorda in quali misere condizioni si trovino le donne dei metallurgici dopo otto settimane di sciopero voluto dai padroni. Descrive il loro stato d'animo quando seppero dell'ingiusto rifiuto degli agricoltori fatto alle richieste delle mondarisi di Vercelli, fra le quali figurano pure molte donne degli scioperanti. Invita l'autorità a voler frettolosamente provvedere, perchè la fame è cattiva consigliera. E termina, raccomandando la calma che è dei forti. Una lunga ovazione accoglie la chiusa del discorso dell'oratore, il quale invita poscia i presenti a nominarsi una Commissione che si rechi dal sindaco a esporre i "desiderata" degli scioperanti, che sono tre:
- rilascio dei quattro arrestati della sera antecedente;
- accettazione da parte degli agricoltori delle domande delle mondarisi;
- soluzione della vertenza dei metallurgici.
Formata la Commissione, che risulta composta di due mondarisi, due metallurgici (Porta e Rosso), e di Somaglino in rappresentanza della Camera del Lavoro, i presenti si riversarono in piazza dei cereali davanti al palazzo municipale.
Quivi i dimostranti, in attesa del risultato delle trattative, si riunirono a gruppi attorno a bandiere rosse e nere cantando l'Inno dei lavoratori, ed emettendo di quando in quando delle grida di: Vogliamo Otto ore di lavoro!
A mezzogiorno la Commissione, essendo ancora dal sindaco, la folla impazientita incominciò a protestare; perciò il compagno Fietti, salito sulle spalle di due scioperanti, la arringò, nuovamente invitandola alla calma e a sciogliersi. Così fu fatto.
NEL POMERIGGIO DI VENERDI
Al dopo pranzo si tenne un altro comizio nel vasto cortile di S. Andrea, dove pareva fosse convenuta tutta Vercelli. Parlarono Somaglino e Cugnolio, che dissero ai convenuti di aspettare pazientemente, che essi, colla Commissione del mattino, si sarebbero recati dal sindaco, dove si trovavano gli agricoltori, per poter trattare. Nel frattempo, il compagno Fietti intratteneva per più di un'ora gli scioperanti con una conferenza incitante i presenti a volersi organizzare. Dopo, a gruppi di trecento, quattrocento, preceduti da bandiera, e cantando, si recarono davanti al Municipio ad aspettare.
Ma mentre aspettavano, non sappiamo perché, vennero caricati da soldati carabinieri. Una parte degli scioperanti retrocessero, ma la maggior parte, conscia di non aver dato luogo a nessuna provocazione, rimase ferma al suo posto; perciò i soldati e i carabinieri si ritirarono.
Alle ore 17, finalmente, si affacciarono da una finestra del Palazzo Municipale due mondine ad annunziare, facendo segno colle mani che gli agricoltori avevano accettato le loro domande, cioè otto ore di lavoro, 25 centesimi all'ora. La folla enorme che ondeggiava nella piazza come mare in burrasca, scoppiò in un interminabile applauso. Gli scioperanti erano esultanti dalla gioia per la vittoria raggiunta, gioia che si accrebbe quando Somaglino - affacciatosi esso pure a una finestra del Comune - comunicò che il sottoprefetto si era impegnato di far risolvere entro il domani la questione dei metallurgici.
Dopo questa comunicazione tutti gli scioperanti ritornarono nel cortile di S. Andrea dove da Somaglino e Cugnolio venne nuovamente narrato l'esito delle trattative. Per ultimo il compagno Fietti inneggiò alla vittoria, frutto della solidarietà operaia, e chiuse gridando il motto di Carlo Marx: "Proletari di tutti i paesi unitevi!". Invano tenteremo descrivere l'entusiasmo che ha portato questa clamorosa vittoria. Speriamo che questa vittoria operaia sia di ammaestramento a quei padroni medioevali che sdegnano di trattare coi loro operai, e ai lavoratori ancora una volta insegni che solo coll'unione esiste la forza, e quindi accorrano numerosi a farsi inscrivere alla Camera del Lavoro.
DOPO LO SCIOPERO GENERALE STRASCICHI DISPIACEVOLI
Stamane hanno continuato lo sciopero i panettieri, i carrettieri, le argentiere e gli ortolani, malgrado il comizio di ieri, dopo l'esito favorevole dello sciopero generale, avesse deliberato il riprendere il lavoro. Nel cotonificio Bellia e Maggia, causa lo sciopero generale, dicesi siano state licenziate le operaie per due mesi. Sarebbe una vera provocazione. Intanto queste, unitesi alle mondine, le quali non riprenderanno il lavoro che martedì, e agli altri scioperanti, tentarono di far cessare il lavoro negli altri stabilimenti.
Gli scioperanti radunatisi a Porta Torino vennero caricati più volte dalla cavalleria; ma essi non retrocedettero, e ostruirono il passaggio barricandosi dietro a dei carri. Vennero mandati altri rinforzi di fanteria e cavalleria. Si parlava di molti feriti, ma non erano che le solite esagerazioni. Intanto la Camera del Lavoro pubblicò un manifesto invitando tutti gli operai di ritornare al lavoro, come essi stessi avevano deliberato nel pubblico comizio di ieri, pronti a rispondere all'appello che a loro sarebbe nuovamente rivolto qualcosa non venissero entro oggi mantenute le promesse dell'autorità.
Speriamo che il buon senso dei lavoratori trionfi, lasciando questi moti incongruenti. Si pensi pertanto che queste nuove e intempestive agitazioni non serviranno che a diminuire e deformare l'impressione vivissima lasciata in tutta la cittadinanza dalla maestosa dimostrazione di solidarietà data ieri dall'intera classe operaia.

 

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Pala, piccone e dinamite


La costruzione della Ferrovia del Bernina, tra il 1906 e il 1910, richiese il lavoro di migliaia di operai, quasi tutti italiani. La loro storia è un capitolo poco noto dell'emigrazione italiana in Svizzera.

Nel settembre del 1909 nel settimanale della Valposchiavo, Il Grigione Italiano, apparve la cronaca di una visita nei cantieri della Ferrovia del Bernina. L'autore, Valentino Lardi, era un giovane poschiavino emigrato in Italia, animato dalla volontà di riscattare l'immagine, spesso molto negativa, degli operai italiani in Svizzera.

Riferendosi ai lavoratori della ferrovia, Lardi scriveva: "Mi avevano parlato di essi come di gente terribile e sanguinaria, me li avevano descritti come bevitori accaniti di aspretti vini valtellinesi e di insipide birre poschiavine, abilissimi maneggiatori di coltello, turbatori di sonni domenicali, schiamazzatori, sovversivi, petrolieri e peggio".

Per contrastare questa immagine, l'autore invitava i suoi concittadini a imitarlo e a recarsi sui cantieri: "Vedranno, e non senza meraviglia, [gli operai] muti, sereni, instancabili, lottare con mirabile tenacia contro i mille pericoli minacciosi che la montagna omicida cova, li vedranno curvi all'opera assidua, lavorare, lavorare come schiavi".

Migliaia di operai
Tra il 1906 e il 1910, la regione compresa tra Tirano e St. Moritz si trasformò in un grande cantiere. Su entrambi i versanti del passo del Bernina, numerose squadre di operai lavoravano alla costruzione della ferrovia. Lungo la linea sorsero ovunque baracche per operai.

"Sembra essere nato in quei paraggi un vero villaggio, ed insolita è l'animazione, soprattutto al giungere della corrispondenza e nelle ore vespertine, nelle quali odonsi in vari luoghi canti e musiche", si legge in una corrispondenza dall'Ospizio Bernina pubblicata dal Grigione Italiano nel luglio del 1908.

In quel periodo lungo la linea del Bernina lavoravano oltre 2000 operai. Complessivamente, durante i quattro anni di lavori, gli operai furono alcune migliaia. La maggior parte di loro proveniva dal Nord Italia, in particolare dalle province di Sondrio, Bergamo, Brescia e Verona.

Il freddo e la neve
Nei cantieri della Ferrovia del Bernina, gli operai trovarono salari migliori di quelli italiani. Il lungo inverno del passo del Bernina, le abbondanti nevicate, i repentini mutamenti climatici anche in piena estate, misero però a dura prova la loro resistenza.

I lavori dovettero essere interrotti a varie riprese per il pericolo di valanghe o per le tempeste di neve, che rendevano impossibile ogni attività, anche all'interno dei tunnel. Nel dicembre del 1907, un operaio della ferrovia morì congelato sul passo del Bernina, mentre si accingeva a raggiungere la famiglia, a piedi, per le feste natalizie.

Il freddo e la neve non solo ostacolavano i lavori, ma rendevano anche più dure le condizioni di vita in montagna. Il 1° maggio 1910, il settimanale cattolico La Patria scrisse: "I poveri e forti nostri operai devono competere alla neve il campo del loro lavoro, spesso anche senza riuscirvi. Si può quindi immaginare il loro stato lassù nei fienili, nelle stalle, nelle improvvisate baracche!"

Gli incidenti
Le basse temperature del passo del Bernina rendevano più pericoloso anche l'uso della dinamite. Le cartucce congelate erano particolarmente sensibili agli urti. Colpite da un piccone o da una pala, potevano causare gravissimi incidenti.

Durante la costruzione della Ferrovia del Bernina, sei operai persero la vita a causa di infortuni sul lavoro. In quattro casi, la morte fu dovuta all'uso di esplosivi. La dinamite fu anche all'origine di numerosi ferimenti, tanto più che i minatori lavoravano senza nessun tipo di protezione. Frequenti erano le ferite agli occhi.

Nei cantieri in alta montagna, i servizi sanitari erano rudimentali. Per raggiungere i luoghi degli infortuni, i medici dovevano viaggiare per ore, in carrozza o a dorso di mulo. Il trasporto dei feriti verso il più vicino ospedale era altrettanto lungo e difficoltoso.

Conflitti di lavoro
Gli anni della Belle Epoque, tra il 1880 e il 1914, furono caratterizzati in tutti i paesi industrializzati da numerosi scioperi e serrate. Nel maggio del 1907, uno sciopero degli operai edili in Engadina alta coinvolse almeno un migliaio di lavoratori italiani. A quello sciopero gli operai della Ferrovia del Bernina non parteciparono, se non marginalmente, ma durante la costruzione della ferrovia vi furono altri episodi di conflitto.

Nel luglio del 1908, a quanto riferiva il settimanale socialista valtellinese L'Adda, una cinquantina di operai indisse uno sciopero per chiedere un risarcimento per i giorni di riposo forzato dovuti al maltempo.

L'impresa, spinta dalla preoccupazione di non perdere buoni operai nel momento di maggior fermento dei lavori, venne subito incontro alle rivendicazioni. "E questo si è ottenuto con una sola ora di braccia incrociate!", notò L'Adda.

Rapporti con la popolazione
Nel borgo di Poschiavo, durante le feste di Pasqua del 1908, regnava come sempre una grande animazione. Nonostante il freddo, bambini e giovani passeggiavano allegramente fra le vie del paese. "Specialmente il sesso gentile ci tenne anche quest'anno, come tradizione, ad uscire facendo pompa di toilettes dell'ultimissima moda", riferiva il Grigione Italiano.

L'idillio borghese fu però turbato dalle comitive di operai scesi in paese dai cantieri della ferrovia, che "davansi ad ogni specie di sollazzi, fra i quali naturalmente canti, che non si ponno qualificare di classici, musica d'organetti a mano e visite obbligatorie di certe osterie speciali".

In Svizzera, all'epoca, gli operai italiani avevano una pessima fama. Il risentimento degli svizzeri era sfociato in alcune occasioni in vere e proprie cacce all'uomo contro gli immigrati italiani. Anche in Valposchiavo l'attenzione dell'opinione pubblica era spesso richiamata da fatti di cronaca in cui erano coinvolti degli operai: soprattutto casi di ubriachezza, risse, schiamazzi notturni.

La questione fu molto dibattuta nella stampa locale. Nell'estate del 1909 il Grigione Italiano pubblicò il comunicato di un gruppo di cittadini di Poschiavo che si lamentava del decadimento dei costumi nel borgo, a causa dei balli e degli schiamazzi notturni sempre più frequenti. La responsabilità era fatta ricadere su "certi operai".

Poco tempo dopo, un portavoce degli operai rispose: "Quel comunicato manifestò l'odio di classe e tanto più riprovevole, inquantoché dovrebbesi riflettere che l'agiatezza di gran parte delle famiglie di Poschiavo è dovuta all'emigrazione in paesi stranieri, e tra questi, la buona parte in Italia dove loro stessi, pur di guadagnar del denaro, non saranno stati ad osservare se quello proveniva da mano signorile o plebea".

Andrea Tognina, swissinfo.ch

 

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I DIRITTI DEGLI OPERAI

Il diritto di essere licenziati individualmente senza giusta causa.
Un anno di attacchi all'articolo 18. da parte del governo e della Confindustria si è concluso con un accordo firmato da CISL e UIL che toglie l'obbligo al reintegro per le piccole aziende. La libertà di licenziare ha fatto un altro grande passo in avanti.

Il diritto di essere licenziati a migliaia, perché le aziende devono tagliare i costi e continuare a fare profitto. Prima ti ammazzano di lavoro sulle linee, poi ti buttano in mezzo ad una strada, è ancora necessario per incrementare i profitti, lo chiedono gli azionisti.
Gli operai esercito industriale attivo e di riserva, vengono spinti dal ciclo dell'industria dei padroni verso la miseria senza stabilità, senza futuro.

Il diritto di subire l'aumento dei prezzi, misurare i salari che scendono mentre è quasi impossibile fare qualunque lotta per consistenti aumenti salariali. CISL e UIL fanno già ostruzionismo alle richieste contrattuali e la FIOM prigioniera della politica dei redditi è molto contenuta nel livello delle richieste.

Soprattutto il diritto di essere presi in giro.
Ora tutti esprimono solidarietà agli operai FIAT, ogni Partito si cura della zona dove prende più voti. A.N. è sensibile per Termini Imerese, la Lega e Formigoni per l'Alfa di Milano. Berlusconi "il presidente operaio", non può fare licenziare gli operai senza dire niente, mette in scena una pagliacciata dove dichiara serioso che se ne occuperà personalmente.
L'opposizione fa il solito gioco: garanzia a parole per il futuro, in cambio di licenziamenti concreti oggi. Con questa logica hanno sempre accettato ovunque di chiudere le fabbriche, con la stessa logica i sindacalisti di CISL e UIL hanno concordato a luglio con la FIAT il taglio di 3 mila posti e non se ne vergognano.

Alla fine si accorderanno tutti, perché tutti sono sostenitori dei padroni. S'accorderanno sui licenziamenti, per renderli più morbidi con gli ammortizzatori sociali. Gli operai ancora un volta dovranno accontentarsi di sopravvivere con il miserabile sussidio di disoccupazione, andando ad ingrossare l'esercito industriale di riserva.
A questo stato di cose bisogna reagire subito, basta con piccoli scioperi e processioni di comodo, basta con gli inviti alla calma per imbrigliare la protesta! Se la protesta degli operai non li spaventa, continueranno per la loro strada senza fermarsi. Siamo solo agli inizi, la crisi economica scaricherà sugli operai sacrifici inauditi.

 

 

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I diritti dei lavoratori


Il diritto al lavoro è riconosciuto a tutti i cittadini dall'art 4 della Costituzione in base al quale la Repubblica promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ciò vuol dire che lo Stato, deve creare le condizioni per la piena occupazione dei cittadini e deve tutelare anche il diritto del lavoratore a conservare il posto di lavoro non consentendo licenziamenti immotivati.
Lo stesso art. 4 della Costituzione stabilisce che il lavoro è anche un dovere per il cittadino, che deve concorrere al progresso materiale e spirituale della società.
Il diritto al lavoro si ricollega a varie disposizioni costituzionali: all'art. 1, secondo il quale l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro; all'art 2, che richiede a tutti l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; all'art. 3, che affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese.
In tal modo, il diritto al lavoro previsto dall'art. 4 diviene parte delle disposizioni contenute nei Principi fondamentali della Costituzione e contribuisce a qualificare la nostra forma di Stato che viene definita democratica e sociale.
Il diritto al lavoro è riconosciuto a tutti i cittadini dall'art 4 della Costituzione in base al quale la Repubblica promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. Ciò vuol dire che lo Stato, deve creare le condizioni per la piena occupazione dei cittadini e deve tutelare anche il diritto del lavoratore a conservare il posto di lavoro non consentendo licenziamenti immotivati.
Lo stesso art. 4 della Costituzione stabilisce che il lavoro è anche un dovere per il cittadino, che deve concorrere al progresso materiale e spirituale della società.
Il diritto al lavoro si ricollega a varie disposizioni costituzionali: all'art. 1, secondo il quale l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro; all'art 2, che richiede a tutti l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; all'art. 3, che affida alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese.
In tal modo, il diritto al lavoro previsto dall'art. 4 diviene parte delle disposizioni contenute nei Principi fondamentali della Costituzione e contribuisce a qualificare la nostra forma di Stato che viene definita democratica e sociale.
L'art 35 della Costituzione stabilisce un criterio generale e cioè che la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme.
Promuovendo la formazione professionale dei lavoratori, la Repubblica offre ai giovani maggiori possibilità di entrare nel mercato del lavoro, e aiuta i lavoratori già occupati a difendere e a migliorare la propria posizione lavorativa.
Le norme dell'ordinamento internazionale, contribuiscono a proteggere meglio i diritti dei lavoratori, come avviene per tutti i diritti fondamentali.
L'Italia aderisce alle organizzazioni internazionali - come l'Organizzazione internazionale del lavoro - che prevedono diritti di carattere generale, o che rivolgono raccomandazioni, su particolari aspetti della tutela del lavoro.

 

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Nascita del sindacato in Italia


Nella seconda metà del Ottocento, molto in ritardo su altri paesi europei, anche nel Regno d'Italia - proclamato nel 1861 - si insediano, soprattutto in Lombardia, Piemonte e Liguria, le prime forme di industria moderna.
L'Italia è un paese molto povero, ancora prevalentemente agricolo e, su circa 25 milioni di abitanti, solo un milione sa leggere e scrivere. Molti meno quelli che hanno il diritto di voto, disponibile solo in virtù del "censo". Una piccola minoranza di persone maschili, dispone del reddito necessario, elegge i deputati al Parlamento. L'invenzione di nuove macchine e le nascite delle fabbriche suscitano un solido esodo di contadini dalle campagne verso le città, dove si raccolgono le industrie e determinano la formazione di due classi sociali: la borghesia industriale, che possiede i "mezzi di produzione" con i quali si accumula capitale, e il proletariato, che dispone solo della propria "forza lavoro".
È la nascita del capitalismo, che con la "rivoluzione industriale" cambia radicalmente il vecchio lavoro su base artigianale. Tendono a scomparire i vecchi mestieri e l'operaio svolge ora solo operazioni elementari e ripetitive, perde la conoscenza dell'intero ciclo produttivo, si riduce a merce che ha un prezzo come altre merci. E, al primo inizio del capitalismo, il prezzo della merce-lavoro è davvero molto basso: l'accumulazione di capitali richiede il massimo dello sfruttamento del lavoro operaio. Salari che consentono la pura sopravvivenza fisica, orari di lavoro massacranti, disciplina durissima, nessuna forma di tutela per infortuni, malattie, gravidanza, pensioni. Ancora peggio va alle donne e ai fanciulli, largamente sfruttati e sottopagati.

Le Società Operaie di Mutuo Soccorso

Nascono così, e si diffondono molto velocemente, le "società operaie di mutuo soccorso" che - sul modello delle vecchie corporazioni di mestiere - hanno lo scopo di fornire sussidi ai propri aderenti. I soci si autotassano per permettere a chi si ammala, o si infortuna, o alla famiglia di chi muore di poter attingere a un fondo comune. Ugualmente, si sviluppa il movimento cooperativo per combattere il carovita. Mettendosi insieme, si spuntano prezzi più bassi sui generi alimentari e altri beni di prima necessità. Le condizioni di vita sempre più difficili e il diffondersi anche in Italia delle idee socialiste portano gradualmente molte società di mutuo soccorso a trasformarsi in associazioni di resistenza. La cassa comune serve non più ai soli fini assistenziali, ma anche per sostenere le rivendicazioni dei lavoratori in lotta.
A Roma nel 1872, da un convegno nazionale delle società operaie e dei lavoratori tipografi, nasce la "Associazione fra gli operai tipografi italiani", che può considerarsi la prima federazione nazionale di categoria. Nello stesso periodo si trasformano in associazioni di tipo sindacale numerose altre società operaie, passando dalla concezione mutualistica a forme organizzate di resistenza e di lotta. Molte associazioni di mestiere, come i panettieri, i muratori, i ferrovieri e, soprattutto, i tessili sono impegnati in dure lotte contro le impossibili condizioni di lavoro. Particolarmente significativa la lotta nelle fabbriche laniere del Biellese, culminata nel 1877 con lo sciopero di oltre cento giorni per respingere - con successo - la pretesa padronale di imporre regolamenti aziendali unilaterali. Nel 1884 braccianti e lavoratori della terra del mantovano sono protagonisti di grandi lotte per l'aumento dei salari.
Con l'affermarsi del movimento dei lavoratori si fa sempre più forte la spinta all'organizzazione e al coordinamento, unitamente alla richiesta di rappresentanza e di diritti sociali. Nel 1891 a Milano, Piacenza e Torino nascono, soprattutto per l'opera di Osvaldo Gnocchi Viani, le prime "Camere del Lavoro" che uniscono le diverse associazioni di mestiere.

La fine dell'Ottocento
Nell'ultimo decennio del secolo, tuttavia, le classi dominanti tentano, con il governo Crispi, di reprimere con spietata durezza le mobilitazioni sociali che crescono in ogni parte del paese.
Nel 1891-1894 le lotte straordinarie in Sicilia contro il carovita e le tasse, dirette dal movimento dei Fasci siciliani - che riuniscono braccianti, pastori, contadini e lavoratori delle miniere - sono sconfitte da una feroce repressione che porta allo scioglimento delle organizzazioni operaie e socialiste e culmina nell'occupazione militare e nelle condanne inflitte da un tribunale militare.
E ancora nel 1898, a Milano, il generale Fiorenzo Bava-Beccaris stronca nel sangue la protesta popolare per l'aumento del prezzo del pane, ordinando di puntare il cannone sulla folla e provocando decine di morti e numerosi feriti.
Due anni dopo, a Monza, "l'anarchico venuto dall'America" Gaetano Bresci intese vendicare le vittime di Milano uccidendo il re Umberto I, reo di aver premiato il generale per la sua azione.
L'ultimo grande tentativo di reprimere con la forza le crescenti lotte per il diritto all'organizzazione sindacale, l'aumento delle tariffe salariali e la riduzione degli orari di lavoro avviene nel dicembre 1900, con lo scioglimento della Camera del lavoro di Genova. Lo sciopero di protesta, proclamato dai lavoratori portuali, si estende immediatamente agli operai delle fabbriche e coinvolge tutta la città. Il decreto prefettizio di scioglimento viene revocato.
Il grande successo del primo sciopero generale contribuisce a determinare una profonda svolta politica in Italia. Le classi dominanti si accorgono che non è più possibile solo reprimere le rivendicazioni operaie e le forze più forcaiole e reazionarie vengono sconfitte. Si afferma così un nuovo blocco di potere guidato da Giovanni Giolitti, che si propone di favorire il dialogo con il movimento operaio. I primi anni del nuovo secolo vedono, dunque, quale conseguenza delle dure lotte precedenti, un nuovo clima politico che, grazie anche a una fase di espansione economica, favorisce un notevole sviluppo del movimento sindacale.

Nascita della Confederazione Generale del Lavoro

Nel congresso che si svolge a Milano dal 29 settembre al 1° ottobre del 1906 le Camere del lavoro, le Leghe e le Federazioni decidono di confluire in una unica organizzazione e fondano la Confederazione Generale del Lavoro (CGdL). Sono presenti all'atto di nascita delegati di quasi 700 sindacati locali, in rappresentanza di oltre 250.000 iscritti. Il primo segretario generale eletto è Rinaldo Rigola. Qui inizia, formalmente, la centenaria storia della CGIL.
Il governo Giolitti vara le prime leggi di tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, decreta l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, regola il riposo settimanale e impone il divieto del lavoro notturno in alcuni settori. Inoltre, riforma e implementa la Cassa nazionale invalidità e vecchiaia, primo embrione del futuro Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, (INPS). Si firmano i primi contratti collettivi di lavoro con le aziende o su base territoriale. Nascono le prime forme di rappresentanza sui luoghi di lavoro, le Commissioni Interne: i contratti aziendali alla Società Automobilistica Itala di Torino e alla Borsalino ne legittimano, poco dopo la nascita della CGdL, l'esistenza.
Il governo Giolitti vara le prime leggi di tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, decreta l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, regola il riposo settimanale e impone il divieto del lavoro notturno in alcuni settori. Inoltre, riforma e implementa la Cassa nazionale invalidità e vecchiaia, primo embrione del futuro Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale, (INPS). Si firmano i primi contratti collettivi di lavoro con le aziende o su base territoriale. Nascono le prime forme di rappresentanza sui luoghi di lavoro, le Commissioni Interne: i contratti aziendali alla Società Automobilistica Itala di Torino e alla Borsalino ne legittimano, poco dopo la nascita della CGdL, l'esistenza.
La CGdL - che tenta di opporsi alla guerra coloniale - è indebolita nel 1912 da una pesante scissione: gran parte dei sindacalisti rivoluzionari formano la Unione Sindacale Italiana, USI, che a sua volta subirà una scissione da parte dei sindacalisti "interventisti", favorevoli all'entrata in guerra dell'Italia nel 1914. La situazione peggiora con lo scoppio della prima guerra mondiale. La CGdL proclama manifestazioni contro la guerra in tutto il paese e appoggia il gruppo parlamentare socialista che non vota i crediti di guerra.
Quando l'Italia entra in guerra, viene decretata la "mobilitazione industriale", le industrie di importanza strategica sono sottoposte a disciplina militare e viene abolito il diritto di sciopero. Anche la legislazione sociale introdotta nel periodo giolittiano è di fatto abrogata. Su tutto, prevale l'enorme macello di milioni di giovani che insanguina fino al 1918 gran parte dell'Europa.
Alla fine della guerra, le tensioni accumulate durante il conflitto, le promesse ai combattenti non rispettate, l'inflazione spaventosa determinata dalla mancanza dei generi di prima necessità innescano una formidabile ripresa della conflittualità sociale e delle rivendicazioni sindacali.

Il biennio rosso
La forza organizzata dalla CGdL, alla cui guida è stato eletto il riformista Ludovico D'Aragona, cresce, nel "biennio rosso" (così viene chiamato quel periodo), dai 250.000 iscritti alla fine della guerra a oltre 1 milione nel 1919 e 2 milioni e duecentomila nel 1920.
Nel tumultuoso clima politico e sociale del dopoguerra, su cui agiscono con forza anche le suggestioni rivoluzionarie ispirate dalla rivoluzione sovietica, si ottengono grandi conquiste. Nel febbraio del 1919 la FIOM, diretta da Bruno Buozzi, realizza la storica conquista della giornata lavorativa di 8 ore. A Torino, per impulso del movimento Ordine Nuovo di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, si impongono nuovi strumenti di rappresentanza operaia, sul modello dei soviet bolscevichi: i consigli di fabbrica, che dirigono lotte straordinarie come lo "sciopero delle lancette" alla FIAT. Nel 1920 la FIOM presenta agli industriali un memoriale contenente rivendicazioni salariali e normative. Dopo il rifiuto dei padroni a trattare, si arriva rapidamente all'occupazione delle fabbriche, che coinvolge circa 400.000 operai. Il movimento si divide fra chi vuole dare alla lotta un carattere rivoluzionario - e in tal senso si orienta la maggioranza massimalista del PSI - e chi vuole limitarla, come il vertice della CGdL, ai soli contenuti sindacali.
La decisione definitiva spetta al Consiglio nazionale della CGdL che approva, con una maggioranza del 54%, la posizione del segretario generale D'Aragona, favorevole a una conclusione sindacale della vertenza. L'occupazione delle fabbriche del settembre 1920 si chiude con una dura sconfitta e la asperrima reazione padronale al "biennio rosso" non si fa certo attendere.

Il 1948
Alle elezioni del 18 aprile 1948 la Democrazia Cristiana conquista, con il simbolo dello scudo crociato, la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, dopo uno scontro frontale con il blocco della sinistra, unito sotto l'effigie di Giuseppe Garibaldi. Il rischio di una rottura sindacale è sempre più probabile nonostante l'impegno personale di Di Vittorio a mantenere l'unità della CGIL.
Il pretesto che la corrente democristiana cercava per scindersi dalla CGIL è fornito dallo sciopero generale che la Confederazione proclamò a seguito dell'attentato a Palmiro Togliatti, il capo del Partito comunista, avvenuto fuori del Parlamento il 14 luglio 1948.
Si disse persino che la vittoria di Gino Bartali al Tour de France contribuì a evitare una guerra civile in conseguenza dell'attentato. In realtà gli stessi dirigenti comunisti si adoperarono perché il forte movimento di protesta che spontaneamente era scoppiato in tutto il paese non trascendesse i limiti della legalità e in questo senso anche la CGIL proclamò lo sciopero generale.

 

 


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