medicina - medicine

Università degli Studi di Trieste
Facoltà di Scienze della Formazione
Corso di Laurea in Servizio Sociale

Tesi di Laurea

LA FAMIGLIA COME LUOGO CHE PUÒ DARE
IL "PERMESSO" DI CRESCERE


La costruzione di un "Programma di Accompagnamento"
per genitori i cui figli disabili sono inseriti
in un servizio di Formazione Professionale
ed Inserimento Lavorativo (C.F.P.I.L.)


Candidata: Anna Rita Sculli
Matricola: 48001734


Relatore: Prof. Franco Blezza

Correlatore: Dott.ssa Marzia Gasparet

Anno Accademico 1999/2000

Un grazie a Gianluca e Giorgia per aver "sopportato", in questo periodo, una mamma un po' troppo "teorica" e poco "pratica".



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Indice


Premessa 1

Introduzione 3

PARTE PRIMA

RIFERIMENTI TEORICI


Capitolo 1
LA FAMIGLIA DI UN DISABILE 6

Capitolo 2
L'ADOLESCENZA DI RAGAZZI DISABILI E IL RUOLO DELLA FAMIGLIA 13

Capitolo 3
LA DISABILITÀ E IL RUOLO DELLA FAMIGLIA NELLA NOSTRA SOCIETÀ 18

Capitolo 4
IL LAVORO CON GRUPPI DI GENITORI DI DISABILI 23

 


PARTE SECONDA

LA COSTRUZIONE DI UN "PROGRAMMA DI ACCOMPAGNAMENTO"



Capitolo 1
DA QUALI BISOGNI NASCE L'ESPERIENZA DI LAVORARE CON I GRUPPI DI GENITORI 29

Capitolo 2
LA PROGETTAZIONE DEL "PROGRAMMA DI ACCOMPAGNAMENTO" 39

Capitolo 3
I 10 INCONTRI DEL "PROGRAMMA DI ACCOMPAGNAMENTO" 48

Conclusioni 76

Riferimenti normativi 78

Bibliografia 79




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Premessa


"Quando la piccola Wendy, di due anni, dopo aver colto un fiore, lo portò di corsa a sua madre, questa appoggiò le mani al cuore ed esclamò: oh, perché non puoi restare così per sempre? (…) Da allora Wendy seppe che sarebbe dovuta crescere, e che quel crescere addolorava la madre e, forse, era una cosa brutta".
(Barrie J.M. 1996)

L'esperienza di oltre 15 anni di lavoro con famiglie di disabili mi ha portato alla consapevolezza che, senza la partecipazione e condivisione da parte dei genitori di percorsi di autonomia e di emancipazione dei propri figli, ogni intervento educativo può venire vanificato.
Questo lavoro parte dalla convinzione che bisogna recuperare la consapevolezza che si è dei "buoni genitori", perché, come sostiene Ross (Ross, tratta da Gargiulo R.M.,1987), è facile cadere nel sillogismo "se sono un buon genitore, sarò benedetto da un figlio perfetto. Il bambino non è perfetto. Quindi io devo essere un fallimento".
E' importante rafforzare l'autonomia e le competenze dei genitori affinché siano in grado di riconoscere e utilizzare le risorse che hanno già, produrne di nuove per sé e per gli altri, riconoscere ed imparare a modificare le condizioni che creano una situazione di disagio familiare.
Compito dell'operatore è dunque, secondo l'autore, quello di fornire stimoli per favorire ed aumentare nei genitori competenze e conoscenze che possano migliorare la capacità di ciascuno nel dominare gli eventi, laddove è possibile, e di risolvere i propri problemi al fine di trovare un maggior livello di qualità della vita e di ben-essere per tutti i membri della famiglia.
I genitori vengono pertanto considerati una risorsa fondamentale del percorso di crescita dei giovani disabili ed il loro coinvolgimento è di grande aiuto per accelerare il processo di sviluppo dei figli (… il permesso di crescere…).
Questi genitori incontrano situazioni e condizioni che gli altri genitori non dovranno mai affrontare e queste maggiori difficoltà non possono essere superate "amando di più". Essere genitori di un bambino disabile non è un ruolo che una persona sceglie. Spesso i genitori raccontano che hanno la sensazione di essere costantemente giudicati dagli altri, che osservano se stanno compiendo il loro dovere, se danno abbastanza amore, attenzione, se non trascurano qualche cura.
Se comprendiamo per davvero che il loro bisogno è di ricevere informazioni, conoscenze e strumenti, in un clima accogliente e non giudicante, possiamo intraprendere un percorso educativo al termine del quale i genitori possano sentirsi dei "buoni genitori". Una mamma ha scritto "se una ha la capacità e l'esperienza di riuscire ad ottenere l'aiuto di cui ha bisogno nel momento in cui è più opportuno, allora forse, con un po' di fortuna, allevare un bambino handicappato non sarà una sfida troppo ardua" (tratta da Gargiulo R.M., 1987).

 

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Introduzione


Questo lavoro nasce all'interno del Centro di Formazione Professionale ed Inserimento Lavorativo della Provincia di Varese - Settore Politiche Sociali - che si occupa da circa vent'anni di iniziative finalizzate alla formazione ed all'integrazione lavorativa di persone con disabilità intellettiva che hanno terminato la scuola dell'obbligo o scuole professionali e per i quali, comunque, si ritiene necessario un percorso di formazione ulteriore prima di affrontare il mondo del lavoro.
Questa formazione mira a fornire oltre alle abilità di base professionali anche la valorizzazione e la promozione di tutti quegli aspetti della personalità che permettono ai giovani disabili di assumere un ruolo significativo nel contesto lavorativo in cui vengono inseriti.
L'accesso al mondo del lavoro, obiettivo conclusivo del servizio, viene realizzato mediante un tirocinio guidato individualizzato effettuato "in situazione". Il tirocinio diventa mediazione tra "mondo scolastico" e "mondo lavorativo" e rappresenta una importante fattore di facilitazione sulla strada di una reale integrazione in quanto fornisce, anche al soggetto con minorazione intellettiva, l'acquisizione di un ruolo attivo e produttivo nel contesto sociale.
E' importante precisare che successivamente all'assunzione il CFPIL garantisce, a tempo indeterminato, interventi di consulenza e supporto tecnico, con l'obiettivo di mantenere ed incrementare la qualità e la tenuta dell'integrazione lavorativa, sia all'ex allievo che all'azienda.
Nel momento in cui una famiglia si rivolge al nostro Servizio spesso si ritrova a riaffrontare il problema della disabilità e dei limiti del proprio figlio. Nello stesso tempo, però, viene loro proposto come obiettivo finale l'integrazione lavorativa, obiettivo di "normalità" che, di fatto, i genitori non si sono mai sentiti dire, offrire e prospettare.
Con l'inserimento al CFPIL si ha il passaggio da quello che i genitori presentano come "il mio bambino" ad "adolescente" ed infine a "persona adulta semplice". Da una parte inizia il percorso di formazione per il ragazzo, dall'altro dobbiamo far compiere ai genitori un'elaborazione dell'immagine del figlio che "permetta" la sua crescita. Questi "permessi" non sempre sono ottenibili. L'operatore da una parte deve saper accettare e aspettare i tempi di maturazione dei genitori e dall'altra costruire percorsi di informazione e formazione.
I genitori ben informati sono la continuazione e l'estensione del programma educativo e hanno il diritto ad essere coinvolti e di compartecipare alla scelta degli obiettivi prefissati dalla struttura (ognuno per la propria area di competenza). La coerenza e la continuità educativa tra l'ambiente educativo/scolastico e l'ambiente familiare consentono spesso di ridurre i tempi della formazione.
Il coinvolgimento dei familiari nel percorso educativo può avere effetti positivi sull'atmosfera familiare e sulla relazione della coppia; inoltre i genitori, attraverso questo percorso, possono essere guidati ad apprendere a coniugare libertà e regole sapendo fornire, in un clima di accettazione, gli stimoli necessari all'autorealiz-zazione dei figli.




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PARTE PRIMA
Riferimenti teorici

 

Capitolo 1

LA FAMIGLIA DI UN DISABILE

Quando la famiglia di un ragazzo con disabilità si rivolge al Servizio di Formazione Professionale ed Inserimento Lavorativo ha una storia alle spalle fatta di sofferenza e delusioni e, nella maggior parte dei casi, ha vissuto un lungo processo di adattamento rispetto a ciò che è successo nel proprio interno.
In questo processo di adattamento, la famiglia scopre di avere un figlio "diverso", disabile e sa che la storia futura si costruirà intorno a questo dato di realtà. Il primo impatto è sicuramente uno shock: la sensazione di incredulità lascia il posto a quella di impotenza e ad ogni membro viene chiesto di elaborare e convivere, attraverso le proprie risorse, con "l'handicap".
Le reazioni dei genitori possono essere molto varie, ognuno reagisce in modo personale, dal momento che le famiglie in cui entra la disabilità sono tra le più svariate e le cause della disabilità stessa sono tra loro differenti; non ci sono fasce sociali che, per cultura o per benessere economico, si possono considerare protette: l'handicap è una variabile che irrompe nella vita di una famiglia e ne riduce la varianza come conseguenza. (L'Abate L., 2000)
La risposta dei genitori alla nascita di un figlio disabile è stata oggetto di ricerca da parte di Drotar (Drotar D., tratta da Gargiulo R.M., 1987) che, a partire da alcune riflessioni nate da dati elaborati da interviste fatte a genitori in un arco di tempo che varia da alcuni giorni dopo la nascita a cinque anni dopo, ha evidenziato che i sentimenti e le reazioni emotive che si provano hanno tratti comuni.
L'handicap ha una valenza molto forte sul ciclo di vita di una famiglia, perché tende ad inibirlo e a ridurne il processo evolutivo: è come se si bloccasse la storia.
La nascita è da sempre un evento non privo di rischio e crisi, ma la cultura a cui apparteniamo l'ha idealizzata a tal punto e a tal punto distanziata dall'evento "morte", che non è più possibile coglierla nella sua più naturale e reale essenza.
Nelle famiglie in cui nasce un bambino con "problemi" questa idealizzazione diventa ancora più opprimente e il dolore della perdita di un figlio "ideale" deve essere elaborato con la stessa fatica e gli stessi processi con cui si elabora un lutto.
In questo senso, una ricerca che ci fornisce un'angolatura importante da cui inquadrare il processo di adattamento dei genitori ad una nascita che è "diversa" è quella di Moses (Moses K., tratta da Gargiulo R.M. 1987), che è stata mutuata dallo studio sul processo di adattamento ad un evento luttuoso. Moses ha analizzato gli stati di reazione alla morte individuati da Kubler-Ross (Kubler-Ross tratta da Gargiulo R.M., 1987): negazione à patteggiamento à rabbia à depressione à accettazione e li ha applicati all'evento che colpisce i genitori di bambini disabili.
Non tutti i genitori passano attraverso la stessa sequenza di reazioni e le stesse non rappresentano necessariamente le risposte al figlio disabile, ma possono indirizzarsi all'intera famiglia, agli amici, verso se stessi o all'inadeguato intervento degli insegnanti e degli operatori socio-sanitari.
Queste fasi devono essere viste come fluide, in quanto i genitori vi passano e ripassano attraverso, secondo il proprio individuale processo di adattamento: alcuni possono rimanere in uno stadio di dolore e di rabbia, altri non provano alcuna forma di rifiuto. Ognuno reagisce in modo personale, poiché le reazioni sono basate sulle emozioni e l'intensità dei sentimenti e delle reazioni dipende dalla percezione del problema. E' importante per gli operatori la consapevolezza che i genitori di disabili possono ritrovarsi in fasi precedentemente già vissute in momenti importanti della propria vita o della vita del figlio (la scuola nuova, l'adolescenza, ecc.) al fine di comprendere e cogliere in quel momento cosa vivono e provano.


1. Fase dello shock

La maggioranza dei genitori non riesce a credere a quanto è avvenuto, non riconosce il figlio come loro perché non assomiglia al bambino sognato ed atteso. La riposta prevalente è quella di smarrimento, incredulità e negazione. Una mamma ci ha detto, durante un incontro, che guardando il figlio appena partorito ha urlato "lui non è il mio bambino, datemi mio figlio vero".

2. Fase del rifiuto
Il rifiuto è un atteggiamento di difesa e si manifesta, in genere, per la paura dell'ignoto. Il genitore teme ciò che dovrà affrontare ed è solo attraverso tale atteggiamento che il genitore prende tempo per ricostruirsi e ricaricarsi. Spesso si arriva a non accettare nessun tipo di programma terapeutico, medico, professionale e si vanifica ogni cosa dicendo "tanto è inutile, non serve a niente" o comunque non si riesce a credere che qualcosa possa cambiare. L'operatore deve saper valutare di che tipo di rifiuto si tratta per riuscire poi a lavorare. Esiste, infatti, un rifiuto primario quando si ha un figlio disabile ed un rifiuto secondario quando il genitore non riesce a sopportare il comportamento del figlio.

3. Fase della depressione
La depressione è la conseguenza al periodo doloroso e molto spesso tale depressione viene interiorizzata (rabbia contro se stessi); successivamente si crea un rapporto di ambivalenza, che altro non è che l'intensificazione, un po' particolare, delle normali reazioni di amore che un genitore può provare. In questa fase diventa forte il bisogno di dedicarsi completamente e totalmente al figlio dimenticandosi di se stessi, del proprio lavoro, della famiglia. I genitori sembrano "adattarsi" totalmente alla realtà del figlio, non lasciando più spazio al sogno, al cambiamento e ai progressi. Si evidenzia spesso la tendenza ad evitare contatti sociali con gli altri, si cerca l'isolamento da una società troppo giudicante e ostile. Questo atteggiamento serve ai genitori come periodo di recupero, ma può rappresentare uno stato mentale nel quale si rifugiano, ritirandosi dall'ambiente che procura eccessive emozioni.

4. Fase del senso di colpa
Alcune volte il genitore risponde esclusivamente alle necessità di tipo fisico del figlio (dargli da mangiare), ma toglie qualsiasi aspetto di tipo emotivo. Tale atteggiamento parte sicuramente da un senso di colpa, che è forse la sensazione più difficile da superare in quanto i genitori si sentono colpevoli delle difficoltà del proprio figlio; di conseguenza, sentono di dover compensare totalmente le sue incapacità, anche se ciò non dà la possibilità al figlio di far emergere le poche risorse che ha. Il senso di colpa viene vissuto verso di sé e verso gli altri e c'è il bisogno, da parte del genitore, di individuare dov'è avvenuto "l'errore".
Si tende ad accusare i medici, gli insegnanti e tutti i professionisti che hanno avuto a che fare con il proprio figlio e talvolta la colpa è riversata sul figlio stesso, accusato di aver "rovinato" loro la vita, ma essendo quest'ultimo un sentimento riprovevole da dichiarare, lo si soffoca e lo si indirizza verso altro.
Il pensiero collegato al senso di colpa è "se non… ", "se avessi smesso di fumare…", "se fossi andato in ospedale prima…", "se lo avessi portato prima dal dottore". Durante questa fase la reazione più comune è il bisogno di compensazione: il genitore cerca di fare di tutto per il figlio al fine di sedare i propri sensi di colpa. I genitori, per superare questo stadio, hanno bisogno di un ambiente che li accolga e sostenga e dimostri che i loro sentimenti fanno parte di un processo normale e naturale.

5. Fase della vergogna e dell'imbarazzo
Quando il genitore frequenta la società con i propri figli, questi ultimi diventano un momento di relazione e di scambio con gli altri. Il primo vero "ingresso" del figlio disabile nella società comincia con la scolarizzazione: quando il figlio è affetto da handicap ciò è fonte di vergogna. I genitori vedono i propri figli come prolungamento di se stessi, si identificano in loro, ma in questo caso vivono quest'immagine riflessa come qualcosa di sbagliato in loro. Per difendersi da questo, molte volte, mettono in campo due modalità:
- il nucleo familiare si isola perché il confronto è troppo doloroso;
- il nucleo familiare esalta in modo paradossale il ruolo del "super genitore".

6. Fase del miracolo
In questa fase, il bisogno, poco realistico ma molto pressante, è quello di ricercare disperatamente nella scienza o nella religione una soluzione, cercare quindi il "miracolo", dirigendosi verso qualsiasi cosa che prometta di rendere il figlio "normale". Succede infatti di incontrare genitori che si rivolgono a chiromanti, esorcisti, preti, visti come gli unici "professionisti" che possono intervenire con il soprannaturale, là dove la causa non è razionalmente spiegabile.

7. Fase conclusiva dell'adattamento e dell'accettazione
I genitori si abituano poco per volta alla situazione, riacquistando sicurezza nel loro ruolo di padre e di madre. Questo passaggio diventa indispensabile e permette di ricevere delle gratificazioni (si vedono i progressi del figlio). Perché l'accettazione sia durevole e positiva, i coniugi dovrebbero sostenersi a vicenda e comunicare tra loro. L'accettazione è la meta che la maggior parte dei genitori vuole raggiungere, è un processo attivo e continuo, uno stato mentale nel quale si compie coscientemente uno sforzo per riconoscere, capire e risolvere un problema, anche se non si riuscirà mai a cancellare gli stati d'animo negativi che hanno preceduto questa accettazione. Finché i genitori non riconoscono che l'handicap sarà permanente, non sentono che è necessario un "aggiustamento" alla situazione. E' questa una operazione che cominciano a fare solo in questa fase; se fino ad ora si erano semplicemente adattati, adesso l'accettazione, talvolta rassegnata, è il motore che spinge a crescere.

Collegati e trasversalmente presenti, si evidenziano altri comportamenti o reazioni emotive che richiedono un momento di riflessione:

1. Il dolore cronico
Il dolore cronico è una risposta naturale e comune ad un evento tragico come la nascita di un bambino disabile: solo la morte potrà alleviare questa sofferenza. Il dolore cronico è un sottoprodotto della permanente dipendenza del figlio disabile, delle frustrazioni continue che vengono dall'immutabilità delle sue condizioni. I genitori potranno fare un percorso di accettazione del figlio disabile nella misura in cui saranno aiutati ad affrontare il loro dolore cronico e riceveranno servizi concreti che li aiutino a vivere e a costruire un futuro per il loro figlio.

2. Il comportamento "consumista"
Anderson (Anderson E.M., 1977) per definire questo comportamento porta ad esempio quei genitori che richiedono continue visite dallo stesso specialista, di più specialisti o cliniche, in modo che una visita segua all'altra senza possibile soluzione. Altri genitori diventano dei consumatori di terapie, alla continua ricerca di nuova cure, tecniche o programmi di riabilitazione. In questo modo il genitore spera di dimostrare che gli specialisti non solo sbagliano, ma sono anche responsabili delle condizioni del proprio figlio. Anderson crede che questa modalità sia messa in atto dai genitori quando gli operatori non hanno saputo dare adeguata assistenza ai genitori nel loro dolore di fronte al figlio disabile.

3. Il rifiuto dei genitori
Gallagher (Gallagher J., tratta da R.M. Gargiulo, 1987) dice che il rifiuto dei genitori è la conseguenza di una valutazione non realistica e negativa del figlio, al punto che tutto il comportamento dei genitori ne è condizionato.

Gallagher individua quattro modi in cui questo rifiuto può tradursi:

· Fase di sottovalutazione delle possibilità di miglioramento. E' la profezia che si autoavvera: i genitori disistimano il bambino, sottovalutano le sue capacità, stabiliscono degli obiettivi assurdamente bassi e il bambino comincia a comportarsi rispecchiando le aspettative dei genitori.

· Obiettivi non realistici. Il rifiuto nasce dal fatto che i genitori stabiliscono obiettivi irraggiungibili e il bambino viene sgridato e punito proprio perché non li ha raggiunti.

· Fuga. Il bambino viene inserito in una scuola o in un istituto molto lontano da casa ed i genitori razionalizzano la loro scelta dicendo che non sono capaci di badare a lui.

· Formazione reattiva. Questa modalità di rifiuto è dettata da un meccanismo di difesa dei genitori: piuttosto che ammettere i loro sentimenti negativi verso il figlio, esasperano le modalità di accoglienza e di accettazione. Non è una posizione ipocrita, in quanto i genitori credono veramente nella immagine che danno agli altri.





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Capitolo 2

L'ADOLESCENZA DI RAGAZZI DISABILI E IL RUOLO DELLA FAMIGLIA

Quando un genitore mi racconta preoccupato di come il figlio si è rifiutato di uscire a fare una passeggiata con loro perché dice che "sono troppo vecchi" o che vuole vestirsi come vuole lui, sorrido soddisfatta e cerco di spiegare perché questi comportamenti sono positivi: il loro figlio "sta imparando a differenziarsi"…
Winnicott afferma che "portare un contributo alla fecondità culturale del mondo è prerogativa anche dell'ultimo di noi"; per i disabili questo contributo può avvenire solo attraverso la costruzione di un Sé accettabile e sufficientemente consapevole della dimensione "io sono" (Winnicott D.W. 1982, p. 45).
La consapevolezza del proprio essere è strettamente collegata con il ruolo sociale. Nell'ambito della disabilità, Montobbio afferma, infatti, che "non c'è speranza di una identità reale per il giovane handicappato senza l'assegnazione di un ruolo sociale attivo nel mondo degli adulti" (Montobbio E. 1982, p. 60).
Affrontare il tema dell'adolescenza, nel disabile, significa ripercorrere il processo di costruzione del Sé nel bambino, a partire dall'istante in cui prende vita per arrivare a consolidarsi in quella delicata fase evolutiva che è l'adolescenza. Per il nostro lavoro è importante capire come questo percorso sia difficile, e talvolta negato, per il bambino disabile. In ogni bambino handicappato c'è sempre un bambino sano, con tutte le esigenze di ordine affettivo e educativo.
Questo bisogno di normalità va a scontrarsi con i problemi legati alla condizione biologica del bambino con disabilità alla sua nascita e al suo ingresso in famiglia, ed in particolare nella relazione madre-bambino.
La nascita biologica e la nascita psicologica di un bambino non coincidono: la prima è un evento preciso, mentre la seconda si realizza attraverso un processo intrapsichico, progressivo, graduale e spesso misterioso.
Per crescere e diventare adulto ogni bambino ha bisogno di un percorso educativo. L'educazione, come ci ricorda Jaeger, non può essere una "faccenda individuale ma, per sua natura è cosa della comunità" (Jaeger W. 1969, pp. 1-2).
Solo se la cultura sociale, e pertanto la comunità, riconosce e accetta l'handicap e la diversità come appartenenza non sarà più necessario affrontare i normali compiti di educazione e sviluppo connessi al suo esistere come un pesante e faticoso cammino ad ostacoli.
Mannoni illustra gli aspetti della nascita psicologica e biologica in questo modo:
"per la madre, vera o adottiva, esiste un primo stadio, prossimo al sogno, in cui essa aspira ad avere un "figlio"; questo figlio è inizialmente una specie di evocazione allucinatoria di qualcosa della propria infanzia che è andato perduto. Essa crea questo figlio futuro sulla traccia di un ricordo che include tutte le ferite subite, espresse in un linguaggio del cuore o del corpo".
(Mannoni M., 1978, p. 76)

Quando questo figlio, così ardentemente pensato, arriva, la madre va incontro alla prima delusione.
"Eccola, dunque, questa creatura di carne ed eccola anche separata da Lei, mentre a livello inconscio la madre sognava una specie di fusione. A partire da questo momento, con questo figlio da lei separato, la madre tenterà di ricostruire il suo sogno. A questo figlio reale si sovrappone un'immagine fantasmatica che ha il compito di ridurre la delusione fondamentale della madre. Si stabilisce così tra madre e figlio una situazione fittizia in quanto il figlio, nella sua materialità, riveste sempre per la madre il significato di qualche altra cosa…"
( Mannoni M. 1978, p. 76)

E' chiaro che questo processo diventa più intenso e problematico nel caso in cui il bambino abbia un handicap: la distanza tra immagine interna e bambino reale diventa ancora maggiore e maggiori sono pertanto le energie investite per colmare tale distanza o per proteggersi dalla consapevolezza della stessa.
E' dentro questo percorso che il bambino affronta inizialmente un processo di separazione dalla madre, prendendo gradualmente contatto col proprio corpo, con la realtà e con l'oggetto di amore primario diventato persona esterna. Separazione ed individuazione rappresentano per il bambino due aspetti interdipendenti e complementari della nascita psicologica.
E' il superamento della fusione simbiotica con la madre che dà l'avvio all'assunzione delle proprie caratteristiche individuali. Compito questo che Charmet definisce come separazione dalla nicchia affettiva primaria (Charmet G., Rosci E., 1992).
La conquista cognitivo-affettiva di una consapevolezza di "essere separato" equivale a quella dell' "io sono" di Winnicott.; Mannoni dice:
"nel caso della debolezza mentale, il limite intellettivo occupa a tal punto la madre che, di fronte agli altri, essa considererà sempre l'handicap come oggettivo (è in lui che qualcosa fa difetto…). Ogni desiderio di risveglio del figlio viene troncato sistematicamente dalla madre, al punto che il bambino si persuade di "non potere": In ogni caso è appunto in quanto "non può" che egli è oggetto di cura e di amore da parte della madre"
"Quando il bambino lento sorride, la madre non riconosce più quel sorriso come originato da lei. Il segnale tardivo del bambino rimane nel vuoto, non gratifica la madre né il figlio interrompendo la relazione."
(Mannoni M. 1978, p. 77)

Questi brani, che fanno emergere le difficoltà che incontra un figlio disabile nel percorso di differenziazione con la madre ed evidenziano come questa fusionalità venga mantenuta anche in età adulta, non hanno come obiettivo una colpevoliz-zazione della famiglia e in modo specifico della madre, ma ci permettono di sottolineare, anche se parliamo di adolescenza, quanto sia indispensabile lavorare sul "lutto" dei genitori, sull'analisi delle comunicazioni tra loro e il proprio figlio.
L'adolescenza è un momento difficile che va a consolidare il "sé". La separazione e l'individuazione devono avvenire in equilibrio e devono essere permesse, perché altrimenti l'identità personale viene difficilmente raggiunta. Molto spesso il disabile, frenato in questo percorso, non prende coscienza dei suoi limiti, perché protetto dalla paura che osservarsi in modo reale sia una frustrazione intollerabile.
Questa frustrazione, che i genitori lasciano sperimentare ai figli "sani", è invece importante anche nei ragazzi con difficoltà. Il rischio che si corre con un'eccessiva protezione, con il bisogno di continuare a considerare il figlio come un bambino che ha bisogno dell'adulto anche nelle pratiche quotidiane, è quello di creare troppa finzione.
Con queste premesse, non c'è il "permesso" per crescere, ma si genera quello che Montobbio, mutuandolo da Winnicott, definisce "falso sé" …. una sorta di camuffamento compiacente messo in atto da una persona che "si vede costretta", aderendo alle richiesta familiari ed ambientali, ad assumere atteggiamenti e stili relazionali recitativi ed irreali (Montobbio E. 1982, p. 14).
Questa lunga premessa ci riporta a riflettere sulla necessità che i genitori rielaborino il "lutto", al fine di potersi porre di fronte al proprio figlio vedendolo per quello che è realmente e possano perciò permettersi di immaginare un suo futuro nel mondo. Il genitore può accettare per davvero i limiti del proprio figlio nel momento in cui può sperare in un suo futuro; questo incontro pone le basi per attuare un cambiamento e permettere il lungo cammino che porterà il figlio disabile a trasformarsi in un "uomo semplice". Quest'espressione, "uomo semplice", è l'immagine e l'obiettivo che di fatto accompagna i giovani disabili nel percorso di formazione e che permette loro un processo di "normalizzazione". Durante il percorso formativo ciascun allievo scopre di essere capace di fare qualcosa e costruisce un'immagine di sé più realistica; la scuola diviene un punto di riferimento dove sperimentare la competizione ed il confronto, acquisendo lentamente un ruolo.
Per ultimo, mi sembra importante sottolineare che il ruolo dei genitori di giovani disabili può essere spesso diverso: nel nostro caso è il genitore che deve spingere il proprio figlio all'esterno, offrigli occasioni di incontro, organizzare vacanze, ecc. (con gli "altri figli" si lavora sul contenere). Per far questo è necessario avere un obiettivo e credere nel suo futuro e ciò significa dover spingerlo anche nel percorso di crescita; il ruolo di "bambino" bisognoso di cure e di protezione è così radicato, che un genitore deve essere consapevole che il cambiamento per sé e per il proprio figlio è il frutto di percorsi pensati, agiti e verificati ed il ruolo che gli operatori possono avere è solo di accompagnamento e di sostegno, mentre ognuno dei genitori è risorsa per trovare, nella propria casa, nella propria famiglia, con la propria storia, la modalità di risposta giusta per il proprio figlio. E' la famiglia la risorsa base, l'interlocutore fondamentale nel processo di maturazione dei figli.

Possiamo infine aggiungere altre indicazioni che troviamo nei molteplici scritti in questi anni e che possono accomunare tutti i genitori:

· I genitori prima di essere tali sono coppia;

· I genitori dovrebbero essere consapevoli delle proprie difficoltà e delle proprie ansie, delle proprie delusioni e delle proprie fatiche;

· I genitori possono imparare ed acquisire nuove capacità solo attraverso una progressione di esperienze sempre più vaste di socializzazione nel macrosociale;

· I genitori dovrebbero acquisire la consapevolezza dei propri tempi di maturazione e crescita;

· La gestione dei ruoli genitoriali non deve essere rigida, ognuno deve apparire come figura riconoscibile e distinguibile, dai confini netti, diversi ma complementari. E' necessario sentirsi diversi l'uno dall'altro, sia nel ruolo genitoriale, sia nell'identità sessuale, e quindi percepiti e vissuti come distinti dal figlio.



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Capitolo 3

LA DISABILITÀ E IL RUOLO DELLA FAMIGLIA NELLA NOSTRA SOCIETÀ

Per comprendere chi è il disabile e quale ruolo deve avere la sua famiglia oggi è necessario riconoscere e comprendere come si è sviluppato nel tempo l'atteggia-mento dell'organizzazione sociale nei confronti del mondo dei disabili e delle loro famiglie. Attraverso questa strada si può comprendere come le modalità di relazione interpersonali e le risposte istituzionali in ciascun periodo storico non potevano che essere quelle, né positive, né negative, semplicemente espressione di quel periodo, di quei rapporti sociali e della cultura di quel tempo. Spaltro e Piscicelli (Spaltro E., Piscicelli P., 1990) sviluppano uno schema di "possibilità logiche del cambiamento organizzativo" che può aiutarci a riflettere sui cambiamenti sociali prendendo in considerazione da una parte il modo in cui gli uomini si sentono in rapporto con il proprio tempo e con il tempo degli altri (tempo interumano) e dall'altra parte il modo in cui gli uomini, che si fanno promotori e recepiscono un cambiamento, si sentono in rapporto con gli altri e con sé.






· Il rapporto che si determina tra l'andare verso se stessi (privato) e il passato è la nostra storia individuale;

· Andare verso uno spazio di relazione con gli altri (pubblico) in rapporto con il tempo passato è la nostra storia collettiva;

· La relazione con se stessi (privato) in rapporto con il futuro da vita allo spazio che viene definito ricerca di sé;

· Il rapporto tra lo spazio di relazione con gli altri (pubblico) e il futuro determinano lo spazio del cambiamento.

Questo itinerario di conoscenza che l'uomo fa "in relazione con sé" e in "relazione con gli altri" si chiama educazione.

"L'educazione partecipa al processo di crescita e di vita della comunità con le mutazioni di questa, e così alle sue vicende esteriori come al suo sviluppo interno, alla sua evoluzione spirituale. A questo è soggetta anche la coscienza generale dei valori che interessano la vita umana; la storia dell'educazione è quindi essenzialmente determinata dalle trasformazioni della concezione dei valori in una comunità"
(Jaeger W., 1964, pp.1-2).

L'educazione è quindi l'interazione tra individuo e società: l'individuo agisce sul processo della società e quest'ultima plasma e rinnova l'individuo. (Dewey J., 1967).
Lo schema di Spaltro ha la capacità di farci leggere il cambiamento come un rapporto continuo tra la storicizzazione (passato, presente, futuro) e la socializ-zazione (l'individuo in rapporto con sé e con gli altri). Attraverso questo modello si possono ripercorrere i cambiamenti che negli ultimi 100 anni si sono determinati nella nostra società rispetto ai disabili e al ruolo delle loro famiglie.


1. Fase della separazione
Nella prima metà del secolo XX, la società non prevede spazi al suo interno destinati ai soggetti disabili. Le famiglie sono sole e hanno due possibilità:

· trovare risposte per il disabile al loro interno;

· delegare all'istituzione.

I disabili non sono riconosciuti come portatori di diritti, ma persone da assistere e tenere lontano dal "mondo".
La società propone strutture segreganti perché il disabile è ritenuto "inutile", sia per il lavoro che per la scuola e la stessa sua famiglia.
Dal punto di vista legislativo non esiste un normativa a tutela dei disabili; gli interventi economici dello Stato sono rivolti direttamente alle istituzioni.


2. Fase dell'assistenza separata
Alla fine della seconda guerra mondiale, la Costituzione Italiana stabilisce il superamento delle diseguaglianze, compare un interesse sociale verso i disabili, l'handicap viene equiparato ad una malattia. L'attenzione è centrata sulla parte deficitaria del disabile, poca attenzione è rivolta al rapporto disabile/realtà sociale. Le famiglie acquisiscono un ruolo più attivo nei confronti dello stato: si costituiscono le prime Associazioni, attraverso le quali chiedere interventi specialistici e riabilitativi. La società risponde al bisogno delle famiglie di proteggere i disabili; vengono creati centri speciali per disabili (scuole speciali, istituti di riabilitazione), dando quindi una risposta medica di cura in un'ottica emendativa. Dal punto di vista legislativo, nonostante siamo in una fase assistenziale, vengono approvate leggi che, almeno sul piano dei principi, propongono modalità di integrazione. In specifico parliamo della Legge 482/68 inerente il collocamento obbligatorio e la Legge 118/71 che riconosce sia interventi economici che di integrazione sociale.


3. Fase dell'ideologia
Negli anni 1970/1980 sotto la spinta dei grandi ideali egualitari vengono contestate le istituzioni totali, viene contestata la diversità. "Siamo tutti uguali". La diversità viene riferita da una parte a cause sociali e dall'altra viene enfatizzata la diversità come espressione della creatività umana. La spinta del '68 incide nella sopravvalutazione degli aspetti sociali che porta alla chiusura delle "scuole speciali" e a molti istituti.
Si assiste ad un proliferare di associazioni che si differenziano negli atteggiamenti verso la disabilità.
Dal punto di vista legislativo viene attuato un decentramento delle competenze alle Regioni che si occupano di legiferare in materia di formazione professionale, di assistenza pubblica e di assistenza sanitaria. Si avvia quindi una progressiva responsabilizzazione delle realtà locali. A livello nazionale ricordiamo la Legge 517/77 inerente l'integrazione dei bambini handicappati nella scuola dell'obbligo, la Legge 845/78 che assegna alle Regioni l'intera competenza normativa e amministrativa della formazione professionale (compresa l'integrazione "degli allievi affetti da disturbi del comportamento o da menomazioni fisiche e sensoriali…").


4. Fase dell'integrazione
A questo periodo segue la fase dell'integrazione. Le famiglie che hanno sperimentato la scuola dell'obbligo rifiutano le strutture protette e lottano per l'integrazione lavorativa dei propri figli; quelle che hanno i figli già inseriti in strutture protette oscillano da una cauta apertura ai nuovi percorsi di integrazione ad una tenace difesa di quanto a loro conosciuto e di protezione per i loro figli.
Nel periodo che va dagli anni 1980/1990 di fatto si assiste al consolidamento delle esperienze di integrazione nella società delle persone disabili: la fase della pratica dell'integrazione. Le famiglie appaiono inizialmente disorien-tate dai nuovi compiti richiesti; elementi di scissione e di ambivalenza sono presenti nell'azione educativa, sono spesso compresenti richieste emancipatorie e richieste protettive. Sicuramente i disabili vengono riconosciuti come persone portatrici di diritti all'integrazione, ai ruoli sociali attivi e ad una dignitosa qualità della vita. Dal punto di vista legislativo viene promulgata la Legge 104/92 che sintetizza le variegate normative preesistenti ed introduce significative risposte inerenti la prevenzione, la rimozione di situazioni invalidanti, sollecita inoltre la piena partecipazione sociale dei disabili attraverso interventi che devono migliorare l'autonomia personale e l'esercizio dei diritti civili.

5. Fase della riappropriazione
Esiste infine il "qui e ora", mi piacerebbe chiamare questo periodo fase della riappropriazione: i genitori rivedendo e riorganizzando la propria esperienza, tenendo conto del punto di vista altrui, affrontano non una volta per tutte, ma con atteggiamento sempre nuovo e creativo, le decisioni che giorno dopo giorno impegnano ciascuno.
La società ha compreso l'importanza di un ruolo attivo delle famiglie, coinvolgendo anche quelle con figli disabili.
"La salute della famiglia è strettamente interdipendente con la salute della società, la crescita della persona diviene crescita della comunità in cui essa vive, la serenità e il benessere dei genitori divengono poi serenità e benessere dei figli, proprio in un'unica grande rete le cui maglie sono saldamente unite le une alle altre"
(Milani P., 1994, p.16).

Dal punto di vista legislativo stiamo assistendo all'applicazione della nuova legge sul collocamento obbligatorio n. 68/99 che evidenzia la necessità di costruire percorsi "mirati" dei soggetti disabili attuando interventi individua-lizzati con la collaborazione di più servizi (sociali, sanitari e formativi).




***

Capitolo 4

IL LAVORO CON GRUPPI DI GENITORI DI DISABILI

In misura crescente la società sta avvertendo l'esigenza di rispondere ai nuovi bisogni legati al benessere della famiglia, al fine di promuovere una cultura e una mentalità che contrasti i gravi disagi del mondo contemporaneo; questo indirizzo ha, in questi ultimi anni, favorito lo studio e la realizzazione di molteplici interventi educativi rivolti a gruppi di genitori.
Già dal 1992/1993 all'interno delle scuole obbligatorie sono stati organizzati "corsi di formazione per i genitori"; numerose amministrazioni comunali hanno realizzato nei "Progetti Giovani" interventi formativi per genitori, partendo dalla consapevolezza, anche economica, che costi meno "educare i genitori" che intervenire con percorsi riabilitativi su ragazzi adolescenti che manifestino disagi psichici e relazionali. Da questa ricchezza di esperienze e dallo spirito guida che ha portato la realizzazione di interventi che operano per aumentare le competenze educative dei genitori con la consapevolezza della ricaduta del benessere dei figli e quindi del benessere della società, si è cercato di costruire un "Programma di Accompagnamento" che permetta di sentirsi dei "buoni genitori".


Perché lavorare in gruppo?
"Il gruppo è qualcosa di più o, per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri: ha struttura propria, fini peculiari e relazioni particolari con gli altri gruppi. Quel che ne costituisce l'essenza non è la somiglianza o dissomiglianza riscontrabile tra i suoi membri, bensì la loro interdipendenza. Esso può definirsi come una totalità dinamica. Ciò significa che un cambiamento di stato di una sua parte o frazione qualsiasi interessa lo stato di tutte le altre."

(Lewin K. 1972, p. 45)

Per Lewin il gruppo non è un insieme di persone, ma un sistema dinamico che va via organizzandosi attraverso una serie di comportamenti, di interrelazioni, di cambiamenti. Il gruppo diventa per l'individuo un punto di riferimento, in base al quale egli verifica le sue opinioni e i suoi atteggiamenti. Nel gruppo infatti l'individuo ha la possibilità di sperimentare il proprio modo di agire e di pensare, di confrontare il proprio atteggiamento verso gli altri, verso di sé. Il gruppo diventa così un luogo privilegiato di apprendimento e di evoluzione, quasi con un effetto "curativo", perché il confronto con persone che vivono il medesimo problema e interagiscono, condividendo l'obiettivo proposto, permette la costruzione di rapporti stabili dove i soggetti si percepiscono come autori del proprio cambiamento (Kaneklin C., 1993).
Dalla nostra esperienza possiamo affermare che il gruppo può davvero consentire di condividere con altri genitori percorsi di cambiamento solo quando, nella fase di avvio dello stesso, è permesso di condividere e prendere atto della sofferenza che accomuna ogni storia. Il creare un clima che permetta di poter raccontare a se stessi e agli altri il proprio dolore e la propria sofferenza, apparentemente non divisibile con nessun altro, lo scoprire che altri componenti del gruppo provano sofferenze diverse ma analoghe alle nostre, crea la base per poter lavorare davvero in un clima di reale accettazione sia delle proprie che delle altrui difficoltà, alla ricerca di nuove strade e modalità di relazione.
Quando, nell'esperienza di gestione di gruppi di genitori, non è avvenuto questo passaggio di condivisione, non si è riusciti a trasformare il gruppo in risorsa da cui apprendere; ognuno doveva dimostrare la diversità del proprio figlio, non si permetteva di ascoltare l'altro, i conduttori (vissuti come esperti) erano l'unica fonte di confronto a cui fare domande alla ricerca della soluzione.
Queste riflessioni verranno riprese nella definizione della metodologia utilizzata nella programmazione del "Programma di Accompagnamento".
Sicuramente è necessario ripercorre alcuni elementi base per un buon funzionamento del gruppo:

· La finalità - deve esserci conoscenza e chiarezza della finalità per cui il gruppo è stato costruito;

· Gli obiettivi - l'individuazione degli obiettivi congruenti con il contesto di appartenenza;

· I ruoli - la necessità di definire il ruolo sia dei partecipanti che dei conduttori/facilitatori

· La metodologia - che parte da un principio di accoglienza e di modalità di lavoro con i genitori e non per i genitori.

Per poter lavorare con competenza e professionalità nel gruppo, è importante che i conduttori/facilitatori siano consapevoli di alcuni meccanismi e modalità che in esse sono agite; riprendiamo dalla teoria di Bruscaglioni e Spaltro (Bruscaglioni M., Spaltro E., 1987) uno schema di lettura di queste dinamiche:

· La coesione, è un fenomeno che facilita la costruzione di legami tra le persone, determina la condivisione di valori e di motivazioni, afferisce sia all'area socio-affettiva che a quella centrata sul compito;

· Il conformismo, è l'atteggiamento che orienta i membri a condividere le regole comportamentali funzionali sia al clima del gruppo che alla sua organizzazione più operativa;

· Il cambiamento e le resistenze al cambiamento, sono atteggiamenti normali e sempre presenti in ogni persona; conoscere situazioni diverse e apprendere nuove modalità di comportamento inevitabilmente sollecita le persone a mutare comportamenti e pensieri;

· L'interazione tra i membri del gruppo facilita lo scambio ed il reciproco adattamento, che portano alla soddisfazione dei bisogni, sia individuali che dello stesso gruppo;

· La distribuzione dei ruoli: nel gruppo vengono riconosciute e valorizzate le differenze portate dai soggetti come risorsa per l'evoluzione del gruppo stesso;

· La leadership è l'atteggiamento di guida o comunque di influenza che ogni individuo esprime all'interno del gruppo, è la capacità di influenzare il comportamento degli altri;

· L'affettività e i legami collettivi del gruppo generano dinamiche relazionali significative ed effetti sul comportamento individuale.

Da un punto di vista teorico è possibile attingere a diversi modelli, al fine di utilizzare alcuni strumenti e tecniche adatte a rispondere, in modo "creativo", ai bisogni del "gruppo genitori" ed alle caratteristiche personali e professionali dei co-conduttori.



I modelli di riferimento principali possono essere così sintetizzati:

LEWIN "IL GRUPPO DI ADDESTRAMENTO" il gruppo è visto come agente di cambiamento sia individuale che collettivo. Il cambiamento personale è visto come strumento per il cambiamento sociale. L'obiettivo è quello di dar vita ad un processo formativo in cui il gruppo diviene al tempo stesso soggetto ed oggetto di esperienza e di apprendimento. (Lewin K., 1948)

ROGERS "IL GRUPPO DI INCONTRO" Il gruppo ha come obiettivo quella di favorire la crescita, lo sviluppo, la maturità e di migliorare il comportamento e la capacità di affrontare la vita attraverso una comprensione empatica dei problemi dell'altro, in un incondizionato positivo rispetto per ogni persona. (Rogers C.R., 1970, 1976)

BERNE "L'UTILIZZO DELL'ANALISI TRANSAZIONALE NEL GRUPPO" Ogni compo-nente del gruppo apprende e diventa consapevole, attraverso una semplificazione del linguaggio, delle modalità che utilizza nelle relazioni con gli altri. (Berne E., 1979)

BATESON "IL GRUPPO CON APPROCCIO SISTEMICO" Ogni componente del gruppo prende coscienza e riconosce che ogni individuo è un "sistema aperto" dove oltre alle relazioni ed ai processi comunicativi è necessario valorizzare e considerare il contesto di appartenenza. (Bateson G.,1972)

Un ultimo aspetto che ritengo sia lo schema di riferimento che accompagna la nostra esperienza del lavorare con gruppi di genitori è che l'intervento del conduttore è intenzionale, consapevole, metodologicamente corretto, con l'obiet-tivo di sviluppare la partecipazione di tutti. (Zini M.T., Miodini S., 1999)


Queste premesse conducono alla definizione di un progetto che prevede:

1. La missione, la filosofia che guida il progetto

2. Gli obiettivi

3. La metodologia

4. La verifica dei risultati



PARTE SECONDA

La costruzione di un "Programma di accompagnamento per i genitori"


Capitolo 1
DA QUALI BISOGNI NASCE L'ESPERIENZA DI LAVORARE CON I GRUPPI DI GENITORI

…Antonella dopo la scuola media, inizia il suo percorso di formazione al CFPIL nel 1981; dopo alcuni anni è in grado di affrontare il mondo del lavoro, tramite un'esperienza da noi definita "Borsa Lavoro". Il progetto prevede che la giovane disabile venga inserita in azienda come tirocinante, con una posizione giuridica equiparabile a quella di studente; gli operatori sono soddisfatti, Antonella impara con facilità le mansioni proposte e con i colleghi instaura relazioni molto corrette: può diventare una vera lavoratrice, tanto che i responsabili dell'azienda propon-gono di assumerla. I genitori, informati del "successo" del progetto, decidono di interrompere la frequenza della figlia. In quel momento, accanto alla rabbia di vedere il proprio lavoro vanificato, ci si domanda cosa si è sbagliato. Antonella era arrivata al Servizio accompagnata per mano, la mamma diceva che la sua bambina aveva finito la scuola media ed era giusto impegnarla in qualche cosa e poi… "il vostro servizio è così vicino a casa che posso accompagnarla anche a piedi…"; il tempo passa e quella "bambina" ai nostri occhi diventa una giovane ragazza in grado di poter lavorare ma, per la sua famiglia, quello che la figlia e gli operatori del servizio fanno è solo un modo per occupare il tempo. La proposta di un inserimento lavorativo, iniziata nel 1984 presso un'azienda nel paese vicino a casa, trova la famiglia impreparata; ai loro occhi Antonella è solo e sempre una bambina. Antonella viene "ritirata" dal Servizio e rimane a casa con la famiglia.
Da allora sono passati molti anni e l'ammissione al servizio dei giovani disabili prevede, fin da subito, il coinvolgimento delle figure genitoriali, al fine di costruire con esse una "alleanza educativa" che consenta di migliorare l'efficacia del percorso formativo, inserendolo in un "progetto di vita" complessivo per il giovane disabile.
Un altro importante passaggio che mi ha portato a promuovere all'interno del servizio degli incontri con i genitori degli utenti/allievi nasce anche dall'essere diventata io stessa genitore, alle prese con problemi educativi di tutti gli altri genitori.
Ho iniziato a partecipare, come genitore, a "corsi di formazione per genitori" all'interno della scuola materna frequentata da mio figlio. Ho potuto apprezzare quale valore avesse il condividere con altri le proprie preoccupazioni, l'ascoltare altre esperienze… ecco cosa poteva aiutare i genitori degli allievi del nostro servizio: il confronto con altri genitori, dove sentirsi per davvero accolti e capiti.
Inizia così la prima esperienza di lavoro con gruppi di genitori.


"PROGETTO GENITORI" ANNO 1995

In questa prima esperienza, condotta da una Psicologa e terapeuta della famiglia, è stata prevista la partecipazione di circa 20 genitori, i cui figli frequentavano le attività formative di base del nostro servizio (con età compresa tra i 15 e i 22 anni) ed ha visto la presenza dell'assistente sociale e quella della psicologa tirocinante del Servizio (che ha continuato ad operare dopo il tirocinio e che ha contribuito alla continuazione di questa esperienza).
Nel rileggere gli appunti di quella esperienza possiamo trovare il nucleo centrale di partenza di tutte le esperienza successive e che ogni anno abbiamo realizzato con nuovi gruppi di genitori: la difficoltà di affrontare la nascita di un figlio disabile.
Ripercorrere la storia del proprio figlio, dalla nascita alla situazione attuale, permette di far emergere i momenti di maggiore sofferenza, gli aspetti che, per ogni singolo genitore, hanno creato i maggiori disagi emotivi: il senso di colpa, l'intimo rifiuto di un bambino che non è come lo si desiderava, …
L'accorgersi che questi pensieri sono dolorosamente condivisi dagli altri genitori e che le preoccupazioni per il proprio figlio "diverso" sono le stesse di altri, e che altri genitori hanno già affrontato quel problema che si continua a rimandare perché non si trovano risposte…
Tutte queste cose hanno portano alla creazione di un gruppo dove ci si può rispecchiare e ci si può confrontare nelle diversità, purché la sofferenza non sia paralizzante e inutile ma il punto da cui ripartire per riappropriarsi di una genitorialità più autentica. Quando si ripercorre con i genitori la difficoltà di superare le attese disilluse, nel tentativo di difendersi da un dolore che è tanto profondo, si mettono in atto meccanismi di "autoimbroglio" (il dottore dice che il figlio è indietro di qualche anno rispetto agli altri bambini… a 20 anni non ci si accorgerà più… sarà come tutti gli altri…), che permettono di accettare la situazione e di trovare il coraggio di affrontarla. Si cerca la causa o una colpa che faciliti la rassegnazione, spesso rifugiandosi nell'illusione e nella speranza che il deficit del proprio figlio possa per miracolo completamente essere superato. Credere in questa magia non permette di vedere la situazione nella sua reale complessità, ma soprattutto significa non accogliere il proprio bambino con i suoi limiti e con le sue potenzialità e, amandone uno che è solo ideale, non si permette nemmeno a lui di riconoscersi per come è.
Dal percorso a ritroso verso la nascita e la scoperta dell'handicap del proprio figlio, si è passati ad analizzare la situazione attuale e quindi la tematica dell'essere genitori di un adolescente. In questa particolare fase di crescita, la famiglia rappresenta un elemento essenziale di equilibrio e sviluppo per i ragazzi; il rafforzarsi della identità e autonomia di questi ultimi dipende infatti dalle relazioni che li circondano e principalmente dai modelli di interazione con i genitori. Il processo educativo comporta aspetti tra loro diversi ed è spesso complicato dalla difficoltà di trovare un equilibrio tra l'atteggiamento che potremmo definire "dare le radici" e quello di "concedere le ali".
Per "radici" si intende quell'insieme di regole e certezze che rendono il proprio figlio sicuro, ancorato e protetto, mentre le ali sono costituite dalla libertà di divenire indipendenti, pur con tutti i rischi che questo comporta. Perché ad un adolescente venga realmente data la possibilità di crescere è necessario che nessuno di questi due aspetti prevalga sull'altro, anche se di fatto i genitori, in particolar modo quelli con figli disabili, riescono a dare molto bene le "radici" e si irrigidiscono di fronte al bisogno di "concedere le ali".
Il rischio di creare una relazione troppo strutturata con i figli è quello di suscitare risposte aggressive. La continua organizzazione del tempo, la rigidità di alcune regole e la pressante richiesta di comportamenti adeguati, fa scattare reazioni di malessere e di aggressività.
All'opposto, lasciare che una relazione sia del tutto destrutturata e quindi non intervenire a limitare ed organizzare dà apparentemente contentezza ma, in realtà, porta a un non benessere (il figlio che dorme nel lettone spodestando il padre, l'accettare regole e manie del figlio per la tranquillità familiare).
La difficoltà maggiore per un genitore è quella di accettare che il figlio si renda autonomo per paura che non abbia più bisogno delle proprie cure; tenere i figli piccoli serve a garantire la possibilità di sentirsi utili.
Molte volte il "dover concedere" e il bisogno di "limitare" conducono ad un atteggiamento contraddittorio: quello del doppio legame. Gli ordini dati sono in realtà due: si lascia per esempio, la libertà di uscire ma si manifesta l'ansia che ciò causerà. In realtà si comunicano due messaggi opposti: "vai" e "non andare", il ragazzo sbaglia qualunque scelta faccia e l'unica soluzione possibile rimane l'immobilità. Naturalmente in ognuno dei genitori presenti è emersa la convinzione di aver agito nell'interesse dei figli, e solo in un secondo momento si sono accorti che i figli hanno bisogno anche del mondo che è al di fuori del nucleo familiare e che anche altri, oltre a loro, possono amarli per ciò che sono; questo significa farli crescere e diventare "uomini semplici" e permettergli di far parte per davvero della società.
Un altro aspetto emerso nel nostro percorso è il rapporto di coppia, i conflitti che possono insorgere ed in particolare come la nascita di un figlio disabile abbia influito su questa area. Il rapporto familiare può essere strutturato a vari livelli di partecipazione rispetto ad uno sfondo comune di conoscenza. La conoscenza è autentica quando si è veramente interessati all'altro, il rapporto può essere collusivo se ciascuno trascura le differenze di pensiero dell'altro. Avviene frequentemente che le famiglie con figli disabili si sentano più unite delle altre proprio per il fatto di aver lottato e trovato insieme il coraggio di affrontare una situazione tanto complessa e difficile; si può litigare su alcuni aspetti della vita di coppia, ma la problematicità del figlio resta sempre uno spazio dove ritrovarsi vicini.
Il rischio è quello di affidare al proprio ragazzo un ruolo salvifico nei confronti della coppia, il messaggio che può passargli è che, finché ci saranno i suoi problemi a cui pensare, la vita familiare funzionerà bene. In questo caso sono i genitori ad avere bisogno del proprio figlio a volerlo tenere stretto.
Il percorso con "l'esperta" si conclude, mentre il percorso con i genitori continua.


IL "PROGETTO GENITORI" DAL 1996 AL 2000

Nasce così da parte dei genitori la richiesta di poter continuare ad incontrarsi e condividere con gli altri genitori i propri problemi, con la nostra presenza (assistente sociale e psicologa) come figure facilitanti della comunicazione e con la possibilità poterli accompagnare in questo nuovo percorso.
Un aspetto che ci ha coinvolto subito era quello di trovare un linguaggio comune e uno strumento che poteva aiutarci a vedere come avvenivano le comunicazioni all'interno della propria famiglia. Tra le varie possibilità abbiamo scelto di partire con l'analisi transazionale, per dare una lettura alla relazioni coniugali e familiari che fosse semplice da comprendere ma, allo stesso tempo, esauriente e che tenesse insieme sia gli aspetti informativi che quelli più strettamente educativi. In specifico abbiamo scelto di utilizzare gli strumenti conoscitivi offerti dall'orien-tamento che si rifà a Berne (Berne E., 1967) per analizzare le transazioni che avvengono nell'ambito familiare.
In primo luogo sono stati presentati i concetti fondamentali, per poi passare all'analisi delle comunicazioni interpersonali, che permette di leggere dal punto di vista fenomenologico e dal punto di vista comportamentale la strutturazione e l'evoluzione delle relazioni familiari. Tutto ciò non dimenticandoci, in un'ottica sistemica, il contesto in cui si verificano i fenomeni stessi. La famiglia è quindi considerata come il principale contesto di apprendimento nella formazione della personalità dei figli e di conseguenza nella spiegazione del loro comportamento.
La famiglia è il sistema relazionale primario nel processo di individuazione, crescita e cambiamento dell'individuo, considerato all'interno del processo di individuazione, crescita e cambiamento dell'intero sistema familiare.
Jackson (1978) ci ricorda che la famiglia è un sistema governato da regole: i suoi membri si comportano fra loro in maniera organizzata, ripetitiva, che di fatto limita i comportamenti individuali.
Il passaggio fondamentale che permette un percorso educativo di crescita è, da una parte, quello di evidenziare i "meccanismi" di funzionamento della famiglia e, dall'altra, di "problematicizzare" la situazione stessa, al fine di uscire da modalità "omeostatiche" e di "adattamento" che la famiglia mette in atto, per costruire correttamente un progetto di crescita parallelo dei genitori e dei figli (pensato, voluto e agito). Incontrare ragazzi di 15/20 anni e le loro famiglie significa infatti trovarsi di fronte a modalità relazionali consolidate, aspettative spesso non congruenti ed equilibri che, "nel bene e nel male", hanno permesso al sistema di sopravvivere.
Nella metodologia per "problemi", in un'ottica quindi positiva, razionale e costruttiva, il soggetto decide di appropriarsi (nel nostro caso avevamo usato il termine "riappropriazione") delle proprie scelte, della propria storia e di diventare attore di evoluzione culturale. E' nella "creatività" del singolo soggetto che troviamo quel potenziale educativo per individuare "quelle idee" "relativa-mente migliori" per sé e per il proprio figlio. "La vita umana è fatta per la gran parte da piccoli e piccolissimi atti di creatività" (Blezza F. 1996, p. 156).
Il nostro obiettivo è creare il benessere del genitore per creare le basi del benessere tra genitori e figli. L'idea è quella di offrire oltre ad uno spazio in cui i genitori possono esprimersi, ascoltarsi ed ascoltare, condividere le proprie esperienze, riflettere su di esse, apprendere nuove strategie educative, anche un luogo dove prendersi cura di sé come persona prima e come genitore poi, senza paura di sbagliare e di essere giudicati. Una mamma, in un incontro, ha detto "...se sei genitore di un ragazzo disabile sei condannato a essere sempre e solo genitore, non puoi avere una vita tua, pensi che non te lo puoi permettere perché hai un figlio che devi curare per tutta la vita; confrontandomi con il gruppo ho scoperto che posso "pretendere" di avere degli spazi con mio marito, con le amiche,..."
I cambiamenti non possono venire indotti dall'esterno, perché sono falsi e non durano nel tempo e se un genitore non aderisce a questa proposta è perché probabilmente non è pronto a mettersi in discussione e a lavorare su di sé.
Il vantaggio del nostro servizio di formazione ed inserimento lavorativo è che durante tutto il percorso di presa a carico del giovane disabile sono regolarmente previsti, oltre agli incontri dei "gruppi genitori", varie occasioni di confronto per i genitori con gli operatori, finalizzati allo scambio di informazioni ed a valutazioni inerenti tematiche di ordine sia relazionale-educativo che sociale.
Il lavoro quindi con i genitori è sempre parallelo a quello formativo con il figlio. Non essendo una scuola dell'obbligo, la modalità di ammissione prevede un iter di conoscenza reciproca che porta alla formalizzazione dell'ammissione e ad una adesione al progetto proposto, sia da parte del disabile che dei suoi familiari.
Il percorso di conoscenza che attua il servizio per stabilire l'idoneità per l'ammissione lo possiamo definire come una "foto" del qui e ora del giovane disabile (valutare se sono presenti i pre-requisiti dell'apprendimento, se ci sono le condizioni di partenza in termini di conoscenze e capacità necessarie per la definizione dei nuovi obiettivi, conoscere gli interessi, le motivazioni, la matrice cognitiva, i condizionamenti familiari e sociali, la storia personale del soggetto). Quanto maggiore è la distanza che separa la situazione iniziale dell'allievo, che emerge dalla "foto" della situazione di entrata, dal "dover essere", definito dagli obiettivi educativi, tanto più diventa necessario l'impiego di situazioni strategie, materiali, procedure metodologiche e tempo di permanenza all'interno del servizio per rendere il processo di insegnamento/apprendimento efficace ed individualizzato. Sarà, infatti, la distanza fra i bisogni educativi degli allievi, emersi dall'analisi della situazione, e gli obiettivi stabiliti che determinerà l'itinerario formativo.
Contemporaneamente avviene un percorso di accoglienza ed informazione, gestito dall'assistente sociale, con i genitori che ha l'obiettivo di creare un clima di fiducia e di collaborazione che sono le basi per la creazione di un progetto condiviso.
Con i genitori e con i figli, al momento dell'ammissione inizia quindi "un percorso di crescita parallelo", che possiamo graficamente così rappresentare:



Questo percorso, apparentemente così semplice, di fatto richiede un sistematico lavoro:

· degli operatori dello staff finalizzato sia alla progettazione che al monitoraggio e verifica degli interventi didattici e educativi dei giovani disabili;

· un "lavoro di rete" con i servizi territoriali che condividono forme di intervento sociale o specialistico con i nostri utenti e le loro famiglie;

· un lavoro con i genitori per permettere di costruire una "alleanza educativa" che consenta di migliorare l'efficacia del percorso formativo.

L'obiettivo (missione) del servizio è l'inserimento lavorativo, che deve essere condiviso anche dalla famiglia. Al termine del percorso formativo il giovane disabile dovrà acquisire il ruolo di lavoratore.
Non possiamo di certo dimenticare che nel "mondo degli adulti" il Ruolo è ciò che lega il singolo individuo alla complessità sociale e regola ogni rapporto tra le persone all'interno della società stessa.
In sociologia il concetto di Ruolo è legato alla Status ed indica una posizione sociale assegnata o assunta da una persona e ciò determina una serie di diritti e doveri.
Il ruolo di fatto è uno status che diventa azione nel sistema sociale nel momento in cui si fa carico dei doveri e dei diritti connessi.
In un soggetto (che sia disabile o no) inserito in un ruolo, convergono aspettative che di fatto obbligano a determinati comportamenti.
Attraverso il ruolo si attua un processo di interiorizzazione delle regole che possono essere apprese anche da giovani con ritardo intellettivo nel momento in cui è loro "permesso" di sapere con chiarezza ciò che ci si aspetta da lui (Montobbio E., 1994, pp. 43-57).
Il giovane disabile può assumere un ruolo lavorativo solo attraverso l'esperienza ed è pertanto necessario fargli vivere situazioni simili a quelle degli altri ragazzi ed è la famiglia che deve "autorizzare" e dare i "permessi" per un percorso verso il mondo dei grandi.
Si diventa "grandi" quando si accettano i propri limiti e le proprie difficoltà ed è proprio l'incontro con il limite che "conclude" l'adolescenza. In questo modo si offre ai genitori un nuovo modo per osservare il proprio figlio, aiutandoli a superare quelle modalità di passività, sfiducia e iperprotezione che, come abbiamo visto, spesso vengono agite.
La possibilità di definire un programma fattibile ci riporta al tema della normalità. Il giovane disabile potrà essere inizialmente "ciò che fa" e successivamente, nel momento in cui il ruolo diventa elemento di identità, potrà essere "ciò che è" (almeno nella vita lavorativa).
L'assegnazione del ruolo "di lavoratore" è il momento terminale del percorso formativo, la dimissione dal Servizio e la "restituzione" del figlio alla famiglia è la "consegna" di un figlio socialmente utile ed integrato. Nella consapevolezza che con l'integrazione lavorativa non terminano le problematiche della famiglia, sappiamo di aver contribuito sia con le persone incontrate nelle aziende che con le famiglie le basi per una evoluzione storico - culturale dell'integrazione dei disabili, non basata sull'assistenzialismo ma sul rispetto del singolo individuo e sulla valorizzazione delle sue capacità.

 

***

Capitolo 2
LA PROGETTAZIONE DEL "PROGRAMMA DI ACCOMPAGNAMENTO"

L'esperienza sinora realizzata ha fatto emergere la necessità di ridefinire e strutturare, sia da un punto di vista teorico che metodologico, gli incontri condotti con diversi gruppi di genitori, al fine di costruire il "Programma di Accompagnamento" che il Centro di Formazione Professionale ed Inserimento Lavorativo offrirà in modo sistematico e parallelo ai genitori dei giovani disabili presi in carico dal Servizio.
Il lavoro contenuto nel "Programma di Accompagnamento" si propone di agire sulle risorse dei genitori, con l'obiettivo di accrescere le loro capacità educative al fine di modificare le condizioni che determinano il loro disagio ed affrontare le variabili che non permettono la crescita del proprio figlio. Le relazioni che i genitori instaurano nei confronti del figlio disabile sono di grande rilevanza per la sua crescita, ma sono anche spesso causa di difficoltà per gli stessi genitori, determinando stati di consistente disagio emotivo che spesso portano a condizioni di depressione, processi di delega e somatizzazione. Molti di questi genitori sembrano inoltre sperimentare in modo massiccio difficoltà emotive e educative non riferibili a disturbi di tipo personologico, ma per l'assenza di adeguate conoscenze della condizione del figlio. Questi genitori hanno bisogno essenzialmente di informazioni circa le modalità da seguire per agevolare la situazione del figlio, non richiedono terapie, ma informazione e formazione psicopedagogica (Soresi S., 1994).
Nella nostra esperienza la proposta di partecipare al gruppo genitori non è necessariamente ed automaticamente rivolta a tutti i familiari degli utenti del servizio: l'équipe del servizio effettua ogni volta una valutazione sull'opportunità che il gruppo sia uno strumento adatto per ciascuna famiglia ed inoltre viene svolto un colloquio individuale di presentazione della proposta, per raccogliere un adesione condivisa.
Sappiamo che l'adesione da parte dei genitori al gruppo è agita inizialmente in modo cognitivo. L'accento è posto sull'apprendimento di nuove informazioni, ma il passaggio per trasformare le "nuove informazioni" in un "uso personale e creativo" e quindi in accrescimento personale, grazie al quale il genitore agisce in modo consapevole ed intenzionale nuove modalità di comunicazione ed azione verso il figlio, deve essere sostenuto dal coinvolgimento emozionale (Paparella N., 1988).
I fattori cognitivi devono pertanto sempre intrecciarsi con i fattori affettivi. L'apprendimento di nuovi comportamenti/atteggiamenti avviene attraverso processi intuitivi di percezione, di costruzione di immagini, ma anche attraverso momenti di rielaborazione razionale
La pedagogia definisce questo evento come passaggio da informazione a "competenza", che si realizza quando l'individuo (bambino o adulto) che apprende diventa capace di orientarsi fra le informazioni, mettendo a frutto le sue potenzialità e gestendo le proprie risorse (Bruner J.S., 1973).
I modelli di riferimento teorici spaziano dai principi legati alle teorie psico-dinamiche a quelli delle teorie sistemiche.
Le prime sono orientate ad approfondire i meccanismi interni dell'individuo e all'influenza dei processi inconsci sul comportamento dello stesso; le seconde si basano sulla complessità e sull'influenza delle relazioni interpersonali nel comportamento umano.


Gli obiettivi

A partire dai principi illustrati e dalla filosofia del Servizio è possibile riassumere gli obiettivi del "Programma di Accompagnamento":
· aumentare la consapevolezza della propria genitorialità: essere genitori di "persone speciali";
· offrire ai genitori informazioni utili e scientificamente corrette al fine di migliorare la relazione e le comunicazioni fra genitori e figli;
· offrire uno spazio di crescita e di accettazione al fine di incrementare i sentimenti di competenza e fiducia del genitore, di valorizzazione del suo ruolo e di scoperta delle sue qualità, risorse, competenze;
· offrire uno spazio dove:
Ø rendersi consapevoli di sé, delle conseguenze dei propri comportamenti
Ø comprendere i propri bisogni come persone e non solo come genitori
Ø conoscere nuove modalità educative
Ø arricchirsi ed incoraggiarsi
· creare e stimolare il nascere di relazioni informali "oltre il servizio", affinché il genitore stesso diventi promotore di una nuova cultura;
· rendere la vita familiare più piacevole, facilitando la gestione di problemi di tipo educativo.


La metodologia

L'educazione non è "per" o "sulle" persone ma "con", perché chi educa viene anche educato dall'educando e la relazione si evolve verso un indefinito "meglio", sempre possibile ma mai raggiunto.
Dall'approccio sistemico-relazionale mutuiamo alcune idee di fondo di Selvini Palazzoli (Selvini Palazzoli M. et altri, 1980), che diventano strategie operative fondamentali nella conduzione del gruppo genitori :

· circolarità: bisogna essere consapevoli di diventare parte di un sistema interattivo, aperto all'influenza reciproca e di dover escludere la logica causa/effetto nella lettura delle situazioni;

· neutralità: bisogna essere capaci di costruire alleanze temporanee, alternate e provvisorie, nella ricerca attenta di non effettuare coalizioni;

· ipotizzazione: bisogna essere abili nel costruire ipotesi di lettura e di intervento, nella consapevolezza della loro relatività e del loro utilizzo come "mappe" della realtà, non come interpretazione di verità assoluta;

· omeostasi/cambiamento: bisogna problematizzare le situazioni e creare le condizioni necessarie per una crescita della famiglia;

· elementi di strategia e tattica: per ogni intervento è necessario aver chiare le teorie di riferimento (le teorie della comunicazione proposte da Watzlawick P., 1971 e da Berne E., 1969, 1967), per estrapolare le tecniche e le teorie da applicare.

Il ruolo del conduttore/facilitatore, alla luce di quanto detto sinora, deve essere fluido, capace di accogliere modelli diversi dai propri, riconoscendo i limiti ed i vantaggi insiti in ognuno di essi.
L'idea di fondo è che il conduttore/facilitatore è in un rapporto simmetrico di interdipendenza e reciprocità con il gruppo, nel quale ognuno impara qualcosa dall'altro.
Il conduttore/facilitatore si pone in autentico ascolto, non si presenta come l'esperto, ma come supporto rispettoso delle conoscenze e del sapere dell'altro. Il concetto base di questo modello è quello di "empowerment" (Piccardo C., 1995), secondo il quale ciascuno individuo è la persona più adeguata a definire e comprendere i suoi bisogni, nonché definire le sue risorse e le sue modalità di azione. Il fine è accompagnare i genitori, in senso educativo, alla ricerca di strategie d'azione più consone alle loro risorse, affinché le sappiano gestire autonomamente.

Milani (Milani P., 1993, p. 25) suggerisce in sintesi un pro-memoria per il conduttore/facilitatore:

· saper comunicare le proprie conoscenze professionali e il proprio saper fare;

· saper credere nelle capacità di autosviluppo del genitore e della sua famiglia;

· saper essere tramite per la conoscenza realistica delle proprie risorse, abilità e limiti;

· saper utilizzare la propria creatività ed iniziativa e, indipendentemente dal proprio pensiero, saper utilizzare degli strumenti che si ispirino a valori, principi e metodi di altri modelli;

· saper valorizzare l'aiuto reciproco e la varietà delle esperienze.

Quando si ricopre il ruolo di conduttore/facilitatore del gruppo si svolge una funzione di stimolo per i singoli componenti e per il gruppo nel suo complesso e ci si attiva per promuovere processi di comunicazione che sviluppino sinergie emotive orientate al raggiungimento degli obiettivi prefissati.
I conduttori/facilitatori sono di fatto parte attiva sia nella costruzione del percorso di aiuto che nella conduzione e gestione della dinamica all'interno del gruppo. Questo avviene soprattutto nella fase iniziale della costituzione del gruppo, in cui è necessario sviluppare nei partecipanti sentimenti di sicurezza e fiducia. Abburra dice:
"Condurre un gruppo non significa sapere tutto, essere l'esperto; in gruppo ci si ritrova in una situazione nella quale si arriva preparati solo in parte, dove si gioca "in diretta" e in maniera non costruita "a tavolino". Occorre avere fiducia in sé e contemporaneamente negli altri; stimolare, accettare e valorizzare le differenze, riuscire a far sì che la parola passi dall'uno all'altro coinvolgendo tutti, che i contenuti si costruiscano attraverso una partecipazione attiva, dove le differenze arricchiscono e contribuiscono a produrre creatività. Si tratta di una forma di apprendimento in itinere che si produce attraverso la relazione, dove, ognuno, attraverso le sue caratteristiche ed esperienze, comunica e crea nuovi sapere".
(Abburra A., 1997, p. 53)


Nella nostra esperienza la gestione del gruppo è sempre stata una co-conduzione (assistente sociale - psicologa), che ha permesso di mantenere uno scambio ed un confronto reciproco sia nella fase di programmazione che nella gestione e verifica degli incontri.
La buona integrazione tra i conduttori ha permesso di utilizzare al meglio le risorse personali e professionali che hanno favorito la creazione di un "buon clima".
Occorre inoltre aggiungere che l'assistente sociale è un operatore sempre presente negli scambi informativi tra il Servizio e la famiglia e questa figura "conosciuta", che ha già "accolto" la famiglia e la sua storia, costituisce un elemento facilitante nell'integrazione con gli altri genitori già "accolti" e già "conosciuti".
Come già ricordato, la proposta di adesione al gruppo genitori non è generalizzata a tutti i familiari degli utenti del Servizio; da una parte vi è una valutazione dell'équipe del servizio sull'opportunità che il gruppo sia uno strumento adatto per quei singoli genitori e, dall'altra, viene effettuato un colloquio di presentazione del lavoro con il "gruppo genitori" con ciascuna coppia, al fine di verificare la sua adesione.
Dall'incrocio di queste due variabili si definiscono i componenti del "gruppo genitori".
La posizione dei conduttori e, in modo specifico, dell'assistente sociale, all'in-terno del Servizio (evidenziata nel grafico), ci sottolinea il ruolo "strategico"


di queste figure, che hanno l'opportunità di raccogliere informazioni, idee, impressioni, da:

· genitori

· allievi

· educatori

· operatori del territorio

· mondo del lavoro

La possibilità di una visione globale della realtà offre ai conduttori il mezzo per restituire alle famiglie stimoli di riflessione importanti, nella direzione di conoscere meglio il proprio figlio e di contribuire alla costruzione di un progetto educativo che spazia dalla vita familiare a quella sociale e professionale.
Incrociare le informazioni che vengono dalla famiglia, dai giovani disabili, dagli operatori, in più ambiti di riflessione (équipe di staff, incontri con i singoli genitori, gruppi genitori e gli operatori del territorio) permette, proprio attraverso la ricchezza dei contributi di più figure, di costruire un progetto educativo strategico ed intenzionale
Le persone che partecipano al gruppo hanno motivazioni e condizioni familiari diverse; molto spesso è solo un genitore ad aderire, anche se nell'incontro di presentazione si sollecita l'importanza della presenza di entrambi.
Ogni incontro di gruppo dura in media due ore e si svolge a cadenza di tre settimane, in un periodo che copre l'anno scolastico; questa modalità permette al gruppo il tempo per diventare tale e alle persone di fare un lavoro in cui è garantita una significativa sistematicità.

A livello metodologico è importante:

· porre attenzione alle persone, affinché si possano sentire accettate e valorizzate non solo dai conduttori ma anche dai partecipanti;

· costruire un lavoro armonioso utilizzando, per esempio, casi già preparati dai conduttori, accanto a casi che i genitori portano in gruppo per la discussione e l'analisi.

Su queste due ultime indicazioni, vista la complessità di gestione, è indispensabile che i co-conduttori si confrontino prima e dopo gli incontri.
I contenuti affrontati nel gruppo devono essere trattati in modo semplice, senza eccedere nelle dimensioni teoriche. A livello strumentale sono utili i racconti personali, casi di discussione ed alcune letture.


La verifica

La verifica dei risultati di un percorso formativo realizzato in gruppo vede sia i partecipanti che i conduttori/facilitatori impegnati a valutare gli effetti prodotti dall'intervento stesso, sia rispetto alla realtà dei genitori che dei conduttori, nonché quella del Servizio di appartenenza.
E' importante pertanto distinguere i tre piani coinvolti e verificare l'effettivo raggiungimento degli obiettivi.

Dal punto di vista del genitore:

· piano emotivo: verifica sulla capacità di creare un clima che diventi fonte di ben-essere e di piacere, sia individuale che collettivo. Una madre ha detto "…mi libero di quello che ho dentro… qui posso anche piangere, dopo mi sento più leggera e posso affrontare meglio i problemi";

· piano razionale: verifica sulla reale acquisizione di nuove conoscenze e nuovi strumenti per sentirsi capaci di essere promotori di cambiamenti e di sentirsi dei "buoni genitori";

· piano educativo: verifica sulla capacità di acquisire strategie educative.

Dal punto di vista dei conduttori:

· piano emotivo: verifica sulla capacità dei conduttori di creare un'armonia e un clima all'interno del gruppo favorevoli alla costruzione di nuovi apprendimenti ed alla costruzione delle premesse per il cambiamento;

· piano razionale: verifica sulla capacità dei conduttori di decodificare e dare senso alla complessità delle comunicazioni anche non verbali:

Ø rendere i genitori consapevoli del significato soggettivo dei propri comportamenti;
Ø valorizzare ciascun componente del gruppo;
Ø mantenere il gruppo sugli obiettivi ed il rispetto delle regole e ruoli;

· piano educativo: verifica sulla capacità di fornire modelli, informazioni e nuove strategie attraverso un intervento intenzionale, consapevole, metodologicamente corretto, capace di stimolare il singolo individuo affinché definisca le sue risorse ed individui le sue modalità educative (empowerment).

Dal punto di vista del Servizio è importante verificare:

· l'effettivo aumento dell'alleanza educativa tra scuola e famiglia;

· la reale crescita nel tempo dell'allievo disabile che acquisisce il "permesso" di diventare un "uomo semplice";

· la capacità di diventare promotori di una nuova cultura, non basata sui principi dell'assistenzialismo;

· la capacità di diventare promotori di nuovi valori che rinforzino le relazioni e l'attenzione agli altri.

Il programma che verrà presentato di seguito è una fra le tante possibilità di un percorso possibile. E' importante, per questo motivo, andare al di là degli specifici strumenti, dando invece importanza agli obiettivi ed alla metodologia con cui i contenuti vengono affrontati. La personalizzazione degli incontri è una prerogativa di chi conduce e che deve saper strutturarlo in base alle sue capacità e caratteristiche. Il conduttore deve saper trasmettere il senso profondo di questo tipo di intervento, mantenendo chiari gli obiettivi, al di là della meccanicità di alcune formule e di certi schemi che possono sembrare talvolta riduttivi. Se si è in presenza di tale autenticità e coerenza formativa, gli incontri manterranno la loro efficacia, qualunque variazione di strumenti si adotti.

***


Capitolo 3

I 10 INCONTRI DEL "PROGRAMMA DI ACCOMPAGNAMENTO"

I° INCONTRO


PREMESSA
Il primo incontro deve tenere presente più variabili contemporaneamente: i genitori non si conoscono tra di loro, se non per alcune iniziative realizzate fuori dal centro, mentre conoscono gli operatori a cui si sono affidati. Ogni gruppo, per nascere ha bisogno di punti in comune, di obiettivi in comune e di stabilire una fiducia reciproca tra i membri. Il primo incontro serve a "guardarsi intorno" e a vedere persone che hanno storie diverse, ma lo stesso dolore.


OBIETTIVI DELL'INCONTRO

· Chiarire gli obiettivi e i bisogni che muovono il progetto;

· Aiutare la socializzazione e la nascita del gruppo;

· Dare spazio alle emozioni dolorose, per liberare ciò che è vivo nella mente e da cui partire per lavorare e ritrovare benessere.


METODOLOGIA
I partecipanti vengono invitati mediante una lettera che spiega in modo generale il tipo di progetto. Nell'invito si specifica che è importante che a partecipare sia la coppia e non un solo genitore, per due importanti motivi: spesso la figura del padre è assente nella crescita dei figli e questa può essere l'occasione di un coinvolgimento maggiore; è inoltre importante sottolineare che, quando si ripercorre un evento doloroso, l'elaborazione di un lutto, si tende a regredire, ad aver bisogno di un legame di dipendenza che sollevi dall'angoscia che si ripresenta, e la coppia, se unita, ha le risorse necessarie per superare questo ostacolo, risorse che potrebbero non essere state utilizzate in passato.
Durante il primo incontro non è sempre facile cominciare a raccontarsi: anche se la voglia di sfogarsi è presente in tutti, solo i più coraggiosi o quelli già abituati a parlare di fronte ad altri cominciano. E' importante dare spazio a tutti e far sentire che quello spazio di racconto esisterà sempre e sarà strumento privilegiato di tutti gli incontri. Lasciare libertà di parola serve anche a far prendere tempo a coloro che non "se la sentono" e che potranno rimanere nel gruppo ad ascoltare fino a quando riusciranno a lasciarsi andare. E' necessario prevedere che qualcuno possa non aderire e abbandonare il percorso.


STRUMENTI
Nella prima tappa lo strumento fondamentale è la partecipazione emotiva e il clima di accettazione e decolpevolizzazione che i conduttori instaurano durante l'introduzione, terminata la quale si dà la parola al gruppo, affinché ciascuno racconti, come gli riesce in quel momento, la "propria storia", che è davvero unica e in cui ognuno, attraverso un ascolto reale, si identifica e si riconosce.


IL PERCORSO DEL "DEFICIT" E DEL DOLORE
Ogni famiglia, quando un bambino deve nascere, investe molto e si prepara con paure e dubbi ma anche con entusiasmo e fantasia sulla creatura che cresce in loro. La nascita di un figlio che ha qualche "problema" è una ferita che scatena tanti sentimenti tra loro diversi, e talmente forti che ancora oggi, a distanza di tanti anni, si riescono ad evocare. La scoperta della disabilità a volte è immediata, come nel caso della sindrome di Down, a volte invece, prima di capire ciò che sta succedendo passano giorni, mesi, a volte anni di interminabili corse, visite, speranze e disillusioni: un clima di sospensione che chiede ai genitori una forza interiore che li impegna moltissimo. La reazione immediata allo shock di questa nascita è la domanda "perché a me?". Ci si chiede sempre il perché di certi avvenimenti della vita, ci si chiede il perché di quella morte o di quella strana coincidenza e si cercano le risposte, specialmente quando non possono essere razionali, in un mondo un po' magico, fatto di sensi di colpa di cause…, di false credenze ("…non desideravo abbastanza questa gravidanza…non mi sono curata abbastanza…non sono corsa in tempo in ospedale…"). E' proprio il senso di colpa a dare tanta sofferenza in più, a deprimere e a portare all'isolamento. Socializzare la "propria storia" significa riaprire un capitolo di vita archiviato, le cui tracce sono ancora tanto visibili. Il gruppo aiuta il confronto, dà il coraggio per raccontare e consente che parte di quella colpa e di quella sofferenza venga abbandonata nel gruppo.



II° INCONTRO


PREMESSA

Ripercorrere il deficit significa sviscerare il dolore, le fantasie, le profezie che si sono autoavverate e la fatica di organizzare la vita familiare. Questi racconti hanno bisogno di tempo, parlare di dolore costa fatica all'intero gruppo, ma è la tappa che unisce e che permette di ritrovare la giusta energia per fare un bilancio di competenze e mettere a frutto tutte le risorse familiari disponibili e che, nella maggior parte dei casi, sono state ignorate o sottovalutate a causa del disagio emotivo ancora troppo forte. Un figlio disabile può aggravare le tensioni presenti, frutto dello stress e della vita quotidiana. Tra le coppie con figli con handicap, il numero di divorzi e separazioni è alto: a volte il bambino diviene il capro espiatorio, altre volte assume il ruolo di legame vincolante e negativo di un matrimonio infelice, che deve continuare ad ogni costo perché sarebbe impensabile o "immorale" abbandonare il matrimonio. In molte situazioni i genitori subordinano le loro difficoltà ed arrivano ad accettare compromessi per il benessere del figlio. Alcune coppie sostengono di essere più legate, in altri casi, invece, i genitori si accusano e si estraniano.


OBIETTIVI DELL'INCONTRO

· Dare ulteriore spazio per raccontare la "storia individuale" che permette di drenare l'angoscia;

· Aiutare a vedere i punti in comune in un clima di comprensione reciproca;

· Stimolare coloro che non sono riusciti a "partire";

· Aiutare ad approfondire alcune tematiche relative ai ruoli esistenti in famiglia.


METODOLOGIA
Riassumere e fare il punto dell'incontro precedente è sempre importante per riportare il gruppo in situazione e ricreare l'atmosfera da cui partire.
Durante il secondo incontro, è anche importante stimolare le riflessioni con domande che diano lo spunto, qualora fosse necessario, per entrare nel merito di alcuni discorsi, anche attraverso un breve accenno all'importanza dei ruoli familiari, in modo da evidenziare la necessità di esplorare e di scavare per poi dare, a fine incontro, la sensazione che ognuno possa a suo modo costruire.


STRUMENTI
In ogni incontro è importante stimolare il clima di partecipazione e chiedere e facilitare l'ascolto attivo.


I RUOLI FAMILIARI
Essere genitori di un bambino con difficoltà interferisce nell'intera vita familiare e nei rapporti di ognuno. A volte la vita di coppia viene influenzata: il marito e la moglie si accusano, si rinfacciano situazioni e vissuti non detti, mettendo a rischio il matrimonio. Talvolta le coppie si disgregano e uno dei due genitori, incapace di sostenere il proprio ruolo, delega all'altro la cura del figlio o addirittura abbandona la famiglia. In molti casi, invece, il figlio che ha problemi porta i genitori a legarsi maggiormente, perché condividono momenti difficili e perché il benessere del figlio viene sopra ogni altra cosa e anche liti e crisi coniugali, che normalmente si affrontano in un matrimonio, vengono evitate, perché non basta essere una coppia di genitori ma si deve essere una famiglia "super". Questo può portare al rischio di sacrificare la vita di coppia e concentrare le attenzioni verso il proprio figlio, con la conseguenza di grande fatica e perdita della propria identità di coppia.



III° INCONTRO


PREMESSA
Futurizzare, aiutare a maturare, permettere di crescere…, tutto questo è possibile solo se i genitori riescono a collocarsi nel loro ciclo di vita familiare. (Cusinato M. 1989) La storia, il passato costituiscono le fondamenta, ma per futurizzare, pronosticare e costruire è necessario che avvenga un bilancio del qui ed ora e un'analisi di "chi è, oggi, nostro figlio".


OBIETTIVI DELL'INCONTRO

· Raccontare il figlio che i genitori oggi vedono, analizzandone i lati positivi, i limiti, le paure, le ansie e la fatica di dover essere un buon genitore;

· Confrontare le proprie ansie, le insoddisfazioni e le proprie soluzioni (piccole o grandi che siano);

· Sentire che la fatica è qualcosa di comune e quindi condivisibile e meno colpevolizzante.


METODOLOGIA
Recuperare gli incontri precedenti con la solita breve ma efficace sintesi e utilizzare una premessa che legittimi i racconti dei limiti e della stanchezza, senza che nessuno si senta giudicato e che prevalga, per questo motivo, l'atteggiamento di sentirsi un genitore migliore degli altri.


STRUMENTI
Raccontarsi, ascoltare, riflettere….



IV° INCONTRO


PREMESSA
I ragazzi in carico al nostro Servizio sono adolescenti e i genitori con cui lavoriamo si devono continuamente confrontare con questa delicata fase. Alcuni di loro l'hanno già sperimentata con figli più grandi, altri si imbattono per la prima volta in quelli che sono i percorsi di individuazione e i relativi interventi educativi. La famiglia è il punto di equilibrio tra i tentativi che un adolescente fa verso l'autonomia (tentativi di andare) e il bisogno di essere protetti (desiderio di ritornare). Meltzer sostiene che ogni adolescente oscilla tra quattro posizioni: andare avanti verso il mondo adulto, tornare indietro verso l'essere bambino, lateralmente nel mondo dei coetanei e del gruppo di appartenenza e fuori in un mondo immaginario che consente fughe dalla realtà. ( Meltzer D., 1980)
I ragazzi disabili sono in difficoltà rispetto a questo "oscillare" e con loro i genitori che non riescono a calibrare la giusta distanza, a dare lo spazio per crescere, perché troppi permessi possono portare a frustrazioni che si vorrebbero evitare, con l'idea radicata che questo sia per il bene del giovane, che ha già dovuto sopportare troppo dolore e forse ne dovrà incontrare ancora molto nella sua vita.


OBIETTIVI DELL'INCONTRO

· Stimolare i genitori a riflettere sulla tematica dell'adolescenza;

· Aiutare i genitori a trovare una angolazione diversa (quella del cambiamento che è insito nella crescita e nell'emancipazione) da cui osservare il figlio e con lui la relazione che hanno instaurato;

· Permettere un confronto sulle situazioni di crescita e sui concreti, piccoli o grandi, "permessi" che riescono a dare.


METODOLOGIA
A partire da un'introduzione dei conduttori che, ripercorrendo l'incontro precedente, portano l'attenzione all'adolescenza e alla relazione che cambia, favorire i racconti di tutti garantendo uno spazio significativo per ognuno e cercando di aiutarli ad individuare quali permessi sono più difficili da dare. E' importante che la conduzione del gruppo generi una comunicazione circolare che faciliti lo scambio di esperienze (Zini M.T., Miodini S., 1999).


STRUMENTI
Importante in ogni incontro è creare un clima di accoglienza e di ascolto, nel quale diventa possibile raccontarsi in modo autentico e concreto, anche attraverso lo "specchio" fatto dagli altri.


LE RADICI E LE ALI

La parola chiave per un adolescente e per la sua famiglia è "confusione": è difficile trovare equilibrio per il ragazzo, ma anche per il genitore.
La metafora che meglio rende l'idea è quella di dare RADICI e concedere le ALI.

Le RADICI sono fatte di regole, valori, certezze, mentre le ALI sono il simbolo della libertà, dell'autonomia, del dare fiducia.

Tra questi due atteggiamenti spesso non c'è un vero equilibrio e ci si sbilancia in tre posizioni:

1) si tende a dare più peso alle radici: si organizza il tempo, lo spazio, dando, talvolta, eccessive regole comportamentali, a volte poco chiare ("comportati bene") o superflue e non ascoltate, se non per abitudine. Ci si trova spesso di fronte alla paura della noia e della passività in un figlio che, hanno sempre detto, va stimolato. Un'altra paura con cui si devono fare i conti è la paura della perdita di controllo sul figlio; la genitorialità, per altro già complicata, può essere messa in discussione e i ruoli sovvertiti o resi falsi.
Molte volte la rigidità rassicura, ma provoca peso o malessere che si traduce in AGGRESSIVITA', che preoccupa e che spesso innesca specularità nella relazione genitori - figli. Ciò fa nascere dubbi, ansia e ulteriore bisogno di controllo.

2) altrettanti dubbi nascono se pesa di più il concedere le ALI: lasciare che le situazioni siano troppo destrutturate significa non organizzare mai, dare poche regole o comunque lasciare che esse non vengano rispettate. Ciò può provocare inizialmente euforia, ma lo stato di contentezza non dura e non è reale, perché comporta il rischio di disperdersi mentalmente: stare senza confini fa paura ed è pericoloso, non si è contenuti e non si sente protezione.

3) l'atteggiamento più frequente è quello di AMBIGUITA': si riconosce che è giusto concedere fiducia e lasciare liberi, ma c'è un bisogno fortissimo di tirare indietro. Questo bisogno, giustificatissimo, nasce dalla sfiducia verso le capacità (talvolta realistica e talvolta no), dalla paura dell'ignoto verso cui i figli si dirigono e dal bisogno di sentirsi utili, specie per tutti coloro che per sostenere il faticoso ruolo di genitore "speciale" di un figlio con problemi, hanno sacrificato gran parte della propria vita sociale, lavorativa, etc…

L'atteggiamento ambiguo propone "vai" ed insieme "non andare" e crea più confusione nei ragazzi, che, nell'indecisione, scelgono di far piacere al genitore e rimangono "piccoli" pur di non perdere il loro bene. Si produce molto spesso IMMOBILITA'. (Canevaro A.,1979)
Ognuno degli atteggiamenti, descritti in modo schematico e forse con punte di eccesso semplificativo, non è una scelta, ma una condizione che è frutto di innumerevoli variabili fra cui l'educazione ricevuta, le esperienze, i bisogni di quel particolare momento di vita, dalla relazione di coppia, etc…, e naturalmente viene fatto in buona fede. Pur rendendosi conto che i figli hanno bisogno di affrontare il mondo, il genitore teme troppo il mondo e trova difficile attuare qualsiasi tipo di cambiamento, nel tentativo di proteggerli dalle frustrazioni. Per diventare "uomini" devono far parte della società, anche se questa ha spesso giudicato, condannato o emarginato.
Al termine dell'incontro è importante consegnare, da portare a casa, un breve schema che riassume alcuni tra i principali bisogni di un'adolescente al fine di dare uno spunto di riflessione e osservazione dei propri figli.


ALCUNI BISOGNI FONDAMENTALI DEI RAGAZZI ADOLESCENTI
- bisogno di essere ascoltati realmente (buon ascolto)
- bisogno di essere accettati per ciò che si è
- bisogno di spazio per differenziarsi dai genitori e dai fratelli
- bisogno di scegliere
- bisogno di autorevolezza per superare la confusione
- bisogno di avere una guida da interiorizzare (ideale dell'io)
- bisogno di fiducia attraverso i permessi



V° INCONTRO


PREMESSA
La relazione e la comunicazione sono punti fondamentali, anche se complessi, su cui è importante fermarsi a riflettere dal momento che sono strumenti educativi fondamentali.
Non è possibile non essere in relazione e non comunicare, la relazione è la via primaria per apprendere e modificare i comportamenti (Watzalawick P., Beavin J.H., 1971).
Alla base della comunicazione vi è il saper dare messaggio (si parlerà in un successivo momento di alcune tecniche che facilitano questo processo permettendo un clima sereno).
Parte del processo comunicativo si basa sull'ascolto, argomento questo che ha bisogno un approfondimento: si crede spesso di ascoltare ma molti sono gli ostacoli che si incontrano (mancanza di tempo, i problemi personali, i sentimenti di colpa o di imbarazzo, un maggior risalto alle parole rispetto alla comunicazione non verbale…).

OBIETTIVI DELL'INCONTRO

· Aiutare i genitori a leggere i bisogni di un figlio "in crescita";

· Aiutare i genitori a leggere alcuni messaggi contraddittori e riuscire ad andare oltre la comunicazione episodica per trovare i contenuti importanti che gli interlocutori scambiano;

· Far prendere consapevolezza dell'importanza di strutturare, in base alle prerogative di ognuno, una relazione educativa pensata;

· Gettare le basi per divenire dei "buoni ascoltatori";

METODOLOGIA
Tenendo sempre presente il filo conduttore che lega gli incontri, la dinamica del gruppo e i risvolti che di volta in volta si manifestano, introdurre il tema della relazione, della comunicazione aiutandosi con esempi proposti dai conduttori e tratti dall'esperienza raccontata dal gruppo. Gli esempi dovranno essere riconducibili al tema importante, precedentemente trattato, relativo ai bisogni adolescenziali che sottostanno a certe modalità comportamentali dei loro figli.

STRUMENTI
L'introduzione ai fondamenti dell'analisi transazionale è utile, anche se limitato, per trattare in modo accessibile a tutti il complesso tema della comunicazione.
Riassumere in uno schema semplice, proiettato con la lavagna luminosa o consegnato al gruppo, quelli che sono i fondamentali bisogni di un ragazzo adolescente aiuta a tenere il filo del discorso e a far riflettere i genitori sui vari punti, estrapolando quelli che sembrano più complicati e ricchi di stimoli a raccontare. Lo schema che propone l'analisi transazionale è utile per analizzare ciò che le persone fanno o si dicono reciprocamente, tenendo presente che ognuno manda messaggi diversi a seconda del "destinatario" e a seconda delle variabili che influenzano quella precisa situazione; ciascuno può pertanto confrontarsi con i tre stadi spiegati per avere una chiave di lettura diversa da quelli che sono gli scambi relazionali tra i genitori e figli, riconoscendone gli impedimenti, i messaggi sottesi e le difficoltà presenti (James M., Jongeward D., 1982).

 

VI° INCONTRO


PREMESSA
Divenire genitori significa assumere un ruolo che gratifica, ma che nel contempo mette alla prova, sacrifica. Ogni ruolo si riempie di miti, quello di genitori con figli disabili è subdolo e porta a pensare che per essere una "buona famiglia" bisogni essere speciali, efficienti e si chiede sempre di più a se stessi, come sostiene Gordon (Gordon T., 1994) tra i miti più comuni del ruolo di genitori vi è quello della disponibilità, dell'accettazione incondizionata, dell'efficienza, della coerenza, dell'uguaglianza.
Il primo passo verso l'efficacia del proprio ruolo genitoriale è la deposizione del mito che passa attraverso la consapevolezza dei propri limiti, guardando i veri sentimenti, anche quelli più crudeli e meschini. L'aspetto del genitore "mitico" che più inganna è relativo alla sfera dell'accettazione.


OBIETTIVI DELL'INCONTRO

· aiutare i genitori a "deporre" i miti che circondano il loro ruolo;

· facilitare nel gruppo la consapevolezza che si possono provare sentimenti negativi e autorizzarli a dichiararli per prenderne coscienza;

· aiutare il gruppo a distinguere l'accettazione "falsa" da quella autentica e favorire la maturazione di quest'ultima.


METODOLOGIA
Partendo da un'introduzione dei conduttori legata al tema dell'accettazione, favorire, cercando di sollecitare la partecipazione di tutti, anche di coloro che sino ad ora sono rimasti maggiormente in ascolto, i racconti dei propri vissuti e sentimenti.

STRUMENTI
E' necessario creare un clima accettante per promuovere accettazione: il gruppo dovrebbe cogliere comprensione nel dichiarare i propri sentimenti negativi (rabbia verso la disabilità, insofferenza, etc…) e non giudizi.


L'ACCETTAZIONE
Di tutto ciò che riguarda i propri figli, molti atteggiamenti sono ben accetti, altri non lo sono. A livello razionale ciò sembra ovvio e indiscutibile, ma se si scende ad un livello più profondo, parlare di non accettazione o di rifiuto diventa complicato e doloroso. A volte non si amano alcuni comportamenti, talvolta si rifiutano intere parti. Questo è comune a tutte le relazioni, ma nei confronti di persone con difficoltà sembra così cattivo e meschino da non essere neppure ammissibile. Eppure ogni essere umano, proprio perché è altro da noi, deve essere visto nelle sue parti buone e parti cattive , e solo così, amato per intero.
Prevarranno sentimenti di accettazione o di non accettazione a seconda del momento storico-familiare, del figlio, del suo temperamento…negare la non accettazione significa collocarsi in un "limbo". Il limbo è il luogo del "non", dove l'accettazione è falsa, si provano sentimenti difficili, ostili, contraddittori, ma per diversi motivi è impossibile fermarsi ad ammetterlo.



 

Cosa riceve un figlio? I ragazzi con disabilita' intellettiva sono abili nel cogliere il non verbale, perché è per loro uno strumento privilegiato di comunicazione. Dichiarare approvazione ma sentire disapprovazione genera confusione, paura, colpa. Alla confusione si reagisce spesso con ansia, dubbi sull'onestà dei genitori, rabbia. Ne consegue che tanti comportamenti "da limbo" portano a sentire rifiuto generale e, malgrado il bene che si prova, ci sarà il dilemma di essere amati per ciò che si è, e di conseguenza, si cercherà di piacere, accondiscendere e sedurre o, se i tentativi sembrano fallimentari, ci sarà ribellione, sempre che le forze in gioco lo consentano.
Solo se si distingue l'accettazione dalla non accettazione e ci si permette di provare anche quest'ultima, si può essere più veri e liberi e la relazione diviene efficace perché autentica. Ne consegue che anche il linguaggio diventa accettante e strumento privilegiato per migliorare la relazione di aiuto (Gordon T., 1991, 1994).



VII° INCONTRO

PREMESSA
I genitori hanno bisogno, dopo aver ripercorso i momenti più difficili e depressivi della loro storia e aver analizzato la realtà che stanno vivendo, di essere rinforzati nella loro genitorialità e nel loro esistere come persone ancor prima che come genitori, così che il loro "stare bene" possa essere il nutrimento per la crescita e la maturazione del proprio figlio.


OBIETTIVI DELL'INCONTRO

· Rafforzamento della consapevolezza del proprio valore come genitori e soprattutto come persone;

· Aiutare il gruppo a trovare strategie per prendersi "cura di sé";

· Offrire uno spazio per scoprire le proprie qualità e competenze.


METODOLOGIA
Dopo aver spiegato l'importanza di sapersi prendere cura di sé e sentirsi genitori "sufficientemente buoni", presentare questi due incontri come legati fra loro dai medesimi obiettivi. Attraverso letture, brevi spunti di riflessione proposte dai conduttori, lucidi proiettati, si porta il gruppo al confronto e alla discussione.


STRUMENTI

SENTIRSI "GENITORI SUFFICIENTEMENTE BUONI"
Bettelheim diceva che "educare i figli è un impresa creativa, un'arte e non una scienza…. La famiglia felice non è quella dove non succede mai nulla di brutto; è quella in cui , quando qualcosa di brutto succede, quando le cose vanno male per uno dei suoi membri, tutti gli altri lo sostengono …" (Bettelheim B., 1987, p. 28).
Ciò che possiamo aggiungere è che realmente non si può insegnare ad essere un genitore, ma si può aiutare a sentirsi meglio in questo ruolo, specie se il ruolo è complicato da difficoltà quali un figlio con problemi e un figlio che cresce (adolescenza).

A quali aspetti possiamo dare importanza per far crescere il difficile ruolo di genitore?

(lucido)

1) VALORIZZARSI come genitori ma anche e soprattutto come persone

2) Riuscire a RILASSARSI e creare un clima SERENO

3) INTUIRE con il SENTIMENTO il senso che possono avere le cose per il figlio

4) Apprendere alcune TECNICHE più specifiche e PERSONALIZZARLE


VALORIZZARSI PER CREARE BENESSERE E SERENITA'
Essere realizzato solo come genitore è rischioso: a volte il peso del sacrificio porta i genitori a sentirsi sfiniti, ad usare sempre gli stessi modelli comunicativi che non permettono di uscire dai conflitti, l'incapacità a farsi ubbidire, le sensazione di fatica e di stanchezza nel gestire un difficile ruolo. Si finisce per sentirsi, bene o male, in funzione degli altri e a trascurare parti importanti di sé. L'adolescenza dei propri figli aumenta le insoddisfazioni, le frustrazioni e il nervosismo. In molti casi, con figli disabili ma, anche con quelli "normali", dare autonomia significa sentirsi meno "utili", ci si rassegna a delegare e si deve imparare a "lasciare il campo". La sensazione di "inutilità", può derivare dall'autonomia nel decidere l'abbigliamento, nella scelta non condivisibile di fumare, di intraprendere una relazione sentimentale. Tutto questo si complica in presenza di ragazzi i cui problemi hanno assorbito molto del proprio tempo e la loro capacità di scegliere è fragile e talvolta goffa.

Una lettura significativa che lascia spunti per riflettere è un brano di Serrurier: "Elogio alle cattive madri". Può diventare significativo lasciare questa lettura a ciascuno, perché possa portarla con sé a casa, leggerla, associare pensieri, ricordi, obiezioni che possono essere riprese nell'incontro successivo.

"Non si diventa un buon genitore a pedate o a frustate, costringendosi alla virtù. La virtù verrà naturalmente in un genitore che sta bene nella sua pelle ed è contento della sua vita. Se il genitore è felice e disteso (anche se occupatissimo), il suo amore saprà espandersi e moltiplicarsi…Crearsi per procreare…Piacersi, occuparsi di sé, valorizzarsi per avere la giusta distanza con i figli…
Ogni genitore farà meraviglie con i suoi figli nell'apprendimento della vita se si ama un po', se si riconosce delle qualità, se le mette in opera, e se è sufficientemente fiducioso nel suo avvenire perché sa ciò che vale…"
(Serrurier C. 1992, p. 176 - 186).



VIII° INCONTRO


PREMESSA
Nei gruppi di genitori di giovani disabili, un sentimento spesso presente è la scarsa valorizzazione della propria persona oltre che del proprio ruolo. E' dunque una tappa importante quella che li aiuta, partendo dal sentirsi "genitori passabili" che si giudicano con benevolenza e saggezza (Bettelheim B., 1997), a recuperare benessere, tempo per se, per la coppia, andando oltre a quel ruolo che tanto li sta impegnando.


OBIETTIVI DELL'INCONTRO

· favorire nei genitori la consapevolezza che è importante prendersi cura di sé e acquisire fiducia nelle proprie competenze;

· aiutare i genitori a trovare stimoli che li aiutino a valorizzarsi.


METODOLOGIA
Per far riflettere i genitori sulle proprie competenze, è utile, dopo una premessa relativa alla possibilità di trovare benessere e serenità, portarli a socializzare sulle caratteristiche proprie, attraverso esercizi-stimolo e letture significative. Il coinvolgimento di ognuno è fondamentale, e molta efficacia si raggiunge se si riesce a scendere in esempi concreti e meno astratti possibile.


STRUMENTI


(lucido)


COSA AIUTA A PROMUOVERE SERENITA' E BENESSERE

1) Dare un senso alla vita con o senza figli, prima e dopo di loro

2) Piacersi ed occuparsi di se' per avere la giusta distanza dai figli

3) Avere il desiderio di conoscere se stessi e coltivarlo per avere cura di sé

4) riconoscersi qualità, capacità e competenze:

· sia come genitori

· sia come persone


Un ESERCIZIO che può aiutare a riflettere sulle proprie caratteristiche, sia come genitore, ma anche come persona, è quello di stimolarli a pensare a tre qualità generali e positive di sé come genitori e tre qualità positive di sé come persone, entrando anche nel concreto e poi socializzarle.
Mostrare e commentare un lucido con alcuni stimoli su ciò che aiuta a prendersi cura di sé e a trovare soddisfazioni e maggiori spazi di benessere può essere un ulteriore spunto di riflessione da socializzare in gruppo ma, anche, da portare a casa.

(lucido)

PRENDERSI CURA DI SE'

· Organizzarsi il tempo

· Saper fantasticare

· Fare cose che piacciono e facciano ridere

· Coltivare interessi

· Avere amicizie

· Condividere i propri problemi con amici, colleghi, altri genitori, etc...

· Saper chiedere conferme

· Saper chiedere aiuto

· Trovare spazi di coppia

· Non esaurire le proprie energie



IX° INCONTRO


PREMESSA
Sentirsi genitori "sufficientemente buoni" è la base per migliorare le proprie competenze educative, riflettendo innanzitutto sul significato di "relazione educativa" e poi adottando alcune tecniche o strategie specifiche, con la consapevolezza che essere amorevoli non basta al processo di crescita.


OBIETTIVI

· condividere il significato di essere genitori ed educatori;

· raccogliere i punti deboli che ognuno sperimenta nella sue rel azioni educative e favorire lo scambio tra i partecipanti, anche in termini di suggerimenti e confronti;

· fornire informazioni, anche attraverso esempi, relativamente a tecniche di intervento educativo.


METODOLOGIA
Dopo una premessa che introduca il tema educativo, si discute in gruppo, favorendo lo scambio reciproco. E' importante coinvolgere tutti con esempi, racconti di situazioni tipo che ognuno si trova a vivere


STRUMENTI

LA RELAZIONE EDUCATIVA

Ogni persona significativa ha prerogative educative. Essere educatori comporta difficoltà, responsabilità e spesso si è vittime di una scienza non esatta. Educare non significa imporre, giudicare, manipolare, ma si tratta di un termine che in sé contempla il concetto di libertà, non in senso di permissivismo o lassismo, ma nell'accezione di rendere liberi.
Educare significa aiutare ad evolvere, in una relazione che deve essere reciproca perché gli "educatori" siano educati a loro volta. E' necessario rispettare la persona e le sue caratteristiche (difficile soprattutto quando i figli non rispondono alle nostre aspettative).
Gli strumenti più utili e più spendibili sono da ricercarsi nella sfera dell'affettività, a cui si affianca la capacità di dare sicurezza, fiducia, vitalità, attraverso l'esperienza di sé.
Questo compito è davvero complesso e non sempre ciò che è spontaneo è educativo, anche se sbagliare fa parte della complessità delle relazioni umane. E' importante domandarsi, sperimentarsi, conoscere, prendere consapevolezza di sé.
Da una parte ci sono i genitori con i propri stili educativi-relazionali e dall'altra è altrettanto importante osservare i ragazzi ed i loro bisogni, macro bisogni, che nascono con l'adolescenza.

Riconoscere i bisogni significa considerarli, capire e soddisfare. Il bisogno si manifesta sovente come disagio che può generare il conflitto; fa parte della relazione educativa che un genitore instaura il saperlo gestire con il minor grado di malessere e disfunzionalità. Attivarsi verso il conflitto e verso i bisogni retrostanti significa ascoltare, dare messaggi pensati e talvolta strategici che aiutino a rafforzare l'autostima e a promuovere la fiducia.

(lucido)

RISPONDERE CON MESSAGGI POSITIVI AI BISOGNI
RISPETTO A

(lucido)


SAPER ASCOLTARE

· GUARDANDO L'INTERLOCUTORE

· MANTENEDO IL CONTATTO VISIVO (troppi cenni di assenso possono significare fretta o pensare di aver già capito, viceversa troppa immobilità può significare indifferenza o difesa)

· TENENDO IN GRANDE CONSIDERAZIONE IL TEMPO E IL LUOGO DELL'ASCOLTO

· TRASMETTENDO IL RICONOSCIMENTO DEL MESSAGGIO, LA SUA ACCETTAZIONE E COMPRENSIONE (ASCOLTO ATTIVO)

· RIFORMULANDO I MESSAGGI PIU' PROFONDI:

Ø vediamo se ho capito
Ø mi stai dicendo che...
Ø mi sembra che...
Ø ti senti...


· PONENDO ATTENZIONE ALLA FORMULAZIONE DELLE RISPOSTE (non impersonali, non centrati su di lui, ma usando la prima persona)

· AVENDO RISPETTO DEL SILENZIO (che spesso fa paura o imbarazza, ma che può significare molte cose: provocazione, soggezione, tempo di riformulazione dei pensieri, commozione, difesa, …)

 

X° INCONTRO


PREMESSA
L'ultimo incontro è un momento in cui il gruppo, genitori e conduttori, fanno un bilancio complessivo dell'esperienza, accogliendo critiche, proposte.


OBIETTIVI DELL'INCONTRO

· valutare il grado di soddisfazione e di utilità del percorso fatto con il gruppo

· raccogliere proposte per eventuali aggiustamenti e modifiche;

· congedare il gruppo mantenendo la disponibilità ad accogliere eventuali problematiche individuali su cui è richiesto un confronto;

· offrire la possibilità di richiedere eventuali incontri con tematiche specifiche su cui il gruppo sente la necessità di lavorare e confrontarsi.


METODOLOGIA
Per concludere il percorso è importante ritrovare il filo conduttore e gli obiettivi fondamentali che hanno permeato gli incontri. E' utile dare spazio alla libera espressione di ognuno, sottolineando che è proprio dal contributo di tutti che il gruppo ha preso forza. I suggerimenti devono essere realmente ascoltati e considerati. Per facilitare lo scambio e per documentare il contributo di ognuno, vanno annotati tutte le critiche e i suggerimenti e si può proporre una scheda, anonima, che rilevi l'opinione dei partecipanti.

 

STRUMENTI

SCHEDA DI VALUTAZIONE DEGLI INCONTRI

E' nostra intenzione migliorare la qualità degli incontri sia per ciò che concerne le tematiche che il metodo. Per farlo, ci serve il Vostro contributo: Vi chiediamo, pertanto, di compilare questa scheda che resterà anonima, in modo libero. GRAZIE!

1) Quali obiettivi hanno avuto, per voi, questi incontri?

a. Mi hanno aiutato nella relazione con mio figlio
b. Facevano parte delle richieste della scuola di mio figlio
c. Mi faceva piacere stare con altri genitori con cui condividere le mie riflessioni
d. Mi sono sentito, in qualche modo, in obbligo a partecipare
e. Altro……….

2) Ho partecipato:

a. In coppia
b. Singolarmente
c. In modo alternato

3) Cosa mi aspettavo da questi incontri?

a. Che mi venissero dati consigli utili per migliorare la mia relazione con mio figlio
b. Che venisse tenuta una lezione psico-didattica su come si diventa buoni genitori
c. Che si potessero scambiare opinioni tra i partecipanti
d. Che ognuno, e quindi anch'io, potesse portare le proprie esperienze e ascoltasse quelle altrui
e. Altro…

4) Qual è il livello di soddisfazione che mi deriva da questi incontri?

a. Basso
b. Medio
c. Medio-alto
d. Alto

5) Da cosa sono dipesi i momenti in cui non Vi siete sentiti soddisfatti?

a. Dai conduttori che non hanno risposto ai miei bisogni
b. Dalle tematiche troppo difficili
c. Dal non essere compreso pienamente e quindi dal non essermi potuto esprimere pienamente
d. Dall'essere stato troppo coinvolto da tematiche personali e dolorose

6) Quali cambiamenti introdurreste?
a. Maggior spazio ai problemi individuali
b. Maggior spazio per parlare dei figli
c. Maggiori parti teoriche
d. Maggior partecipazione da parte di tutti
e. Altro…

7) Quali sentimenti sono stati predominanti durante gli incontri?
a. Entusiasmo e curiosità
b. Paura del giudizio degli altri
c. Accettazione del mio modo di essere, di fare e di pensare
d. Imbarazzo di dover partecipare attivamente
e. Altro…

8) Come penso di essere cambiato dopo questi incontri?
a. Non mi sento cambiato
b. Faccio tentativi per cambiare modo di relazionarmi con mio figlio
c. In qualche occasione utilizzo gli spunti che ho appreso dagli incontri
d. Sono stato stimolato a pensare ma non trovo riscontro pratico
e. Altro…

9) Continuerei gli incontri il prossimo anno?
a. Si, se organizzati a tematiche specifiche
b. Si, se avessi la possibilità di esprimermi maggiormente
c. Si, nello stesso modo
d. Preferirei un lavoro individuale o di coppia
e. Altro

E' FACOLTA' RISPONDERE:

- Punti deboli degli incontri:….

- Punti di forza:….

- Suggerimenti:……

 


Conclusioni


L'applicazione di questo "Programma di Accompagnamento" così strutturato sarà un'importante strumento di lavoro per l'anno scolastico 2000/2001 del Centro di Formazione Professionale ed Inserimento Lavorativo della Provincia di Varese.
La costruzione del "Programma di Accompagnamento" per genitori, realizzato dalla struttura formativa che si occupa di preparare il figlio disabile ad affrontare il mondo del lavoro (attuando un percorso educativo parallelo tra genitori e figli), mediato da operatori (assistente sociale e psicologa) coinvolti e partecipi alla definizione di progetti che consentano ai giovani disabili di andare verso il mondo dei grandi (per come e per quanto possibile a ciascuno di loro), ha come obiettivo di aiutare i genitori ad accettare i rischi presenti nella nostra società, non sempre accogliente e disponibile.

Il disabile ha bisogno di una famiglia che possa essergli di aiuto e che non costituisca un ulteriore ostacolo. Nello stesso tempo la famiglia non può e non deve essere lasciata sola a gestire un figlio che richiede molte più energie e risorse. Abbiamo raccontato come la famiglia rappresenti il primo e più importante agente educativo con il quale i servizi e gli operatori devono saper costruire un rapporto di collaborazione e di "alleanza educativa". E' la famiglia che, occupandosi quotidianamente del figlio, conosce i bisogni, i limiti e le risorse; essa deve costituire il soggetto privilegiato delle attenzioni e dei percorsi di aiuto.
Il condividere con altri genitori e con gli operatori porta ad andare oltre il proprio problema e al voler contribuire alla costruzione di una cultura più accettante nei confronti della diversità.
E' la trasformazione di "un problema" in un percorso di crescita e di valorizzazione della propria esperienza di genitore e di uomo che, attraverso un atteggiamento positivo e costruttivo, può diventare soggetto di storia e di evoluzione culturale.

Una riflessione che spesso i genitori ci trasmettono, al termine dell'itinerario con noi realizzato, è che quel figlio "un po' scarso e un po' mal messo" gli ha permesso di scoprire e di prendere coscienza di nuovi valori, attraverso un percorso che, pur carico di sofferenza, consente di scoprire in ogni uomo l'autenticità dell'accoglienza e dell'accettazione.

I genitori possono trovare conforto
nel sapere che i loro figli non sono inutili,
ma che le loro vite, limitate come sono,
rappresentano un grande valore potenziale per il genere umano.
Impariamo dalla malattia come dalla salute,
dagli handicappati come dai superdotati, e forse di più.

Pearl Buck


Riferimenti normativi

LEGGE 482/68
Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche amministrazioni e le aziende private

LEGGE 118/71
Conversione in legge del D.L. 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili

LEGGE 517/77
Norme sulla valutazione degli alunni e sull'abolizione degli esami di riparazione, nonché altre norme di modifica dell'ordinamento scolastico

LEGGE 845/78
Legge Quadro in materia di formazione professionale

LEGGE 104/92
Legge Quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate

LEGGE 68/99
Norme per il diritto al lavoro dei disabili



Bibliografia


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Altri testi consultati

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