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“Ho sposato la vita” di Leonardo Margarito
di Giovanna Bruco




 

Ci è stato chiesto da un giovane amico da poco diciottenne di spendere qualche parola sul suo primo libro che ci porge. Restiamo perplessi di fronte all'immagine di copertina. Il suo volto è coperto da una striscia bianca sulla quale risalta il titolo “Ho sposato la vita”. Per nostra formazione il volto è sempre espressione di una identità che si pretende non debba mai nascondersi e, ricordandoci di quanto recentemente citato in una nostra recensione sul libro di Massimo Gramellini Prima che tu venga al mondo "Tutti si chiedono da sempre se esiste una vita dopo la morte  ma farebbero meglio a chiedersi se ne esiste una prima della morte", mentre il nostro sguardo si sposta sulle mani giunte in preghiera sotto gli occhi nascosti ci chiediamo a quale vita il giovane esordiente intenda riferirsi. Quando ci dice che il suo libro racconta la storia di Don Gianfranco Rolfi, il Priore della chiesa di S. Felice in Piazza, “un uomo che ha fatto dell'umiltà e della semplicità i suoi precetti di vita, le sue costanti” non siamo riusciti a tirarci indietro.

L'introduzione sa avvincere con parole fresche, vivaci, sincere. L'autore confessa apertamente di voler comunicare “l'impronta della propria personalità” che gli deriva certo dai genitori ma che ha potuto sviluppare e consolidare soprattutto attraverso gli insegnamenti ricevuti dall'amico Gianfranco fin da quando era ancora piccolo e molte volte bisticciavano.

Il testo poggia chiaramente su una struttura di pensiero non astratto. Sappiamo che il giovane Margarito è già da anni coordinatore delle attività dell'oratorio S. Filippo Neri dove tra una iniziativa e l'altra prepara anche i ragazzi ai sacramenti cercando - a quel che ci è stato dato di vedere - di orientarli oltre sterili atteggiamenti fideistici che potrebbero impoverire la dottrina trasmessa.  Percepiamo il carattere non razionale, intuitivo, di una espressione linguistica legata alla “esperienza” in un ritmo di scrittura che non si concede cali di tono. La narrazione sul protagonista tiene ben legati insieme cinque capitoli prima che i suoni diventino più descrittivi nella prima appendice su la storia della Chiesa di San Felice, o altamente poetici nella seconda che raccoglie le poesie edite e non del Priore.

Nel capitolo “Il bresciano rischiatutto” ci viene raccontato di come Gianfranco Rolfi, operaio di una piccola azienda che produceva elettrodomestici, diventato campione al famoso telequiz condotto da Mike Buongiorno dopo aver risposto per otto settimane alle domande su Storia della Chiesa, riuscì a vincere 16 milioni di lire che gli consentirono - all'inizio di un percorso imprevedibile e impegnativo - di andare a studiare in seminario a Roma.

Nelle pagine che seguono intrigante è il ricordo del contesto politico fiorentino prima e dopo che l'arcivescovo Silvano Piovanelli assegnasse al Rolfi la parrocchia di San Felice, così come è ben tracciata la cornice dei fatti storici che hanno segnato in periodi diversi la storia di Firenze: dagli eccidi del primo dopoguerra quando il convento di S. Felice fu usato come ospedale temporaneo a tutt'oggi non dimenticato da costanti visitatori, all'alluvione del 1966, all'attentato dei Georgofili del 1993.

Vicende ecclesiali che non cesseranno di riproporsi vengono esposte nel capitolo “Un eterno conflitto”. Che più degli altri vogliamo lasciare alla libertà interpretativa del lettore essendoci sembrato una esortazione a riesaminare le recenti indicazioni dottrinali sull'esercizio del discernimento. Termine ricorrente nella tradizione cristiana perché Gesù stesso invita le persone a pensare con la propria testa "perché non giudicate voi stessi cosa è giusto? Lc 12, 56-57", quanto raccontato a proposito di certi avvenimenti che hanno scosso la vita parrocchiale di S. Felice richiama chiaramente a quella responsabilità soggettiva - che potrebbe essere uno scopo del libro - e che S. Paolo sintetizza nel "Tenete ciò che è buono" come processo che regola l'essenza cristiana. 

Ci preme dire che ciò che colpisce nel corso della lettura non sono tanto i fatti quanto lo straordinario interesse-affetto, che è la vera anima del libro, con cui la storia di don Rolfi viene raccontata dopo essere stata ripresa e risollevata da passate circostanze di fraintendimenti. 

Nel capitolo che parla della “Storia di un Presepe frainteso e vilipeso” - diversamente da come quel presepe fu definito “non tradizionale” con una certa asprezza - ne viene raccontata la buona intenzionalità sotto il “gran bel brutto carattere” del suo artefice. L'autore riesce a spogliarlo con leggerezza da comportamenti che apparvero provocatori e che da quel fantasioso natale potrebbero aver reso traballanti i rapporti del priore con le gerarchie ecclesiastiche. 

Una scrittura volta a cercare pacifiche vie d'uscita sa mettere in luce lo scopo pastorale di una iniziativa, forse un po' troppo originale, attraverso la ricostruzione di immagini senza dubbio ardite ma che potevano pur esser viste da angolature più ampie. 

Lo snodarsi della narrazione porta a far riflettere sul come sia difficile conoscere la realtà più vera di persone pubbliche costrette a rapporti fuggevoli e tenta di rispiegarne accadimenti travisati prospettandoci la speranza di rapporti nuovi e diversi dove nella collaborazione ci si possa allo stesso tempo distinguere evitando che molti ragazzi si allontanino confusi dagli oratori.  

La stessa chiarezza di intenti nel voler difendere il suo amico Gianfranco ritroviamo nel quarto capitolo “Lo stregone di S. Frediano” dove la costante affettività che vuol guidare la conoscenza invita giornalisti ad approfondire il filo non sottile che separa fede e superstizione. 

Ed è ancora sulle orme di un onesto vissuto personale che arriviamo passo dopo passo all'ultimo capitolo dal titolo - che non poteva essere diverso - “Amor Vincit Omnia”. 

Dunque si rassegni il lettore a una narrazione incalzante che costringe a leggere il testo tutto d'un fiato come è successo a noi.  La copertina che ci aveva disorientato ricordandoci il Savonarola era stata forse investita da un eccesso di interpretazione. Nel libro la simbiosi temuta che può creare disordine nell'identità non c'è.   L'agiografia è materia della quale non ci siamo mai occupati ma a conferma di quanto raccontato da questo giovane autore ci vien da pensare che il percorso di certi sacerdoti con vocazioni determinate e speciali, “servi inutili” come sta scritto, ovvero senza profitto, sia il più delle volte un cammino di solitudine.

Solo alla chiusa del libro, quando leggiamo con più attenzione il sottotitolo “Storia di una esistenza appassionata” non possiamo fare a meno di ricordare un’altra nostra recensione apparsa nel lontano 2001 nel quarto numero della rivista di psichiatria “Il sogno della farfalla” sul libro del filosofo Sergio Moravia “L'esistenza ferita. Modi d'essere, sofferenze, terapie dell'uomo nell'inquietudine del mondo”.

Andiamo a rileggere quanto da noi citato. Sostiene Moravia: "La mia tesi è che momenti di solitudine risultano assolutamente indispensabili per un viaggio di indagine e scoperta all'interno del nostro Io." Sottolineando che la scelta della solitudine può significare non il rifiuto della vita ma di certa vita, ci riconduce a Oblomov di Ivan Goncarov, ad Hans Kastorp de La montagna incantata di Mann, alla Recherche di Proust. "Come mai - si chiede - forse tra solitudine e verità c'è un vincolo che, invisibile, ci trascende? Mi vado sempre più convincendo senza gioia che è così."

Ringraziamo Leonardo Margarito della sua sentita testimonianza e della opportunità di averci fatto ricordare nostri pensieri in assonanza. La scrittura, diversamente dalle preghiere a volte inconsapevolmente insincere, non riesce a nascondere mai il nostro vero volto ma lo disvela.





 
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